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Clint Eastwood 90: Un mondo perfetto, Changeling e la perdita dell'innocenza
Il dittico ideale composto da Un mondo perfetto (1993) e Changeling (2008) occupa un posto particolare nel cinema di Clint Eastwood: due film realizzati a distanza di quindici anni, ma accomunati da uno sguardo ugualmente acuto sull’infanzia e sulle zone d’ombra tanto dell’America quanto dei suoi elementi identitari più archetipici e chiaroscurali. 

In Un mondo perfetto siamo nel Texas del 1963. La notte di Halloween, Butch Haynes (Kevin Costner) evade di prigione, prende in ostaggio il piccolo Philip (T.J. Lowther) e inizia con lui una fuga disperata. A capo di una serrata caccia all'uomo, il capo della polizia Red Garnett (Eastwood) e l'esperta criminologa Sally Gerber (Laura Dern) non danno tregua ai due fuggiaschi, ingaggiando con loro una serrata lotta a distanza che sconfinerà in un tragico epilogo.

Analogamente al di poco precedente Gli spietati (1992), del quale abbiamo parlato ieri nel nostro primo approfondimento dedicato a Eastwood in occasione dei suoi imminenti novant’anni (lo trovate allegato in fondo all'articolo), Un mondo perfetto è uno degli apici della maturità della sua carriera da regista e, al contempo, un film che segna un punto di non ritorno nel lavoro eastwoodiano sui codici morali e politici della propria nazione. Dalla sua prospettiva notoriamente conservatrice, ma non esente da slanci umanisti, il cineasta originario di San Francisco compone una sorta di apologo in cui contorni dell’America di una volta sfumano mirabilmente, muovendosi a metà strada tra malinconia e crepuscolarismo, tra aderenza ai valori del passato e consapevolezza forzata con un nuovo presente. 

Una contemporaneità nella quale i confini tra torto e ragione si sono fatti sempre più labili e inconsistenti e non è più tempo né per giustizieri privati e granitici dal grilletto facili né per galeotti fuggiaschi, condannati (si fa per dire) a un viaggio senza meta attraverso il paesaggio americano. Un movimento orizzontale e costante che non è più, però, un appropriarsi fisico dello spazio-tempo, ma un’astrazione nostalgica: l’idillio di una terra dell’opportunità forse mai concretizzatasi appieno, colpevolmente sbilanciata tra la potenza delle proprie possibilità illimitate e una serie di atti mancati e traiettorie perdute. 

Siamo dopotutto all’alba dell’assassinio di Kennedy, in Un mondo perfetto, ovvero a ridosso del giorno in cui gli Stati Uniti persero per sempre la propria “innocenza”. Ed è proprio di questo sentimento - di perdita e struggimento - che il film parla, evitando tanto il ricatto delle lacrime facili, che pure nell’epilogo sgorgano copiose, e soprattutto raccontando tale spaesamento con lo strumento più ancestrale e condiviso possibile: l’infanzia negata, in questo caso quella del del piccolo Philip (ma anche di un’intera nazione, nata adulta ma sprovvista di passato), fatta di pochissime luci e in compenso di una miriade di fantasmi che si addensano nel suo vissuto e nelle peregrinazioni accanto al bandito Butch (e ai doppi e ai riflessi vissuti come sbarre poste sul proprio cammino, dopotutto, alludono già inequivocabilmente le prime sequenze carcerarie).



Il loro legame è una zona franca in cui l’infanzia e l’età adulta si sfibrano e si confondono a vicenda, un luogo immaginario e dell’immaginario (ovviamente a stelle e strisce): una sorta di capsula in cui viaggiare nel Texas equivale a viaggiare attraverso il tempo, “a stare da soli per correre dietro al destino”. Il costume da fantasmino di Philip e l’iconica, ricorrente presenza di Casper all’interno di Un mondo perfetto restituiscono, con la forza impareggiabile di ogni simbolo di disarmante purezza e semplicità che si rispetti, la componente spettrale del film: Casper dopotutto nasce negli anni ’40, un decennio fondamentale per codificare l’anima noir dell’America (e del cinema americano) attraverso le storie realizzate in quel periodo per il grande schermo, ed è curiosamente solo due anni dopo Un mondo perfetto, nel 1995, che il fantasmanino malinconico dal passato umano, fatto di ricordi paterni, innevati e poco nitidi, troverà la sua più nota e popolare rappresentazione nel cinema mainstream grazie al celebre film di Brad Silbering





Alla fine di Un mondo perfetto, in un impeto metacinematografico, il personaggio di Laura Dern chiede a quello di Clint Eastwood, che non a caso si mette in scena nei panni del poliziotto aderendo alla sua consueta iconografia, se sia per caso convinto di aver fatto tutto il possibile. “Non lo so, e non lo voglio sapere”, risponde Garnett, lavandosi le mani in maniera pilatesca dell’accaduto ma gettando anche un’ombra lunga sull’esercizio della legge e della giustizia. Qualcosa su cui il cinema di Eastwood si è interrogato spesso, e che torna prepotente proprio in Changeling

In questo caso siamo nella Los Angeles 1928, dove il figlio di Christine Collins (Angelina Jolie), nove anni, scompare nel nulla. Cinque mesi dopo la polizia, ansiosa di risolvere il caso, riconsegna alla madre un altro bambino e, di fronte alle proteste della donna, la fa rinchiudere in manicomio. Nel frattempo a emergere sarà una verità agghiacciante che potrebbe riguardare la scomparsa del ragazzo.

In Changeling Eastwood si ispira a un controverso e scioccante fatto di cronaca, a partire da una sceneggiatura di J. Michael Straczynski, noto fumettista e dunque estremamente sensibile al trattamento immaginifico di simboli ed eroi destinati anche e soprattutto al mondo dell’adolescenza. I fantasmi di Un mondo perfetto tornano tutti a invocare il proprio tributo, ma stavolta non c’è spazio per alcuno spiraglio avventuroso e la cupezza è lancinante, tanto da sfociare nella requisitoria, nella presa di posizione civile, nel pamphlet di denuncia (con una colonna sonora, tenue e toccante, firmata decisamente non a caso dallo stesso Eastwood, che sente qui più che mai il bisogno di accarezzare direttamente le sue immagini). 

I Wineville Chicken Murders commessi dal serial killer Gordon Northcott, che fanno il paio con un stato di polizia a tinte fortemente corrotte e inclini alla malagiustizia, sono il punto di partenza di un dramma di una solidità abbagliante: la scena in cui a Christine viene concesso di incontrare il pluriomicida, ad esempio, ha la forza lucente di alcune delle migliori pagine di Truman Capote ed è esaltata oltretutto dal gioco dei contrasti della fotografia del sempre valido Tom Stern. Ma quel che più conta, in Changeling, è che il senso di responsabilità è, per tutti i personaggi al di fuori della protagonista e del suo bambino, un peso e una zavorra insopportabile: ciò vale per il padre del piccolo, fuggito al momento della sua nascita, per i tutori dello Stato, per il sistema carcerario come per quello giudiziario.



A emergere, in questo campo minato di indifferenza tetra e imperdonabile, è il dolore incrinato ma orgoglioso di una madre coraggio lucida e sofferta, e paradossalmente anche l'imperturbabilità sospetta del bambino, novello fantasma di questa storia durissima: prima di dissolversi nel nulla dichiara di non avere paura di nulla, nemmeno del buio, e in compenso desidera tantissimo andare al cinema con la madre a vedere i film di Charlie Chaplin e sentire gli show radiofonici di Amos 'n' Andy, storico duo della cultura afroamerica in voga in quel periodo con le loro sitcom.

Nella rappresentazione di una Los Angeles che da città degli angeli (custodi) si è ridotta a regno degli aguzzini, pozzo nero di intimidazioni senza più sceriffi né cavalli che non siano al servizio della corruzione, l’eco lontano del cinema e della radio, accarezzato da un bambino, rimane l’unico barlume di tenerezza da stringere al cuore per controbilanciare il cuore, quello nero, dell'America. Non è un caso, dopotutto, che a ridosso del finale di Changeling Christine Collins scommetta sulla vittoria poi effettiva di Accadde una notte agli Oscar del 1935, contro l'a suo dire sopravvalutato ma favorito Cleopatra di Cecil B. De Mille (quello di Frank Capra fu il primo film a conquistare tutte e cinque le statuette principali, un impresa riuscita poi solo a Qualcuno volò sul nito del cuculo e a Il silenzio degli innocenti): un barlume, tardivo ma nitidissimo, di speranza in un mondo imperfetto già al collasso.





Davide Stanzione
Maximal Interjector
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