CortoCircuiti - Dal libro al film: il caso Psycho - I vostri contributi!
02/03/2023
Durante il CortoCircuito dedicato alla trasposizione dal libro al film, impostato prendendo come esempio il caso Psycho, abbiamo chiesto ai partecipanti di esporre un loro commento, uno spunto o un'analisi di altri esempi di trasposzioni da libro a film. Pubblichiamo con molto piacere alcuni validissimi contributi, che hanno arricchito la discussione plenaria e contribuito a fornire ulteriori elementi di riflessione su questa importante tematica.

CortoCircuiti cineletterari
di Lucia Cirillo
“La vita di Adele” è il riadattamento (non integralmente fedele) cinematografico di un graphic novel dal titolo “Il blu è un colore caldo”. Le ragioni che hanno suggerito questo titolo dopo le suggestioni attorno alla genesi e realizzazione di Psycho sono, ovviamente, non legate alla somiglianza tra le due storie, quanto piuttosto ad una certa modalità di approccio da parte dei registi rispetto al passaggio dalla parola scritta a quella per immagini. Quello che rende le due opere assimilabili sono attribuibili a certi passaggi “tecnici” di trasformazione dalla costruzione letteraria a quella cinematografica.
Hitchcock, ad esempio, in fase di realizzazione si avvalse spesso dello story board, a suo modo riconducibile ad una sorta di graphic novel molto utile ad agevolare la costruzione delle atmosfere percepite durante la lettura da tradurre in racconto filmico. Ne “La vita di Adele” questo passaggio non ha subito mediazione, trattandosi di un graphic novel con poche battute e moltissime tavole, in cui si enfatizzano i volti e le molteplici sfumature espressive delle protagoniste, capaci di rendere immediatamente emozioni e stati d’animo.
Inoltre, come per Psycho, anche nel caso della vita di Adele è stato indicato un finale diverso ed inoltre alcuni personaggi hanno nomi diversi (Adele, nel libro è Clememtine), come pure certe figure di contorno che hanno peso e funzioni anche sostanzialmente  rivisitate. C’è qualcosa, nelle esperienze di “libero adattamento” rispetto al testo scritto che rende alcuni film un omaggio, spesso con un notevole valore aggiunto, che restituisce un maggiore rilievo al “come” quella storia viene rimodulata, piuttosto che al “cosa” viene semplicemente ricopiato fedelmente dal testo di partenza.
In entrambi i casi quello che si tenta di fare sin dai primissimi fotogrammi è di innescare immediatamente una “spirale” in cui avvolgere lo spettatore per tenerlo avvinghiato, ora con la suspense per un mistero che è tale soltanto per il personaggio ma non anche per lo spettatore, ora con la forte empatia verso un’adolescente inquieta, rendendoci partecipi di una storia che sembra già essere nostra molto più di quanto lo sia per i protagonisti stessi. Il legame tra i due film ha, in altre parole, molto a che fare con il modo in cui viene trattato lo spettatore. Non a caso per Kechiche  si è parlato di regista antinarrativo, per il quale cioè il cinema è un pretesto per veicolare una condizione interiore e il contesto ne è lo strumento rappresentativo più diretto e, d’altra parte, cosa più dell’arditezza di Psycho col suo “abbandono” della protagonista femminile a metà film se non quanto di più antinarrativo ci possa essere nella grammatica ortodossa di tutto il cinema fino ad allora conosciuto?
I due film sembrano rispondere con lo stesso spirito ai testi che li hanno ispirati, diventando altro pur traendo da quella matrice una imprescindibile linfa. I riferimenti letterari sono diversi rispetto agli esiti dei rispettivi film, eppure senza di essi forse la genesi di certi capolavori del cinema non si sarebbe mai avuta. Ed è forse questo che rende profondamente interessante il legame tra certi “liberi adattamenti” rispetto alle fedeli, ma irrimediabilmente asettiche, riproduzioni dei testi

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Dal libro al film: Il buio oltre la siepe
di Martina Cossia Castiglioni
To kill a mockingbird (Il buio oltre la siepe) di Harper Lee viene pubblicato nel luglio del 1960. L’autrice è al suo esordio letterario, e il romanzo ha un grande e immediato successo, tanto da vincere il Premio Pulitzer per la Letteratura l’anno successivo. 
In una cittadina del Sud degli Stati Uniti l’avvocato Atticus Finch è incaricato della difesa di Tom Robinson, un uomo di colore accusato ingiustamente di aver violentato una donna bianca. La storia è raccontata in prima persona dalla figlia di Atticus, Jean Louise detta Scout, ormai adulta, ma dalla prospettiva e con lo sguardo dell’infanzia.
C’è anche un’altra linea narrativa importante nel romanzo, quella del mistero di casa Radley, dove da anni è recluso Arthur «Boo» Radley, descritto dagli abitanti della città come una sorta di Uomo Nero, e che Scout, il fratello maggiore Jem e l’amico Dill vorrebbero «stanare». 
L’ispirazione di To kill a mockingbird è in parte autobiografica. Harper Lee ha trascorso la giovinezza a Monroeville, una cittadina dell’Alabama molto simile all’immaginaria Maycomb del libro; il padre, Amasa Coleman Lee, era avvocato e Harper andava spesso in tribunale ad ascoltare le sue arringhe. I giochi di Scout, Jem e Dill, molto importanti nella prima parte del libro, sono il ricordo di quelli dell’infanzia dell’autrice con il suo vicino e amico Truman Capote (che ha ispirato il personaggio di Dill).
Tuttavia, in un’intervista del 1962, Harper Lee sottolinea che il romanzo non va interpretato come interamente autobiografico, e che lei non è Scout. Il processo e l’accusa di violenza sono la sintesi di una serie di case simili; a differenza della famiglia Finch in quella di Harper Lee ci sono anche una madre e due sorelle.
«Ciò che invece ho riprodotto con fedeltà, esattamente come ricordo» dichiara l’autrice «è il clima, l’atmosfera della città in cui vissi la mia infanzia».
È una giovane agente entusiasta del romanzo, Isabel Halliburton, a sottoporre To kill a mockingbird all’attenzione di Alan J. Pakula, che all’epoca non aveva ancora esordito nella regia ma nel 1957 aveva prodotto per la Paramount il primo film di Robert Mulligan, Prigioniero della paura, e si era poi dedicato alla produzione teatrale.
Pakula si innamora del libro e ne parla con Mulligan. Anche Harper Lee sembra interessata a una trasposizione cinematografica della sua opera.
Per la parte di Atticus viene scelto Gregory Peck, che grazie alla sua interpretazione riceve nel 1963 l’unico Oscar della sua carriera (consegnatogli, tra l’altro, da Sofia Loren). Nello stesso anno vince anche il Golden Globe e il David di Donatello come miglior attore straniero. 
Per i ruoli di Jem e Scout, dopo molti provini, vengono scelti gli esordienti Phillip Alford e Mary Badham (sorella minore del futuro regista John Badham).
Per quanto riguarda il resto del cast, la maggior parte proviene dal mondo televisivo o dal teatro. Tra loro c’è il trentenne Robert Duvall, che aveva debuttato in tv nel 1960 e poi lavorato in teatro, che viene scelto per il ruolo di Boo Radley: è il suo esordio sul grande schermo.
Per la sceneggiatura, Mulligan e Pakula si rivolgono a Horton Foote, drammaturgo e sceneggiatore, che desiderava soprattutto rispettare lo spirito del romanzo. Lui e Harper Lee si incontrano, si scambiano idee e nasce la sceneggiatura. 
Come ricorda lo stesso Pakula, l’autrice di To kill a mockingbird rompe tutti gli stereotipi sugli scrittori di best seller. Per due settimane, durante le riprese del film, è ospite della produzione, approva la sceneggiatura ed è anche entusiasta della scelta degli attori.
«Se l’integrità di un adattamento cinematografico può essere misurata dal grado con il quale gli intenti dell’autore del romanzo sono stati rispettati» scrive infatti Harper Lee, «allora la sceneggiatura del signor Foote dovrebbe essere studiata come un classico».
Prima di tutto, su suggerimento di Pakula, Foote ripensa alla struttura del libro condensandone gli eventi in poco più di un anno, dall’estate del 1932 all’autunno del 1933. (Il romanzo copre invece un arco di tempo di poco più di due anni. In realtà nel libro non è mai indicata una data precisa, anche se molti elementi sembrano confermare che l’azione si svolga nella prima metà degli anni ‘30).
Sempre su suggerimento di Pakula, nello script appare una voce fuori campo, quella di Scout adulta, che apre e chiude il film e ne commenta alcune scene.
Il romanzo è ricco di personaggi secondari, e alcuni scompaiono nella pellicola: l’editore del giornale locale Baxter Underwood, il signor Avery, il droghiere Link Deas, le maestre di scuola. Vengono eliminati anche il fratello e la sorella di Atticus, Jack e Alexandra. Ma mentre lo zio Jack compare soltanto in un capitolo, la zia ha molto più spazio e ha un ruolo importante nel libro, sebbene critichi sia le scelte di Atticus sia la scarsa femminilità della nipote.
Altri personaggi sono stati unificati in uno solo. La vicina pettegola Stephanie Crawford e la zia di Dill, Rachel Haverford, diventano la zia Stephanie; il fratello di Boo Nathan, e il signor Radley Senior diventano Nathan Radley, padre severo di Boo.
Altre figure sono presenti, ma hanno meno spazio che nel romanzo, come l’anziana e scorbutica signora Dubose, alla quale nel libro è dedicato un capitolo piuttosto importante, mentre nella pellicola appare solo al principio in una breve scena. Scena che però serve a sottolineare sin dall’inizio la naturale gentilezza di Atticus e la sua capacità di empatizzare con le persone.
Curioso anche il modo di presentare Bob Ewell, il vero Cattivo della storia. Nel romanzo lo vediamo per la prima volta soltanto durante il processo. Nel film invece il personaggio compare molto prima, in una scena che in realtà nel libro non c’è. Il Gran Giurì è riunito in tribunale per formulare le accuse contro Tom Robinson. Terminata l’udienza Ewell si avvicina ad Atticus dicendogli che gli dispiace che sia costretto a difendere «quel negro», ma quando si rende conto che l’avvocato crede all’innocenza di Tom, il suo tono diventa più minaccioso. Più avanti nel corso del film, Atticus va in auto con Jem e Scout da Helen, la moglie di Tom, per portarle i saluti del marito. Jem e Scout, che si è addormentata, restano nell’auto e dal bosco compare Bob Ewell, ubriaco, che si avvicina minaccioso e guarda all’interno della vettura.  Quando Atticus torna fuori, con un sorrisetto Ewell gli dice «Amico dei negri». Rispetto al romanzo, dunque, la pericolosità di Bob Ewell viene «anticipata» in due scene scritte per la pellicola.
Gli episodi che riguardano il ritrovamento degli oggetti nel cavo dell’albero di fronte a casa Radley – una vecchia medaglia, un paio di monete portafortuna, un orologio che non funziona, due figurine intagliate nel sapone – nel romanzo sono più sviluppati. 
Nel film vediamo Jem trovare la medaglia, e soltanto dopo la scoperta delle figure di sapone il ragazzo svela alla sorellina il contenuto della scatola di sigari in cui ha riposto l’orologio, la medaglia e, invece delle monetine del libro, un coltellino. La scatola e ciò che contiene, però, sono oggetto dei bellissimi titoli di testa realizzati da Stephen Frankfurt.
Nel complesso Foote resta fedele allo spirito del romanzo e all’animo dei personaggi creati da Harper Lee. Anche lui ottiene l’Oscar nel 1963 per la miglior sceneggiatura non originale, ma non essendo presente alla cerimonia è Pakula a ritirare la statuetta per lui.
Sfogliando una copia della sceneggiatura di Foote datata 8 febbraio 1962, troviamo ancora due scene all’interno della scuola che vengono invece eliminate nel film (ciò che accade nella prima delle due, viene comunque raccontato ampiamente da Scout alla fine del suo primo «tragico» giorno di scuola), così come un paio di brevi dialoghi, sostanzialmente irrilevanti, anch’essi eliminati nella pellicola.
Da segnalare invece una scelta alquanto discutibile nel doppiaggio italiano. 
Siamo all’ultima scena della pellicola. Nella versione originale le ultime parole pronunciate dalla voce fuori campo di Scout sono queste: «Pensai a quei giorni molte volte, a Jem e a Dill, a Boo Radley, e a Tom Robinson. E ad Atticus. Lui sarebbe rimasto tutta la notte nella stanza di Jem, e sarebbe stato ancora lì al suo risveglio, al mattino».
Questa è la versione italiana.
«Adesso che il buio non ci faceva più paura, avremmo potuto oltrepassare la siepe che ci divideva dalla casa dei Radley e guardare la città e le cose dalla loro veranda. Accadde tutto in una notte, la notte più lunga, più terribile e insieme la più bella di tutta la mia vita». 
L’ultima frase, con la sua retorica, snatura in fondo il semplice finale del romanzo.
«Spense la luce [si sta parlando di Atticus] e tornò in camera di Jem: tutta la notte sarebbe rimasto con lui, e sarebbe stato ancora lì al suo risveglio, al mattino».

Bibliografia: Riccardo F. Esposito, Il buio oltre la siepe. Il libro, il film, Le Mani Editore, (2009) 

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Il Gattopardo
di Adele D'Ippolito
Il Gattopardo di Tomasi da Lampedusa è un libro del 1958 che parla dello sbarco dei Mille dal punto di vista siciliano: probabilmente, solo un regista come Luchino Visconti, molto attento ai particolari, sarebbe stato in grado di trasformare le parole di questo libro in autentiche rappresentazioni del periodo. Si può vedere che durante il ballo, rappresentato come una serie tableaux vivants, (le giovani nobili insieme, le nobili più agées, il ballo, l'attacco dei garibaldini a Palermo ecc) gli antichi lampadari presenti nel salone hanno candele accese, non sono solo queste ad illuminare l'ambiente come fa invece Kubrick in Barry Lyndon, ma Visconti vuole che ci siano per coerenza con i tempi raffigurati. Spesso i libri dai quali sono tratti i film non si conoscono nemmeno.
Il Gattopardo in Italia si studia addirittura a scuola. Uno dei problemi della 'trasformazione in immagini' di un libro, è che il libro stimola la fantasia, si 'lavora di fantasia' leggendo, il film non può che rendere reale il racconto. Il regista deve essere certo di quello che vuol fare. Deve avere chiaro il suo progetto che potrebbe voler dire anche non seguire alla lettera il libro, deve riuscire a far provare emozioni, simili a quelle del libro, o anche diverse: far provare emozioni per il film in sé. Potrebbe essere che sia il film che il libro siano capolavori 'ciascuno a modo loro'.
Fra film e libro ne Il Gattopardo ci sono punti paralleli, direi addirittura sovrapponibili, Visconti spesso usa anche gli stessi dialoghi. Visconti e lo scrittore Tomasi da Lampedusa, appartengono allo stesso ceto sociale, quello nobiliare. Il punto di vista però è opposto, nel senso che Visconti vede dal punto di vista di uno che ha vissuto al nord mentre Tomasi vede dal sud, dalla Sicilia, sardi e siciliani usano ancora oggi per indicare l'Italia peninsulare, l'espressione 'il continente'. La stessa parola viene usata nel libro, parte non presente nel film, quando il principe va nel continente, a Roma, per farsi visitare. Questa malattia lo porterà alla morte che non è presente nel film, ma Visconti accenna alla morte vicina, con la tristezza del principe al ballo e il suo dilungarsi su un quadro di un morente…nel libro il nobile siciliano Tomasi da Lampedusa parla di un parente, della sua famiglia e questo tocca il lettore, cioè le sue parole penetrano, sono quasi vibrazioni. Visconti dipinge ottimamente quello che ha letto, ma non potrebbe arrivare allo stesso risultato. Il film è magnifico, ogni attore è al suo posto non si può, non riconoscere nel principe di Salina Burt Lancaster o Tancredi in Alain Delon non risultato da poco. Visconti ha fatto un ottimo lavoro tenendo conto di come ha reso siciliani un americano ed un francese. L'aspetto non riproducibile in immagini è invece, oltre alla forza emotiva di chi sta parlando della propria storia familiare, l'odore della Sicilia presente nel libro, quando ad esempio viaggiano ed arrivano a Donnafugata, nei giardini ritrovati e nei vicoli di Palermo mentre raggiungono il palazzo dove avverrà il ballo. Nel libro alcune storie si chiudono: muore il principe, in un albergo tornando da Roma, muore Tancredi.
Mentre il finale del film è aperto perché quella è probabilmente la parte del libro che ha stimolato maggiormente la creatività del regista. Il film è la fantasia di Visconti resa visibile, mentre nel libro, come nella realtà, la storia di una persona finisce con la morte. Il principe è il personaggio attorno al quale ruotano tutti gli avvenimenti del libro e la sua morte porta alla chiusura di un certo tipo di vita e di privilegi.

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Caso Psycho: dal libro al film passando per la sceneggiatura

di Giulia Pugliese

Il metodo
“Ho fatto tanti anni di pratica per mettere su carta un film. Spesso mi viene chiesto “non improvvisi sul set?” E io rispondo “certo che no”. Con tutti gli elettricisti intorno, gli operatori, preferisco improvvisare in ufficio. É più economico e più tranquillo. Dopo tutto i musicisti sono autorizzati a mettere la loro musica su carta, gli architetti possono persino mettere un edificio su carta! Dunque perché non un film?” Alfred Hitchcock
Infatti Hitchcock nelle sceneggiature dei suoi film scriveva numerose annotazioni su come girare le scene.



Norman Bates


Mary/Marion


Tuttavia anche dal libro emerge la modernità della protagonista.
Lila e Sam: personaggi che portano avanti l’azione poco analizzata.

Mission diversa:


Confronto tra



Spiegazione dalla sceneggiatura
“Il tragitto è completato. Il processo di identificazione è arrivato al massimo della sua trasformazione. Marion da soggetto delle nevrosi era diventato oggetto delle psicosi. Appena Marion muore anche Norman subisce la sua trasformazione. Il processo è reversibile. A Norman il processo di sdoppiamento della personalità, la dissociazione psichica-PSYCHO-lo ha portato ad essere soggetto della nevrosi di una metà a oggetto della psicosi dell’altra metà, la Madre/Norman che ormai ha preso il sopravvento. Norman è vittima di se stesso.”

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PSYCHO: dal libro al film
di Claudia Ronchi
Leggendo il libro di Bloch, confrontandolo con il film e scoprendo la storia della sceneggiatura del film, la sensazione è che Alfred Hitchcock abbia eliminato diversi aspetti psicologici dei protagonisti.
1 - Nel libro Bloch fornisce una serie di dettagli in più sulla vita di Mary/Marion Crane che ci permettono di capire di più il suo furto dei 40.000 dollari. L’autore scrive: 
Ma Mary Crane gli sorrise in modo molto dolce, poi uscì dal suo ufficio e dalla sua vita. Portandosi via i quarantamila dollari. Sono occasioni che non capitano tutti i giorni. Anzi, a pensarci bene, ci sono alcune persone a cui, in tutta la vita, non capita mai nessuna occasione. Mary Crane aspettava la sua da ventisette anni. Quella di andare al college era svanita quando ne aveva diciassette e suo padre era stato investito da una macchina. Aveva quindi frequentato una scuola professionale per un anno, e poi si era messa a lavorare per mantenere sua madre e sua sorella Lila. Quella di sposarsi era svanita quando ne aveva ventidue e Dale Balter fu chiamato alle armi. Lo trasferirono quasi subito alle Hawaii e, quasi subito, cominciò a nominare quella ragazza nelle sue lettere, poi le lettere avevano smesso di arrivare. E quando, alla fine, ricevette la partecipazione di matrimonio, ormai non le importava più niente. Sua madre era già molto malata, allora. Passarono tre anni prima che morisse, mentre Lila era lontana, a studiare. Mary aveva insistito molto perché andasse al college, e così il peso della famiglia finì per gravare solo sulle sue spalle. Tra il lavoro alla Lowery Agency tutto il giorno, e la mezza nottata in piedi per vegliare sua madre…non restava molto tempo per il resto”. 
Poco dopo sappiamo anche come incontra Sam Loomis: Mary alla morte della madre riesce a concedersi una vacanza, una crociera, ed è lì che incontra Sam ed è lì che scopre dei debiti che Sam sta cercando di saldare derivanti dal negozio ereditato dal padre. 
Nel film questo background della vita di Mary non viene trattato. Quando lascia l’appartamento vediamo sullo sfondo la foto dei genitori appesa ad un muro: Mary non la porta con sé. Sicuramente vuole lasciarsi il passato alle spalle, ma fondamentalmente non sappiamo quale passato. 
Dai discorsi di Sam della primissima sequenza (in cui rassicura Mary sui suoi piani di saldo dei debiti), siamo indotti a pensare che Mary decida di rubare quei soldi solo per amore, ma in realtà è una scelta quasi totalmente personale, come se fosse una rivalsa nei confronti della vita. E infatti qualche pagina dopo, leggiamo:
Allo stesso modo, non dimenticava mai che il mondo apparteneva ai Tommy Cassidy. I padroni erano loro, e loro stabilivano il prezzo. Quarantamila dollari per il regalo di nozze della figlia, e cento dollari gettati con indifferenza su una scrivania per affittare il corpo di Mary Crane in esclusiva per tre giorni. E allora mi sono presa i quarantamila dollari…Le cose erano andate proprio in questo modo. Mary aveva preso i soldi. E inconsciamente doveva aver sognato a occhi aperti un’occasione del genere per molto tempo, perché adesso tutto sembrava trovare il suo posto, come in un piano premeditato”. 
Ecco, come in un piano premeditato. Forse ad Alfred Hitchcock non piaceva l’idea di una donna così determinata, capace di compiere un atto criminoso e ha preferito eliminare questi aspetti della psicologia della protagonista a favore di una scelta di sceneggiatura più romantica e lineare (la giovane donna che vuole fare di tutto per l’uomo di cui è innamorata). Oppure semplicemente ha fatto tagliare queste informazioni perché troppo “verosimili” (le famose “parti noiose”).

2 - Interessante, nel libro, sempre dal punto di vista della psicologia dei protagonisti, un’analisi di Sam sulla trasformazione di alcune persone:
Strano, si disse Sam, come si dia sempre per scontato di sapere tutto di un’altra persona, magari solo perché la vediamo spesso o per via di un particolare legame emotivo. Anche lì a Fairvale c’erano esempi a volontà, a questo proposito. Come il vecchio Tomkins, per anni sovrintendente alle scuole e pezzo grosso del Rotary, che di punto in bianco se n’era andato di casa lasciando moglie e figli per fuggire con una ragazzina di sedici anni. Chi avrebbe sospettato che sarebbe stato capace di fare una cosa del genere? Così come nessuno sospettava che Mike Fisher, il più grande fannullone, il più accanito giocatore dell’intero stato, avrebbe lasciato in eredità tutti i suoi averi all’orfanotrofio presbiteriano. Bob Summerfield, l’impiegato di Sam al negozio, aveva lavorato lì per oltre un anno prima che Sam scoprisse che sotto le armi era stato deferito alla corte marziale per aver cercato di fracassare il cranio al cappellano con il calcio di una rivoltella. Ora Bob stava bene, certo, era il ragazzo più gentile e tranquillo che si fosse mai visto …ma era stato gentile e tranquillo anche nell’esercito fino a quando qualcosa non l’aveva fatto saltare. E nessuno se n’era accorto fino all’ultimo momento. Si sente dire anche di vecchie signore che lasciano i loro mariti di punto in bianco dopo vent’anni di matrimonio felice, o di insospettabili impiegati di banca che si rivelano truffatori senza scrupoli…insomma non si può mai dire”.
Tutto questo ragionamento Bloch lo descrive poche righe dopo in cui è lo stesso Sam a chiedersi “Ma in fondo, quanto sapeva di Mary?”. Il lettore che arriva a scorrere queste pagine sa già dell’omicidio di Mary e ha già pienamente intuito lo sdoppiamento di personalità di Norman Bates. Ed è un peccato aver perso questo passaggio nel film perché, in primo luogo, spinge ad una intelligente riflessione sulla reale “normalità” delle persone e dei loro comportamenti. In secondo luogo, a questo punto della storia abbiamo già un’idea del colpevole e abbiamo già condannato Bates (benché i crimini che compie siano frutto di un disturbo mentale), ma, se Alfred Hitchcock avesse tenuto conto e mostrato in qualche modo questo turbamento di Sam, noi avremmo avuto la possibilità di porci la domanda che si pone Sam: chi è veramente normale? Siamo sicuri di conoscere davvero bene le persone che frequentiamo? E siamo sicuri che sia Norman/Norma Bates l’assassino? In un film che, sequenza dopo sequenza, ci induce a pensare che Bates possa soffrire di doppie personalità, condividere queste considerazioni di Sam avrebbero creato, tra gli spettatori, lo spazio per qualche dubbio sull’effettivo assassino prima di scoprire la verità nel finale. Penso che Alfred Hitchcock avrebbe creato ancora più suspence.
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Ho letto l’intervista Truffaut-Hitchcock e, dopo aver visto le registrazioni di Corto Circuiti, ho ampliato una affermazione di Hitchcock quando dice: “E in più autorizza il pubblico a diventare voyeur”. Nei passaggi di sceneggiatura di Joseph Stefano condivisi nei video, Andrea Chimento ha sottolineato spesso l’uso del “we” / “noi” evidente segnale di coinvolgimento del pubblico. Quindi l’affermazione di Alfred Hitchcock di voler trasformare lo spettatore in voyeur, trova riscontro nella sceneggiatura dove si da per scontato che siamo tutti noi a vedere, a seguire il personaggio, ad assistere agli omicidi, a sospettare etc etc…
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Nella stessa intervista ho trovato curioso anche la considerazione di Alfred Hitchcock sul fatto che Psycho appartiene a “noi registi” (riferendosi a Truffaut) e la confessione di non avere avuto l’intenzione di girare un film importante ma con l’idea di divertirsi facendo un’esperienza, ossia girare un lungometraggio nelle stesse condizioni di un film per la televisione (con tanto di troupe televisiva per girare più rapidamente). Continua, poi, svelando che per questo genere di film bisogna essere soddisfatti del proprio lavoro dal punto di vista tecnico, non necessariamente dal punto di vista del soggetto. E che è la macchina da presa che fa tutto in un film come questo. Conclude con una frecciata ai critici che, a suo avviso, si interessano solo al soggetto, e sostenendo che bisogna progettare il film come Shakespeare costruiva le sue commedie: per il pubblico. Quindi da un lato emerge la voglia di sperimentare e di mettersi alla prova con i tecnicismi e, dall’altro, sente la responsabilità verso gli spettatori che si meritano di assistere sempre ad un lavoro pensato per loro. A volte però le sperimentazioni non producono risultati perfetti. Ma Psycho forse è la classica eccezione che conferma la regola.

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