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FESCAAAL 31 – Il racconto della settima giornata: viaggio tra continenti con "El árbol rojo", "Nous, étudians!" e "Children of the Mist"
Giornata con ben dodici pellicole, divise nelle tre sezioni competitive, che dimostrano la ricchezza e la diversità di sguardi e prospettive messe in mostra durante questo festival. Nel Concorso Lungometraggi “Finestre sul mondo” abbiamo infatti avuto modo di apprezzare film provenienti dai tre continenti a cui cerca di avvicinarsi la rassegna milanese: il road movie colombiano El árbol rojo, il racconto politico centroafricano Nous, étudians! e la ribellione alle tradizioni del vietnamita Children of the Mist.

CONCORSO LUNGOMETRAGGI “FINESTRE SUL MONDO”

Nous, étudians! è un’affermazione, una ricerca di identità e di comunità all’interno di un gruppo di studenti dell’università di Bangui, nella Repubblica Centrafricana. Il regista, Rafiki Fariala, classe 1997, esplora diverse situazioni della quotidianità dei suoi compagni di studio e delle loro ragazze e denuncia le dinamiche di un campus che non ha a cuore gli interessi e la formazione dei giovani del Paese né il loro futuro. Il documentario ha partecipato a diversi altri festival, tra cui la Berlinale e Cinéma du Réel di Parigi e rappresenta con intelligenza e ironia la lotta per un futuro migliore e il divario generazionale che ancora non permette cambiamenti. Il regista è sempre presente, dialoga con i propri amici, ci canta delle canzoni politicamente impegnate e ci trasmette la voglia di documentare la realtà e di migliorarla, posizionandosi con fermezza contro le istituzioni. L’intento del film può infatti essere condensato in un finale scambio di battute tra due dei protagonisti: uno afferma di avere pietà per la condizione dell’altro, ma quest’ultimo gli risponde: “È un problema tuo”. Uno spunto su cui riflettere e da cui partire.


Children of the Mist stupisce per la storia narrata e per l’incredibile vicinanza della regista Diem Ha Le alla protagonista Di. Più volte, vediamo le due (che all’inizio si dichiarano sorelle) dialogare tra di loro, e la presenza stessa della macchina da presa sembra dare coraggio alla tredicenne di opporsi alla tradizione del “rapimento della sposa” ancora pratica nel nord del Vietnam. Quella che viene mostrata è una società ibrida, legata a consuetudini antichissime ma al contempo a contatto con nuovi mezzi di emancipazione, almeno per quanto riguarda le nuove generazioni. Di diventa quindi una sorta di pioniere della ribellione femminile: ben consapevole, grazie agli esempi della madre e della sorella, dell’infelicità di un matrimonio imposto e delle possibilità riservate a chi decide di continuare a studiare, fa di tutto per opporsi ad un destino che sembra già segnato. Lo spettatore non può che rimanere scosso dall’aver visto, così da vicino, l’insensatezza di certe usanze le quali, nel contesto di una società che sembra progredire (vengono menzionati Facebook e la Festa della donna), si rivelano ancor più insensate e disturbanti.

Meno sorprendente del precedente è El árbol rojo, primo lungometraggio di Joan Gómez Endara. Classico road movie durante il corso della quale i personaggi, inizialmente distanti e diffidenti, creano un legame che cambierà le loro vite. È il caso di Eliécer che, alla morte del padre da cui si era allontanato da tempo, scopre di avere una sorellastra, Esperanza. Deciso a non prendersi la responsabilità della bimba, Eliécer intraprende un viaggio alla ricerca della madre che l’aveva abbandonata. Il percorso non è però solo un espediente per analizzare il rapporto tra i due fratelli (uniti dal ricordo del padre e dall’amore per la gaita) ma anche per confessare le difficoltà e le contraddizioni della Colombia degli anni '90. La presenza costante delle forze armate fa percepire allo spettatore una costante sensazione di irrequietezza, probabilmente provata anche dai personaggi e da veri cittadini colombiani dell’epoca. Il vero punto di forza è comunque la relazione tra Eliécer e Esperanza, due orfani che, alla fine del viaggio, decideranno di ricostruire quella famiglia che hanno perduto proprio a partire dalle radici di quell’albero rosso, protagonista delle storie del padre.

CONCORSO CORTOMETRAGGI AFRICANI

Come sempre finora, i cortometraggi di questa sezione, si sono rivelati un ottimo antipasto dei film in concorso per il Premio Comune di Milano al Miglior Lungometraggio “Finestre sul mondo”. Gli spettatori hanno potuto assistere a tre film profondamente diversi ma ugualmente capaci di catturare l’interesse e direzionare lo sguardo critico sull’Africa. Qu’importe si les bêtes meurent di Sofia Alaoui, vero e proprio fenomeno della scorsa stagione dei premi, vincitrice del Premio César al Miglior Cortometraggio e del Premio della Giuria durante il Sundance Film Festival 2021, mette in scena una storia sospesa tra science-fiction e tradizione. Nel momento in cui il giovane Abdallah scopre che i cittadini del suo villaggio sono fuggiti a causa di una presunta invasione aliena, il suo istinto gli dice di rifugiarsi (esattamente come hanno fatto gli altri) nella moschea. L’incontro con una donna e quello successivo con il padre, mostrano tutta l’insensatezza dei rigidi precetti religiosi di fronte alla verità della (fanta)scienza.

Proverà ad ereditarne il Premio César al Miglior Cortometraggio, Le départ, racconto personale del regista Saïd Hamich. Egli restituisce, attraverso le azioni e le parole (alcune anche rivolte allo spettatore) di Adil, undicenne marocchino il quale si appresta ad andare a vivere in Francia con il padre e il fratello, le paure e le speranze provate in quel momento di grande incertezza. Nonostante fosse affascinato dalla cultura francese (incarnata dalla moglie del fratello) Adil è ben consapevole che ciò significherà abbandonare la madre e i suoi amici. L’ultima settimana nel suo paese natale, segnata dalle imprese del corridore Hicham El Guerrouj durante le Olimpiadi del 2004, diventa quindi un commovente addio ad una parte di se stesso, forse ritrovata proprio grazie a questo film.


Astel di Ramata-Toulaye Sy è invece la storia di una giovane ragazza che passa le sue gioiose giornate con il padre, aiutandolo a pascolare le mucche. Astel viene però costretta ad abbandonare la vita di cui è tanto felice. La presunta entrata nell’età adulta corrisponde con il suo ingresso nella società e quindi, in ruolo deciso per lei, non da lei. Nella sua semplicità alcuni elementi raccontano chiaramente la tristezza di far parte di una società restrittiva. Uno di questi è cambio di vestiario finale, il quale, da espressione del proprio essere, diventa invece simbolo di repressione.

CONCORSO EXTR’A

Sono ben sei i film all’interno di questa sezione, proiettati nella giornata. Rue Garibaldi, unico lungometraggio tra questi, già presentato nello scorso Torino Film Festival (durante la quale ha vinto il premio per il miglior documentario italiano), racconta la storia di Ines e Rafik, fratello e sorella di origine tunisine ma cresciuti in Sicilia, i quali cercano di sopravvivere lavorando a Parigi. Federico Francioni abbandona ogni remore di distacco oggettivo e decide di immergersi totalmente nella vita dei due fratelli per trattare le questioni di lavoro, di precarietà, di identità, di una ricerca di senso, emerse dall’intima investigazione dei due ventenni.

Con The Nightwalk, Adriano Valerio centra l’obiettivo di raccontare in maniera convincente il dramma della vita nell’era della pandemia. L’incubo del confinamento lontano dalla propria casa e dai propri affetti, vissuto da Jarvis, ragazzo trasferitosi a Shangai per motivi di studio nel 2020, si configura come singola storia all’interno un’esperienza collettiva provata da gran parte della popolazione mondiale. Utilizzando numerose immagini di repertorio alternate a riprese particolarmente efficaci, grazie all’uso della fotografia elegante e, allo stesso tempo, incisiva di Olivier Dressen, il regista riesce a coinvolgere lo spettatore. Il quale, da subito, si immedesima nel protagonista, introiettando la sua ansia, la sua stessa angoscia e il senso di impotenza. La maggior parte del film si svolge in un’ambientazione notturna. Un’oscurità che diventa metafora del buio nel quale è sprofondata l’umanità.

Capitan Didier, corto realizzato da Margherita Ferri a partire da una sceneggiatura vincitrice della seconda edizione di “Una storia per EMERGENCY”, bando di concorso per sceneggiature che si pongono come obiettivo quello di illuminare le devastanti conseguenze sociali e sanitarie della guerra, dell’accoglienza e della tutela dei diritti umani come primo, indispensabile passo verso un percorso di pace. Nasce a partire da questi sentimenti l’idea di raccontare la storia di Didier, bambino di origine sub-sahariana che, grazie all’aiuto del padre, sta cercando di realizzare il suo sogno di costruire una barca fatta di cartoni di pizza. La regista riesce nell’impresa di rendere questa barca contemporaneamente astratta e concreta, trasformandola quindi in uno strumento utile sia per immaginare un futuro più speranzoso, che per affrontare un qualcosa che non c’è più.