Nel giorno iniziato con la cerimonia di premiazione della terza edizione del MiWY (un festival dentro il festival, dedicato alle scuole), gli spettatori hanno potuto scegliere tra una selezione di film numerosa e variegata: quattro sezioni, quattro continenti, tre sale e tanto cinema.
CONCORSO LUNGOMETRAGGI “FINESTRE SUL MONDO”
Il concorso principale si è chiuso con due pellicole profondamente diverse, ma unite dalla presenza di due protagoniste tenaci, perseveranti e che, nel corso della pellicola, prenderanno in mano il proprio destino, anche se con modalità opposte. 98 segundos sin sombra di Juan Pablo Richter è un bizzarro coming of age che si fonda interamente sulla parlantina magnetica e incessante della sua protagonista. Genoveva, 16 anni, cerca di sopravvivere ai genitori disperati, al bullismo dei compagni di scuola, alla violenza dei militari e alla droga sempre più presente nella Bolivia degli anni ‘80, grazie alla sua acuta ironia e a una fervida fantasia che la trascina in viaggi intergalattici e fughe mistiche. Il percorso di crescita (o meglio di realizzazione) si manifesta attraverso le parole, che scandiscono l’intera pellicola, di Genoveva ai suoi interlocutori. Che sia la fidata amica Inés, l’ex nemica Vacaflor, la nonna o lo spettatore, quello messo in scena è in realtà un costante dialogo della protagonista con se stessa. Come fosse in un prison movie, pianifica la sua fuga e, proprio in virtù di ciò, è costretta a scegliere chi portare con sé e chi lasciare al proprio destino (nella cittadina che lei chiama “Buco Di Culo”). La scelta ricade su tutti i suoi cari che possono essere ancora salvati. Come in uno zombie movie (citato ad inizio pellicola) chi è infetto, nonostante sia una persona amata, va eliminata, e gli altri, seppur controvoglia, devono guardare ad un futuro senza di loro.
Nonostante anche la protagonista di Freda viva in un luogo pericoloso è (apparentemente) senza futuro, egli decide non ricominciare una nuova vita fuggendo, ma di cambiare la sua nazione rimanendo. Freda vive con la madre e i fratelli in un quartiere povero di Port-au-Prince. In un Paese devastato dalla corruzione e da una pesante eredità coloniale, dove le condizioni di vita diventano sempre più misere e la violenza aumenta vertiginosamente, molti giovani haitiani si chiedono se restare o andarsene. Anche la sua famiglia è attraversata da questo dilemma: Freda spera che il fratello e la sorella partano ma vuole rimanere per dare voce a una nuova generazione di giovani fantasiosi e creativi che credono ancora che Haiti possa avere un futuro. Il confronto generazionale con l’amata, ma ancora legata a vecchie abitudini, madre amplifica inoltre la portata di questo racconto di resilienza femminile che si fa universale, anche grazie ad una splendida scena conclusiva.
CONCORSO CORTOMETRAGGI AFRICANI
Forte del successo del precedente Black Mamba, la fotografa tunisina Amel Guellaty torna dietro la macchina da presa con il suo nuovo cortometraggio Chitana, storia di due sorelle di dieci e dodici anni che si lasciano tentare da un giro nel bosco, luogo proibito alle bambine. La foresta diventa il luogo all’interno della quale si manifesta la maturazione di Eya e Sofia poiché i pericoli vissuti le porteranno (in particolare Sofia) ad avere una più profonda comprensione della vita. Il racconto diventa però anche una parabola a favore dell’emancipazione femminile: la possibilità di sbagliare, di potersi mettere nei guai, in alcune società prerogativa esclusivamente maschile, diventa quindi il simbolo di una libertà naturale per un bambino, meno se di sesso femminile. La felicità di Sofia nel capire che la sorella è rientrata sana e salva a casa, cancella infatti tutte le sue ferite. Il suo sorriso sancisce la trasformazione della storia, da tragedia ad avventura.
Altro convincente cortometraggio è la terza opera di Mo Harawe, in competizione per l’Orso d’Oro all’ultima Berlinale, Will My Parents Come To See Me. Quasi come fosse il quinto episodio de Il male non esiste (anche esso presentato, e vincitore, al Festival di Berlino, nel 2020), il racconto delle ultime ore di Farah prima della sua esecuzione, si distinguono per la richiesta incessante del ragazzo di incontrare i genitori e per la presenza di una stoica funzionaria somala. La calma e inquietante attesa si rompe solo all’arrivo nel luogo della fucilazione. Lì il ragazzo, abbandonato dai genitori, non può far altro che piangere come un bambino perso, alla disperata ricerca della madre. L’insensatezza della pena di morte manifestata da due punti di vista che, nel finale, sebbene siano uniti da un certo grado di disprezzo, si fanno diametralmente opposti nel coinvolgimento e nell’azione.
CONCORSO LUNGOMETRAGGI “FINESTRE SUL MONDO”
Il concorso principale si è chiuso con due pellicole profondamente diverse, ma unite dalla presenza di due protagoniste tenaci, perseveranti e che, nel corso della pellicola, prenderanno in mano il proprio destino, anche se con modalità opposte. 98 segundos sin sombra di Juan Pablo Richter è un bizzarro coming of age che si fonda interamente sulla parlantina magnetica e incessante della sua protagonista. Genoveva, 16 anni, cerca di sopravvivere ai genitori disperati, al bullismo dei compagni di scuola, alla violenza dei militari e alla droga sempre più presente nella Bolivia degli anni ‘80, grazie alla sua acuta ironia e a una fervida fantasia che la trascina in viaggi intergalattici e fughe mistiche. Il percorso di crescita (o meglio di realizzazione) si manifesta attraverso le parole, che scandiscono l’intera pellicola, di Genoveva ai suoi interlocutori. Che sia la fidata amica Inés, l’ex nemica Vacaflor, la nonna o lo spettatore, quello messo in scena è in realtà un costante dialogo della protagonista con se stessa. Come fosse in un prison movie, pianifica la sua fuga e, proprio in virtù di ciò, è costretta a scegliere chi portare con sé e chi lasciare al proprio destino (nella cittadina che lei chiama “Buco Di Culo”). La scelta ricade su tutti i suoi cari che possono essere ancora salvati. Come in uno zombie movie (citato ad inizio pellicola) chi è infetto, nonostante sia una persona amata, va eliminata, e gli altri, seppur controvoglia, devono guardare ad un futuro senza di loro.
Nonostante anche la protagonista di Freda viva in un luogo pericoloso è (apparentemente) senza futuro, egli decide non ricominciare una nuova vita fuggendo, ma di cambiare la sua nazione rimanendo. Freda vive con la madre e i fratelli in un quartiere povero di Port-au-Prince. In un Paese devastato dalla corruzione e da una pesante eredità coloniale, dove le condizioni di vita diventano sempre più misere e la violenza aumenta vertiginosamente, molti giovani haitiani si chiedono se restare o andarsene. Anche la sua famiglia è attraversata da questo dilemma: Freda spera che il fratello e la sorella partano ma vuole rimanere per dare voce a una nuova generazione di giovani fantasiosi e creativi che credono ancora che Haiti possa avere un futuro. Il confronto generazionale con l’amata, ma ancora legata a vecchie abitudini, madre amplifica inoltre la portata di questo racconto di resilienza femminile che si fa universale, anche grazie ad una splendida scena conclusiva.
CONCORSO CORTOMETRAGGI AFRICANI
Forte del successo del precedente Black Mamba, la fotografa tunisina Amel Guellaty torna dietro la macchina da presa con il suo nuovo cortometraggio Chitana, storia di due sorelle di dieci e dodici anni che si lasciano tentare da un giro nel bosco, luogo proibito alle bambine. La foresta diventa il luogo all’interno della quale si manifesta la maturazione di Eya e Sofia poiché i pericoli vissuti le porteranno (in particolare Sofia) ad avere una più profonda comprensione della vita. Il racconto diventa però anche una parabola a favore dell’emancipazione femminile: la possibilità di sbagliare, di potersi mettere nei guai, in alcune società prerogativa esclusivamente maschile, diventa quindi il simbolo di una libertà naturale per un bambino, meno se di sesso femminile. La felicità di Sofia nel capire che la sorella è rientrata sana e salva a casa, cancella infatti tutte le sue ferite. Il suo sorriso sancisce la trasformazione della storia, da tragedia ad avventura.
Altro convincente cortometraggio è la terza opera di Mo Harawe, in competizione per l’Orso d’Oro all’ultima Berlinale, Will My Parents Come To See Me. Quasi come fosse il quinto episodio de Il male non esiste (anche esso presentato, e vincitore, al Festival di Berlino, nel 2020), il racconto delle ultime ore di Farah prima della sua esecuzione, si distinguono per la richiesta incessante del ragazzo di incontrare i genitori e per la presenza di una stoica funzionaria somala. La calma e inquietante attesa si rompe solo all’arrivo nel luogo della fucilazione. Lì il ragazzo, abbandonato dai genitori, non può far altro che piangere come un bambino perso, alla disperata ricerca della madre. L’insensatezza della pena di morte manifestata da due punti di vista che, nel finale, sebbene siano uniti da un certo grado di disprezzo, si fanno diametralmente opposti nel coinvolgimento e nell’azione.