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Far East Film Festival 24 – Il racconto del weekend in viaggio tra Hong Kong, Corea del Sud e Giappone
La ventiquattresima edizione del Far East Film Festival è partita a pieno ritmo, offrendo agli appassionati un weekend ricco di offerte e sorprese. Gli spunti più indicativi vengono da tre Paesi ampiamente rappresentati: Hong Kong, Corea del Sud e Giappone.

HONG KONG
Il cinema dell'ex colonia, un tempo tra i più vitali del panorama internazionale, sta attraversando da qualche anno un periodo di crisi. Ne sono un esempio i film finora proposti, spesso più preoccupati a dipingere Hong Kong come una terra di opportunità e investimenti, come vuole anche lo spot proiettato prima di ogni film. Della realtà e della difficile situazione sociale del Paese non c'è assolutamente traccia.


Minimo comun denominatore dei due film presentati in concorso nel weekend è la presenza della poliedrica Stephy Tang, già apprezzata al FEFF nel film My Prince Edward, pregnante riflessione su immigrazione e disoccupazione mascherata da commedia romantica. La diva si è sdoppiata in due ruoli molto diversi tra loro, soprattutto per registro: nel drammatico Twelve Days interpreta una donna il cui matrimonio è in crisi, mentre nello scoppiettante Table for Six è contesa da due fratelli entrambi innamorati di lei. Twelve Days racconta, come il simile Twelve Nights (2000), film d'esordio della regista e sceneggiatrice Aubrey Lam, dodici giorni nella vita di una coppia prima di fidanzati, poi di sposi e infine di separati. Il film è pessimista e antiromantico, ma pure manipolativo e un filo unilaterale (Edward Ma interpreta un uomo egoista e preso solo dagli affari, mentre Tang ne esce come vittima remissiva) nella rappresentazione di un matrimonio infelice. I due personaggi non suscitano simpatia e la vicenda, invece che realistica, spinge il pedale sul registro del melodramma patetico. A regnare supremi sono gli establishing shot di drone sullo skyline di una Hong Kong che sembra esistere solo al cinema.

Di tutt'altra pasta Table for Six, commedia brillante di Sunny Chan che diverte e funziona. Un film a ritmo di jazz, che ha come modello dichiarato il Woody Allen di Manhattan, citato direttamente dalle rivisitazioni di Gershwin in colonna sonora, ma anche il fenomeno Perfetti sconosciuti, mentre nei dialoghi si tirano in ballo John Woo e Ang Lee. I sei personaggi, tre fratelli e le loro rispettive fiamme, hanno una buona chimica, il ritmo è forsennato (ma Chan sa anche quando è il momento di rallentare) e le gag sono genuinamente divertenti, anche grazie a un sapiente uso dello spazio dove è ambientata la maggior parte dell'azione (l'appartamento dei tre fratelli). Hong Kong viene qui ancora una volta ritratta come città romantica e dinamica, piena di opportunità; e la storia si basa sulla difficoltà di un personaggio idealista ad abbandonare il passato per abbracciare il futuro... Sono già lontani tempi di Limbo di Soi Cheang e del suo brutale iperrealismo.

COREA DEL SUD
Finito da qualche anno l'effetto Parasite e da qualche mese il fenomeno Squid Game, il cinema coreano si trova di fronte alla sfida di rinnovarsi e reinventarsi nuovamente. Da quello che abbiamo visto al festival finora il blockbuster rimane ancorato ai suoi generi più congeniali: l'action e il gangster movie.

Anche qui troviamo un divo in rampa di lancio come minimo comun denominatore, il super cool Jang Hyuk. In The Killer, terza fatica di un moderno specialista come Choi Jae-hoon (The Swordsman), Jang interpreta un sicario in pensione che si trova a dover fare da babysitter alla figlia adolescente di un'amica della moglie: le cose però non sono così semplici, soprattutto quando sulla ragazza hanno posato gli occhi dei trafficanti di persone. Il killer, tazza da caffè in mano e sguardo infastidito da Bruce Willis della prima ora, si trova costretto a riprendere i ferri del mestiere. The Killer è un film d'azione che intrattiene per la sua ora e mezza di durata, derivativo e citazionista (John Woo e John Wick i numi tutelari) ma che non si prende sul serio e ha qualche twist interessante. Il fare cool e di poche parole di Jang, che in The Killer diverte anche grazie al contrasto con l'esuberanza della ragazzina che ha in custodia e all'affetto della moglie, si tramuta in Tomb of the River, opera prima di Yoon Young-bin, nel ritratto cupo di un gangster spietato e disposto a tutto per mettere le proprie mani su un resort di lusso sulla spiaggia di Gangneung. Tomb of the River è un gangster movie che sembra fatto con lo stampino, in cui sono presenti tutti gli stereotipi del genere, dal cattivo spietato alla bella e dannata dal passato turbolento fino al vecchio gangster leale deciso a vendicare il proprio boss. Joon è troppo preoccupato di rendere il film una parabola nichilista sul potere del denaro; ne risulta un film a tratti verboso, in cui l'azione si riduce in una serie impressionante di accoltellamenti (si voleva battere qualche record?). La location marittima non è sfruttata al massimo delle sue potenzialità e al termine si rimane con una sgradevole sensazione più per il film in sé che per i temi affrontati.


Di tono decisamente più leggero Perhaps Love di Cho Eun-ji e Miracle: Letters to the President di Lee Jang-hoon: se il primo non convince per l'intreccio di relazioni amorose alquanto scontato, il secondo, interessante per l'ambientazione geograficamente remota e poco raccontata di un piccolo villaggio di montagna nella nella Corea centrale, si perde (come il suo protagonista) per i sentieri già battuti del dramma della genialità incapace di socializzare. Ma tra tutti spicca un gioiello indipendente, The Apartment of Two Women, storia di abusi famigliari raccontata dall'esordiente Kim Se-in con incredibile maturità. Se la regista deve sicuramente affinare la gestione del tempo (il film, di 139 minuti, è a tratti estenuante), si dimostra invece capace di fornire un ritratto realistico del trauma di due donne, l'adolescente Yi-jung e la madre Su-kyung. Yang Mal-bok è semplicemente straordinaria nel ruolo di una donna incapace di crescere, egoista e a tratti orribile nei confronti della figlia, interpretata da Lym Ji-ho, bravissima a cogliere col proprio corpo la portata del trauma di una vita di abusi. Entrambe le donne trovano conforto in altre persone, ma sono troppo danneggiate per cambiare la propria vita, e vengono spinte l'una verso l'altra in un circolo ininterrotto. Un film che dimostra la grande vitalità del cinema coreano anche al di fuori delle grandi produzioni.

GIAPPONE
Arrivano dal Giappone (c'erano dubbi?) due tra i film più bizzarri, coraggiosi e surreali del festival.

Noise, dell'affermato Ryuichi Hiroki, è il ritratto cinico e sardonico di una piccola isola al largo del Giappone
, i cui abitanti sembrano essere disposti a tutto pur di difendere l'orgoglio locale: una coltivazione di fichi, dolcissimi ma grotteschi e neri come la pece. Noise è una parabola raccontata nell'arco di diversi giorni, scanditi dai brani di musica classica suonati incessantemente dagli altoparlanti del porto, a loro volta alternati a brani di colonna sonora minimalista. Noise come rumore appunto, disturbo della pace e della quiete di un microcosmo sonnacchioso, un paradiso claustrofobico che si pensa florido ma è in realtà morente. Hiroki offre grandi spunti di riflessione antropologica e azzecca i personaggi (tra cui spicca il poliziotto interpretato dall'attore feticcio di Jarmusch Masatoshi Nagase), riuscendo a mantenere il ritmo e l'interesse per gran parte delle due ore di durata. Ma toppa clamorosamente la parte finale, che aggiunge una superflua sottotrama legata alla gelosia di uno dei personaggi, a sua volta raccontata tramite il più classico degli spiegoni. Uno scivolone che sembra togliere allo spettatore quella fiducia che Hiroki gli ha concesso per gran parte del film. Nonostante tutto Noise rimane uno dei film più riusciti e interessanti del festival.


E cosa dire di Popran, ennesima fatica di Shinichiro "One Cut of the Dead" Ueda? Racconto kafkiano di un mangaka che si sveglia un mattino per scoprire con orrore che è sparito il pene, Popran è surreale e divertente, riuscendo a tratti a diventare un racconto morale non banale. Il protagonista, infatti, nel tentativo di recuperare il proprio pene volante (mai avrei pensato di scrivere queste parole...) si allontana sempre di più dalla propria immagine costruita di artista di successo per riavvicinarsi umilmente alla natura e alla famiglia: la scena della caccia al pene in compagnia del padre è quasi commovente, per tacere delle implicazioni psicanalitiche. Ueda ha fantasia ma rimane il fatto che il film si basa su una singola gag tirata per le lunghe. Fortunatamente il film è corto e lascia piuttosto soddisfatti.

A cura di Marco Lovisato
Maximal Interjector
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