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Chimera: Mitzi Peirone racconta il suo esordio e la sua esperienza negli USA a longtake

Abbiamo partecipato a una tavola rotonda con la giovane regista italiana Mitzi Peirone in occasione dell'uscita nel nostro paese del suo esordio Chimera (Braid). Il lungometraggio, presentato in anteprima al Tribeca Film Festival 2018, è un intenso thriller psicologico che si concentra sulla tossica relazione tra tre ragazze amiche d’infanzia. La sinossi ufficiale e il trailer del film, già disponibile alla visione:

Come tante prima di loro, Petula e Tilda hanno dovuto rinunciare al sogno di diventare artiste a New York e sono costrette a spacciare per permettersi di vivere nella grande città. A causa di una soffiata, perdono ottantamila dollari di stupefacenti e hanno solo quarantotto ore di tempo per ripagare il debito. Pianificano di mettere a segno una rapina ai danni di Daphne, una loro ricca amica agorafobica e schizofrenica che vive nel mondo fantastico che le tre hanno creato da bambine…

Mitzi è partita da Torino a soli 19 anni ed è riuscita a esordire grazie a una campagna di crowd-funding in cripto valute. In Chimera ha cercato di raccontare tanto la sua infanzia in Italia, quanto la sua nuova vita negli Stati Uniti.

Quali sono state le difficoltà che hai dovuto attraversare per realizzare Braid e quali quelle che stai vivendo nella complicata situazione attuale?

Ho passato l’inizio dei miei vent’anni sperando di poter fare questo film, pensando che dopo aver fatto il primo tutto sarebbe stato in discesa. Ma ho scoperto, anche prima della pandemia, che non era così e credo che la natura di quest’industria sia mettere tutti costantemente in un'audizione per le stesse parti. Non importa quanti film facciamo: la maggior parte delle persone che lavorano nel cinema per quanto possano per un periodo essere sotto i riflettori, devono prima o poi fare i conti con la concorrenza […]. Quando mi hanno chiesto se nella mia vita potessi affrontare l’incertezza del quotidiano, ho risposto di non trovarmi a disagio in uno stato di difficoltà o di caos o di buio, questa è la maniera in cui la mia personalità, la mia anima funziona. Sto affrontando la situazione in modo razionale: era già difficile prima della pandemia fare la regista, figurarsi essendo giovane e immigrata, ma non mi sento scoraggiata, credo che chiunque sia nella mia posizione debba pensare a farsi nutrire dallo stato delle cose, dalle difficoltà, perché credo che le sfide ci definiscano. Non temo questo momento e sono sicura che riusciremo a scrivere delle cose ancora più belle, ancora più profonde.

Come è nata l’idea delle tre protagoniste (Madeline Brewer, Imogen Waterhouse e Sarah Hay)?

Sono tutte una parte di me: mi sveglio ogni giorno come se fossi una persona diversa. Dafne è il controllo, sente il bisogno di essere madre e prendersi cura degli altri […]. Tilda è l'eterna bambina, il personaggio che vuole essere adulto ma è più a suo agio quando priva di responsabilità, mentre Petula vuole essere ammirata senza mettersi in mostra. Tutte e tre compongono una persona sola e credo che ognuno di noi viva questo contrasto tra il voler essere in controllo e il non voler prendersi responsabilità […]. Malgrado la relazione tossica è pur sempre una relazione di famiglia. Le protagoniste preferiscono essere assieme in questo abbraccio malato, piuttosto che dover affrontare l’incertezza dell’esterno della casa […] in un permanere in una prigione psicologica che per quanto le faccia star male resta un'ancora cui aggrapparsi.

Il crowd-funding è stata una scelta o una necessità?

Dopo esser arrivata a New York per studiare teatro, ho iniziato a studiare sceneggiatura. Non avevo alcun contatto, non avevo nessuno. La tendenza tra il 2013 e il 2015 era cercare finanziamenti attraverso il crow-funding, ma la difficoltà a raccogliere cifre elevate era evidente e ho pensato che l'industria del cinema indipendente non potesse avere solo questo come strumento. Quasi impossibile raggiungere più di 15000 dollari ed erano insufficienti per il livello del film che volevo fare io. Nel 2016 ho conosciuto il CEO di una Blockchain Tech Company che mi ha spiegato gli albori di Bitcoin e mi ha mostrato come raccogliessero soldi per investimenti nel settore tecnologico. La mia idea è stata quella di utilizzare la piattaforma per il film e sarebbe stato perfetto perché rispecchia le caratteristiche del cinema indipendente: idee nuove, coraggiose e originali, ma assenza di fondi […]. Ho pensato che l'unica reale problematica fosse offrire un ritorno visto che la cifra richiesta era di 1,7 milioni di dollari […]. Ho scelto di offrire un guadagno pari al 30% del budget trasformando il mio film in un investimento.

Il film è strutturato su diversi livelli, ma concentrandoci sull'aspetto visivo, come hai lavorato con i colori? Dove è nata l'idea di utilizzare il bianco e nero per suscitare inquietudine?

Con i colori volevo creare un'atmosfera che avesse qualcosa di fiabesco, di celebrale, volevo che fossero vividi, evidenziati perché ci muoviamo tra la dimensione del sogno, tra i ricordi e, ad esempio, il cambio di tonalità nella sequenza in cui Tilda assume droghe, non è una questione di allucinazioni ma è la realtà attorno che diventa livida, come un trauma che è quasi da tragedia greca con la natura che diventa parte del loro stato d'animo. Il bianco e nero, che è stato in realtà molto criticato, è stato utilizzato perché proprio in una realtà così esaltata, così barocca e strabordante di colore, volevo che i momenti di shock e inquietudine, di vero contrasto con la realtà in cui le ragazze si rendono conto di ciò che accade, fosse espressa da uno stacco in bianco e nero molto ruvido, molto reale.

Come mai hai scelto il titolo di Braid? La «treccia» potrebbe rimandare alle tre ciocche di capelli che si legano tra loro? Dove hai trovato la meravigliosa villa che fa da location al film?

Sì, il titolo nasce da quell’immagine e rimanda anche a Freud (Io, Es, Super Io), ma il riferimento più preciso è James Braid, padre dell’ipnotismo, che nell'Ottocento aveva teorizzato una cura della mente per cambiare il corpo […]. La villa è legata invece al ricordo della mia infanzia, ai miei nonni che vivevano a Boves (Cuneo). Lì ho passato molto tempo con mia nonna Mitzi e con i miei fratelli. Lei ci stimolava, ci faceva giocare e le devo tantissimo. Braid è ambientato in parte proprio in quella villa in Italia […], mentre altre sequenze sono state girate in una famosa casa a nord di New York ed è la stessa dove hanno girato I Tenenbaum (2001). Le sequenze girate in bagno sono espliciti omaggi alle iconiche scene di Luke Wilson nel farsi la barba e Gwyneth Paltrow nella vasca.

Infine, a cosa stai lavorando e cosa ti aspetta nel prossimo futuro?

Ho scritto un film di fantascienza su una crisi tecnologica […]. Sono partita da alcune idee che ho apprezzato da Her di Spike Jones, voglio raccontare una società che rifiuta l'idea di instabilità in favore di un'organizzazione che ricorda Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Sarà ambientato nel 2091, ho idee molto chiare a riguardo e ho lavorato molto sul racconto dell'intervallo temporale tra oggi e quell'anno, è come se prima di scrivere il film avessi riflettuto su cosa possa accadere nel futuro attraverso i problemi del nostro tempo. Le migrazioni saranno dovute al climate change […]… Cerco di scrivere delle cose che mi spaventano e quindi sto cercando di raccontare la temperie di scontri e rivolte che ha attraversato, tra le tante cose, quest’ultimo anno […]. Seguiremo un giorno nella vita della protagonista Scarlett e pochi altri sopravvissuti. Si chiamerà Ultra Mundus  ed è l’ideale prosecuzione di Braid.

Si ringrazia la casa di distribuzione Blue Swan Entertainment.

A cura di Andrea Valmori

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