«Faremo in eterno quello che abbiamo sempre fatto»: la recensione della terza stagione di Dark
28/06/2020
«Se sapessimo come andrà a finire, dove ci condurrà il nostro viaggio? Se lo sapessimo prenderemmo le stesse decisioni, oppure imboccheremmo strade diverse? Saremmo comunque in grado di sfuggire al nostro destino o ciò che è dentro di noi ci condurrebbe alla stessa meta come una mano invisibile?». 



Tra le domande poste da Dark, tra le migliori produzioni originali Netflix, sicuramente spicca lo spunto sul destino e su come noi siamo chiamati ad agire per prendere in mano le nostre vite. Un discorso che richiama alla memoria (seppur posto in contesto e maniere differenti da Matrix, più volte citato nella serie). Il viaggio è arrivato al termine e lo ha fatto probabilmente nel miglior modo possibile, dopo un percorso lungo tre stagioni che si sono focalizzate su elementi distinti, seppur correlati: crime/viaggi nel tempo la prima, molteplici salti temporali la seconda e presenza di più universi e mondi paralleli quest’ultima. Il fil rouge, oltre ai protagonisti e a un’atmosfera inquietante che a tratti ricorda i thriller di David Fincher, è senza dubbio il continuo porre dei dubbi, portare agli occhi dello spettatore degli interrogativi cui ognuno di noi è chiamato a riflettere: la trama intrattiene a dovere, le emozioni non mancano, ma è in profondità che si celano i punti chiave. 

«Che importanza ha la strada che scegliamo se alla fine del viaggio incontriamo sempre noi stessi?»



Déjà-vu: questo il titolo dell’episodio di apertura, che non potrebbe rivelarsi più adeguato. Almeno in apparenza. Perché se quel che vediamo sembra a tutti gli effetti essere un loop infinito, la ripetizione è solo nei luoghi (anche se ci sono sorprese in tal senso) e nei personaggi che vi agiscono, ma nulla dà l’impressione di essere già accaduto. I colpi di scena si susseguono, forse eccessivamente: la gestione del mutiverso in alcuni frangenti riaschia di divenire confusionaria e di compromettere la comprensione d’insieme, che comunque viene preservata, anche se non sempre in modo chiaro. I protagonisti si muovono in continuazione, ma per certi versi sembra che restino fermi: i loro destini non mutano, anche se loro fan di tutto per cambiare le loro sorti. Che sia questo l’errore? Dal wormhole al Gatto di Schrödinger, dall’eterno ritorno al nichilismo: tutto sembra portare alla medesima conclusione, portando lo spettatore a domandarsi se esista una predestinazione o se invece il destino dipenda dalle azioni compiute ogni giorno. 

«Ogni cosa si ripete, ancora e ancora. Per l’eternità. Perché nessuno di noi è preparato a lasciar andare»



Il desiderio: non è forse questo che ha spinto Adamo ed Eva a mangiare la mela nel giardino dell’Eden, commettendo il peccato originale? Termini che ritornano: Adam ed Eva, ma anche la ricerca dell’origine, cui si cerca di arrivare per provare a salvare il mondo. Ma, come esplicitamente evidenziato, la razionalità e la giustizia contano relativamente nelle scelte che vengono compiute, in quanto ogni decisione viene guidata «da ciò che esigiamo nel nostro profondo. Non possiamo opporci a questa volontà». Questo spinge (soprattutto) Jonas e Martha ad agire, più con il cuore che con la logica, anche se ogni loro azione sembra portare inevitabilmente ad un peggioramento della situazione di partenza, se non a rendersi conto che  quel che credevano di cambiare in realtà era avvenuto proprio in quel modo. Se c’è un destino, siamo noi a deciderlo e ad agire per arrivarci, anche se questa decisione è inconsapevole o inconscia. 

«Faremo in eterno quello che abbiamo sempre fatto».

Lorenzo Bianchi

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