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Dawson's Creek è tornato su Netflix, ma quelle angosce e illusioni non sono mai andate via
Si può parlare di Dawson’s Creek nel 2021 senza sembrare anacronistici e fuori tempo massimo? Sì, visto che la serie è appena approdata su Netflix, dov’è disponibile dal 15 gennaio, e si apre dunque a un pubblico potenzialmente nuovo di spettatori, che magari le paturnie sentimentali di Dawson, Joey, Pacey, Jen, Jack, Andy e Audrey non le hanno certo vissute in presa diretta e forse neanche sentite mai nominare. Eppure, per chi era adolescente a inizio anni duemila, Dawson’s Creek è la madeleine proustiana per eccellenza. Anche solo ripensarci porta con sé il dolce peso della nostalgia, che è tanto difficile quanto importante preservare nel modo giusto, per non rischiare di sfocarla a suon di malmostosa retorica. 



Le illusioni e le angosce raccontate nella serie creata da Kevin Williamson (che nel protagonista Dawson Leery mise tanto di se stesso), andata in onda dal 1998 al 2003 per totale di 128 episodi sul network della The WB (ora The CW) e in Italia in prima serata su Italia Uno e poi in fascia pomeridiana, per molti di coloro che le hanno vissute in presa diretta non sono mai andate via. Hanno colto come meglio non si poteva lo zeitgeist (sic) di una spensieratezza analogica sulla quale si addensavano già le nubi del nuovo millennio: non era dunque solo una questione di spirito del tempo, a conti fatti, ma anche di ricerca del tempo perduto (e lo è ancora, anzi più che mai). Sei stagioni, con un finale discusso ma memorabile nella sua commovente e lacrimosa plasticità (un po' come tutta Dawson's Creek), e sul quale gli autori persero probabilmente più di una notte insonne.



Se gli anni ’90 sono stati l’ultimo decennio ad avere un’identità ben definita, prima della polverizzazione degli anni zero che non sembrano farsene granché di una divisione semplicistica come quella della scansione in decenni, Dawson’s Creek era e rimane l’ultimo baluardo del romanticismo da piccolo schermo, un simbolo nineties immarcescibile come i Nirvana, MTV, il Tamagotchi, il Game Boy e Non è la Rai. Un telefilm, come si diceva una volta, in cui la verbosità del teen movie coincideva praticamente su tutti i fronti con la quintessenza stessa dei primi fremiti sessuali, tra tantissime parole e pochissimi fatti. 

Per la “generazione anouanouei”, come impone la celebre storpiatura col suono all’italiana della sigla di Paula Cole, il sesso sembrava essere infatti una questione platonica e non aristotelica. E non a caso James Van Der Beek, interprete del petulante Dawson, biondissimo spielberghiano di stretta osservanza, è poi finito a fare il protagonista del sottostimato Le regole dell’attrazione di Roger Avary, variazione (orrorifica) sul tema tratta dalle pagine di Bret Easton Ellis, ma anche sconcertante e raggelante incursione nel college movie in grado di rimasticare proprio il lògos di certe ossessioni.



Scelte di casting geniali a parte, va da sé che al tempo di TikTok e della bulimia da serie tv Dawson’s Creek non sarebbe potuto esistere. E, proprio per questo motivo, è impossibile non cristallizzarla nel tempo, col suo corredo di primi bollori e altrettanto imbarazzanti rossori, velleità artistitoidi e cotte scontatissime (per Pacey Whitter e Jen Lindley, ovviamente). Dawson e la giovane Joey Potter parlavano dopotutto solo di temi alti, alla larga da ogni sospensione dell’incredulità. E in questa vena poco plausibile e immaginifica c’era probabilmente la natura tanto arruffata e sconsiderata quanto idealista e filosofica dell’adolescenza, che Dawson’s Creek ha raccontato così bene. 

Di tempo, a quell’epoca, ce n’era e pure parecchio, ed è in quest’ampia cornice e forbice di tempo e di spazio che Dawson’s Creek ha riscritto le coordinate del teen drama come lo si era conosciuto fino a quel momento, influenzando in profondità tutto ciò che sarebbe seguito (non c'è The O.C., One Tree Hill, Gossip Girl o Riverdale che tenga). Per i ragazzi di oggi di tempo pare essercene molto meno, nonostante l’infinita dilatazione da streaming e isolamento. Tanto che quell’I Don’t Want to Wait, fatta eccezione per la confidenziale storpiatura divenuta celebre nel nostro paese tanto quanto la serie stessa, somiglia più che mai a un triste e irrisolto presagio. Alle stesse promesse disilluse ed eternamente rimandate di felicità di cui Dawson’s Creek, proprio come l’adolescenza tutta (ora e sempre), era terribilmente e meravigliosamente ingolfata, ben intenta a lasciarle uscire dalla porta e rientrare dalla finestra come Dawson con Joey. 





Davide Stanzione

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