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FESCAAAL 31 – Il racconto della nona giornata: la premiazione della terza edizione del MiWY, quattro sezioni, quattro continenti, tre sale e tanto cinema
Nel giorno iniziato con la cerimonia di premiazione della terza edizione del MiWY (un festival dentro il festival, dedicato alle scuole), gli spettatori hanno potuto scegliere tra una selezione di film numerosa e variegata: quattro sezioni, quattro continenti, tre sale e tanto cinema.

CONCORSO LUNGOMETRAGGI “FINESTRE SUL MONDO”

Il concorso principale si è chiuso con due pellicole profondamente diverse, ma unite dalla presenza di due protagoniste tenaci, perseveranti e che, nel corso della pellicola, prenderanno in mano il proprio destino, anche se con modalità opposte. 98 segundos sin sombra di Juan Pablo Richter è un bizzarro coming of age che si fonda interamente sulla parlantina magnetica e incessante della sua protagonista. Genoveva, 16 anni, cerca di sopravvivere ai genitori disperati, al bullismo dei compagni di scuola, alla violenza dei militari e alla droga sempre più presente nella Bolivia degli anni ‘80, grazie alla sua acuta ironia e a una fervida fantasia che la trascina in viaggi intergalattici e fughe mistiche. Il percorso di crescita (o meglio di realizzazione) si manifesta attraverso le parole, che scandiscono l’intera pellicola, di Genoveva ai suoi interlocutori. Che sia la fidata amica Inés, l’ex nemica Vacaflor, la nonna o lo spettatore, quello messo in scena è in realtà un costante dialogo della protagonista con se stessa. Come fosse in un prison movie, pianifica la sua fuga e, proprio in virtù di ciò, è costretta a scegliere chi portare con sé e chi lasciare al proprio destino (nella cittadina che lei chiama “Buco Di Culo”). La scelta ricade su tutti i suoi cari che possono essere ancora salvati. Come in uno zombie movie (citato ad inizio pellicola) chi è infetto, nonostante sia una persona amata, va eliminata, e gli altri, seppur controvoglia, devono guardare ad un futuro senza di loro.


Nonostante anche la protagonista di Freda viva in un luogo pericoloso è (apparentemente) senza futuro, egli decide non ricominciare una nuova vita fuggendo, ma di cambiare la sua nazione rimanendo. Freda vive con la madre e i fratelli in un quartiere povero di Port-au-Prince. In un Paese devastato dalla corruzione e da una pesante eredità coloniale, dove le condizioni di vita diventano sempre più misere e la violenza aumenta vertiginosamente, molti giovani haitiani si chiedono se restare o andarsene. Anche la sua famiglia è attraversata da questo dilemma: Freda spera che il fratello e la sorella partano ma vuole rimanere per dare voce a una nuova generazione di giovani fantasiosi e creativi che credono ancora che Haiti possa avere un futuro. Il confronto generazionale con l’amata, ma ancora legata a vecchie abitudini, madre amplifica inoltre la portata di questo racconto di resilienza femminile che si fa universale, anche grazie ad una splendida scena conclusiva.

CONCORSO CORTOMETRAGGI AFRICANI

Forte del successo del precedente Black Mamba, la fotografa tunisina Amel Guellaty torna dietro la macchina da presa con il suo nuovo cortometraggio Chitana, storia di due sorelle di dieci e dodici anni che si lasciano tentare da un giro nel bosco, luogo proibito alle bambine. La foresta diventa il luogo all’interno della quale si manifesta la maturazione di Eya e Sofia poiché i pericoli vissuti le porteranno (in particolare Sofia) ad avere una più profonda comprensione della vita. Il racconto diventa però anche una parabola a favore dell’emancipazione femminile: la possibilità di sbagliare, di potersi mettere nei guai, in alcune società prerogativa esclusivamente maschile, diventa quindi il simbolo di una libertà naturale per un bambino, meno se di sesso femminile. La felicità di Sofia nel capire che la sorella è rientrata sana e salva a casa, cancella infatti tutte le sue ferite. Il suo sorriso sancisce la trasformazione della storia, da tragedia ad avventura.

Altro convincente cortometraggio è la terza opera di Mo Harawe, in competizione per l’Orso d’Oro all’ultima Berlinale, Will My Parents Come To See Me. Quasi come fosse il quinto episodio de Il male non esiste (anche esso presentato, e vincitore, al Festival di Berlino, nel 2020), il racconto delle ultime ore di Farah prima della sua esecuzione, si distinguono per la richiesta incessante del ragazzo di incontrare i genitori e per la presenza di una stoica funzionaria somala. La calma e inquietante attesa si rompe solo all’arrivo nel luogo della fucilazione. Lì il ragazzo, abbandonato dai genitori, non può far altro che piangere come un bambino perso, alla disperata ricerca della madre. L’insensatezza della pena di morte manifestata da due punti di vista che, nel finale, sebbene siano uniti da un certo grado di disprezzo, si fanno diametralmente opposti nel coinvolgimento e nell’azione.


CONCORSO EXTR’A

Le due proiezioni di Mother Lode di Matteo Tortone si sono svolte ieri all’Arlecchino e al Wanted cinema. Un ragazzo della periferia di Lima decide di cercare fortuna nella terra, in una miniera d’oro sulle Ande e come lui tanti altri giovani.  Durante il suo percorso dovrà confrontarsi con sé stesso e con la figura del Diavolo, metafora del denaro e del potere, del profitto a cui vengono sacrificati i propri valori. La Rinconada, la città mineraria più crudele e pericolosa, diventa così la rappresentazione del mondo degli inferi, pur essendo definita “La città più vicina al cielo” e circondata da un ghiacciaio.  Il docudrama è stato in selezione alla Settimana della Critica durante l’edizione 2021 del Festival di Venezia e sarà prossimamente in concorso anche a Bellaria.  La vicenda di Jorge riesce a diventare universale, il bianco e nero contribuisce al tono poetico delle immagini che presentano un gusto fotografico impeccabile e come ha definito lo stesso regista: «Non si riesce a distinguere l’oro con immagini in bianco e nero. Se non si riesce a distinguere l’oro, il lavoro che le persone stanno facendo è soltanto lavoro e richiama il fenomeno di Sisifo». Ed è forse questo che rende il film ancora più prezioso.

Los Zuluagas di Flavia Montini narra la storia di Camilo, 35 anni, figlio di guerriglieri colombiani, il quale torna nel suo paese d’origine dopo 25 anni di esilio in Italia. Nel tentativo di comprendere le scelte radicali dei suoi genitori, si immerge nell'archivio di famiglia. Straordinari film amatoriali e scritti privati rivelano conflitti mai sopiti e memorie dolorose. Quelle di un padre, comandante rivoluzionario, che ha sacrificato tutto in nome della lotta politica, ma che ha visto il suo sogno di giustizia svanire. Quelle di un figlio, cresciuto all'ombra di un uomo carismatico ma ingombrante, incapace di accogliere i bisogni di un bambino. Quelle di una madre. Un fantasma che agita i sonni di Camilo da quando aveva 5 anni. Un’occasione unica per dar vita a un dialogo impossibile, a lungo desiderato ma mai veramente avvenuto. Il film si tramuta in una ricerca vitale, una costruzione di significati, tra racconti di morte, assenze, dolore, incertezze, discese e risalite. Vediamo Camilo immergere le sue mani nella profondità dei ricordi e delle emozioni dimenticate, spingendosi fin oltre la sue paure. Al termine capirà che, per riappropriarsi della sua storia, non vi è altra via se non quella di affondare, con amore, il coltello nelle ferite. Riaprirle per ripulirle.

SEZIONE FUORI CONCORSO

Il triplo spettacolo di film fuori concorso si è aperto con Neighbours di Mano Khalil. In un villaggio siriano nei primi anni Ottanta, il piccolo Sero è al primo anno di scuola. L'arrivo di un nuovo insegnante mina la sua serenità: con violenza, l'uomo proibisce la lingua curda, ordina il culto di Assad e predica l'odio verso gli ebrei, nel tentativo di trasformare i bambini curdi in buoni e fedeli compagni panarabi. Le lezioni disturbano particolarmente Sero, che vive vicino a un'amorevole famiglia ebrea. Operazione simile a quella del più dichiaratamente comico Jojo Rabbit (2019), sfrutta lo sguardo di un piccolo bambino per mostrare l’assurdità della guerra. Grazie al fatto che il film ci spinge a osservare questa realtà complessa attraverso gli occhi di un bambino, questa mantiene sempre un velo di magia che impedisce alla tristezza di prendere il sopravvento, come se la crudeltà e il pragmatismo del nuovo maestro non riuscissero davvero ad attraversare il muro dell’infanzia con le sue illusioni e desideri semplici (come il sogno di Sero di poter un giorno guardare i cartoni animati alla televisione). Molto intelligente inoltre l’idea del regista di rappresenta la guerra come una potenzialità pericolosa che rimane però pressoché invisibile, come un mostro pronto ad attaccare di cui non si conosce però il volto, rendendo quindi la storia più astratta ed “esportabile” nel mondo.

Totalmente differente invece Isole, nuova opera del maestro Mario Brenta, coadiuvato (come ormai avviene da dieci anni) da Karine de Villers. Il patchwork di più di settanta sguardi personali, di singolari visioni del mondo, frammenti sensibili di un’attualità incerta e mutevole, risulta essere intrinsecamente legato alla pandemia di COVID-19, in quanto l’emergenza sanitaria derivata da essa, diventa sia la causa della sua struttura episodica, che l’argomento principale delle discussioni degli “ospiti”. A ben vedere l’intento dovrebbe essere quello di far riflettere sull’essere umano e sulle sue capacità (e necessità) relazionali: come delle isole (separate e al contempo legata dal mare), siamo divisi, ma contemporaneamente uniti, dai nostri simili. Il lavoro di montaggio, vero punto di forza del film, diventa diretta espressione dell’assunto cercando di legare le varie particelle, le quali però il più delle volte risultano ridondanti o superficiali. Nonostante il grande lavoro dei due registi, l’opera è limitata da un materiale visivo, solo a volte accattivante ed interessante, che proprio per la sua insistenza sull’attualità (ormai di due anni fa), avvicina sensibilmente la pellicola alla sua data di scadenza.  

Nelle sale milanesi arriva anche Children of the Sun, ultima fatica di Prasanna Vithanage, cineasta di successo, considerato uno dei pionieri della terza generazione del cinema dello Sri Lanka. L’elaborata trama è ambientata nel 1814 a Ceylon, città governata da un re indiano tamil malvisto dai nobili buddisti che cercano l’appoggio britannico per deporlo. Uno di questi viene incastrato e punito dal re: le sue mogli devono scegliere tra suicidarsi o sposare dei fuori-casta. Invece di suicidarsi, la giovane e bella Tikiri sceglie di accasarsi con Vijaya, non rinunciando quindi a lottare per mantenere la sua dignità e non soccombere al suo destino. Nella scelta di rivolgersi al passato, emerge tutta la volontà del regista di parlare dell’India contemporanea. Se, come affermato da lui stesso: "Non ha senso fare un dramma in costume solo per il look e i costumi, deve far luce sul mondo presente e sulla situazione nel tuo paese", l’obiettivo può dirsi raggiunto. Attraverso una confezione tragica e delicata, la pellicola riesce a far risuonare la discussione sul feudalismo, sul razzismo sulle caste, sulla violenza di genere e su le perfidie coloniale fino al presente.

I FILM DELLA DOMENICA

Nonostante sia il grande giorno della premiazione, il FESCAAL non vuole lasciare i suoi spettatori senza film da assaporare. Ad intrattenere il pubblico ci penseranno quindi la commedia Kung Fu Zohra di Mabrouk El Mechri, il clamoroso successo al botteghino (825 milioni di dollari, record per un film girato da una donna) Hi, Mom! di Jia Ling e il lavoro collettivo (tra cui nomi spiccano Jafar Panahi, Apichatpong Weerasethakul, David Lowery e la premio oscar Laura Poitras) The Year of the Everlasting Storm

A cura di Emma Onesti ed Enrico Nicolosi
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