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Festival di Cannes: la nostra classifica delle Palme d'oro dal 2000 al 2019
Discussi, amati, contestati: questo il destino comune dei film che si aggiudicano il massimo premio a una grande rassegna internazionale di cinema. Condizione amplificata a dismisura se si parla del festival di più prestigioso e importante al mondo, ovvero Cannes.

Per aggiungere un po' di pepe alla questione, ecco la nostra classifica delle venti Palme d'oro dal 2000 al 2019. Una panoramica eterogenea e affascinante, ricca di titoli molto diversi tra loro, segnata da un'autorialità spesso intransigente, che diventa un viaggio della memoria nel glamour (purtroppo solo virtuale, in questo caso) della Croisette.

20) Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul (2010)



Spiritualismo, forme primitive di religiosità zoomorfa, reincarnazioni, accoppiamenti di dubbia credibilità, imperscrutabili culti locali. Un calderone di credenze e stucchevole filosofia per cui è impossibile empatizzare, se non attraverso uno spirito cinefilo pseudo intellettuale. L'abisso che separa occidente e cultura animista orientale rende ancora più ostica un'opera d'ispirazione intermittente, fatta di pause e lunghi silenzi, presenze fantasmatiche, simboli e allegorie. In ogni caso, un'esperienza visiva a tratti di grande suggestione.

19) The Square di Ruben Östlund (2017)



Dopo il riuscito Forza maggiore (2014), Ruben Östlund torna a lavorare sul rapporto causa-effetto e sulle conseguenze imprevedibili che un evento apparentemente innocuo potrebbe scatenare. Lo fa con un film destrutturato e privo di baricentro, che costituisce una sfida costante per lo spettatore. Un'opera che cerca di porsi essa stessa, in maniera per certi versi coraggiosa, come una installazione artistica, riflettendo, spesso con una buona dose di narcisismo, sul confine che separa la provocazione dall'arte concettuale. Un azzardo cinematografico, ipnotico ed estenuante, che è possibile respingere in toto dal punto di vista teorico, ma che sicuramente non può lasciare indifferenti.

18) Fahrenheit 9/11 di Michael Moore (2004)



A due anni dal sorprendente Bowling a Columbine (2002), Michael Moore torna dietro la macchina da presa per realizzare un lavoro incentrato su una sorta di propaganda contro il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, vero protagonista del documentario. Rispetto alle sue opere precedenti, il regista lascia meno spazio a se stesso, utilizzando in gran parte il commento fuori campo e riducendo al minimo le scene in cui appare in prima persona. Il film convince, incuriosisce, stimola lo spettatore e sicuramente si lascia apprezzare per la vastissima fase di ricerca tra interviste, documenti e materiale di archivio. Peccato però che Moore, sulla base di una esposizione marcatamente di parte, non lasci allo spettatore il giusto spazio di riflessione, doveroso per formulare il proprio pensiero critico.

17) Dheepan – Una nuova vita di Jacques Audiard (2015)



Jacques Audiard, reduce dal melodramma di Un sapore di ruggine e ossa (2012), riversa la sua attenzione su una storia dal forte impegno civile, incentrata su una tematica di scottante attualità come l'immigrazione, al fine di riflettere sulla natura ambivalente del fenomeno, rappresentata in maniera emblematica e significativa dalla guerriglia urbana che il protagonista e la sua “famiglia” trovano nella periferia francese. Votato come sempre alle passioni forti e alla messa in scena di conflitti insanabili, Audiard confida qui su immediatezza e improvvisazione, ma qualche banalità di troppo compromette il risultato finale di un'opera comunque in grado di scuotere e far riflettere.

16) Io, Daniel Blake di Ken Loach (2016)



Raccontando l'incontro tra due solitudini differenti ma complementari (lei una giovane donna con a carico due figli, lui un uomo ormai anziano senza relazioni umane da coltivare o mantenere), Ken Loach si rende portavoce di un messaggio di solidarietà semplice e genuino, ancorato a valori innati in ognuno di noi, ma divenuti sempre più rari e reconditi per via del cinico individualismo che, in tempi duri e ostili, minaccia costantemente le scelte di ognuno. Classico cinema di impegno civile, sincero e coinvolgente, di un autore che ha già detto tutto (e meglio) nei decenni precedenti.

15) Il vento che accarezza l'erba di Ken Loach (2006)



Robusto, vigoroso titolo firmato Ken Loach, intelligente mix di impegno civile, furia cinematografica e ricostruzione storica di un momento delicatissimo per la storia irlandese. Non è di certo uno dei titoli più personali del regista britannico – il respiro troppo “epico”, a lungo andare, intacca lo smalto agguerrito della vicenda – ma schiera elementi interessanti che concorrono a farne un'opera torrenziale e vibrante, discretamente equilibrata sotto ogni aspetto, nonostante una certa prolissità di fondo. La poesia, nel cinema del regista britannico, non è mai stata così marxista e mainstream allo stesso tempo.

14) Il regno d'inverno – Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan (2014)



Dramma struggente che rimanda alle tragedie di William Shakespeare, il film è un raffinato esempio di cinema da camera valorizzato da un grande approfondimento psicologico, che procede lentamente per svelare cosa si nasconde sotto la fitta coltre di neve che pian piano sommerge il paesaggio, autentico luogo dell'anima. Un'affascinante riflessione sulle condizioni attuali della Turchia, tra crisi economica e dubbi morali, che procede con passo lentissimo e inesorabile, tra dialoghi infiniti e momenti di notevole suggestione.

13) Il pianista di Roman Polanski (2002)



Il film che ha riconciliato Roman Polanski con Hollywood e con l'America è anche una pellicola di complessa collocazione: da un lato è un film molto personale e sentito, dall'altro è in assoluto uno dei titoli più distanti dalla poetica del suo autore e dalle tematiche affrontate durante una carriera basata sul concetto stesso di ambiguità. Il confronto con l'epopea spielberghiana di Schindler's List (1993) risulta impietoso, ma a tratti lo stile di Polanski emerge con prepotenza, soprattutto nelle sequenze più drammatiche, regalando momenti claustrofobici da manuale. Tre Oscar: Miglior regia, Miglior attore protagonista (Adrien Brody) e Miglior sceneggiatura non orginale (Ronald Harwood).

12) La classe – Entre les murs di Laurent Cantet (2008)



Vita quotidiana in un liceo francese: gli insegnanti, gli alunni, i problemi di integrazione, le lezioni e le reciproche insicurezze, sia dietro che davanti la cattedra. Partendo dal presupposto che la scuola è il luogo dove «i ragazzi non imparano nulla e i professori non sono sempre certi che ciò che fanno sia giusto», Laurent Cantet realizza un film dal taglio fortemente documentaristico, ispirato all'opera semi-autobiografica dell'insegnante François Bégaudeau, anche protagonista della pellicola. Preparando le riprese durante l'intero anno scolastico, il regista è riuscito a creare una sintonia di grande spontaneità tra gli interpreti, tutti scelti tra alunni e docenti non professionisti, restituendo un ritratto dell'istituzione scolastica non certo lusinghiero ma assai realista. Volti appartenenti alla vita di tutti i giorni e dialoghi che fluiscono con incredibile naturalezza sono gli elementi chiave di un grande film, spontaneo crudo e d'impatto.

11) 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu (2007)



Manifesto della cosiddetta Nouvelle Vague rumena, il secondo lungometraggio di Cristian Mungiu è un dramma di grande spessore emotivo, intenso e dotato di uno sguardo registico allo stesso tempo rigoroso e appassionato. Più che una pellicola sull'aborto (argomento su cui l'autore, saggiamente, non prende particolare posizione), è un film politico che ritrae un Paese rovinato dalla burocrazia, dalle istituzioni e da un senso di disillusione che sembra impossibile scalfire. Mungiu gioca sul fuori campo e sul sonoro con invidiabile abilità, trasmettendo allo spettatore un forte senso di disagio e lasciandolo in balia di un universo degradato e senza speranza. Uno dei più crudi ritratti della Romania sotto il regime di Ceausescu che si siano mai visti sul grande schermo.

10) Il nastro bianco di Michael Haneke (2009)



Il bianco caratterizza i bambini del villaggio come esseri immacolati e incapaci di qualsiasi forma di “sporcizia morale”. In realtà proprio dentro di loro vi è la forma di iniquità peggiore: il germe della violenza e del nazismo che verrà. Mostrando pochissimo e lasciando intendere molto sulla società, in divenire, che vuole rappresentare, Haneke dà forma cinematografica a un raggelante e crudele trattato filosofico che porta a termine il suo personale percorso di rivelazione del male che ha toccato praticamente ogni sua pellicola, dimostrando che la crisi d'identità di cui l'uomo è spesso vittima può avere origine semplicemente da uno stato mentale contorto.

9) Un affare di famiglia di Hirokazu Kore-Eda (2018)



Regista tra i più significativi del cinema giapponese contemporaneo, Kore-Eda torna a trattare una delle tematiche più sviluppate nella sua filmografia: il rapporto biologico tra genitori e figli, rispetto alla connessione che si può creare anche tra chi non ha un reale legame di sangue. Un racconto dalla forza cinematografica non banale che scorre fluido alternando momenti più leggeri ad altri fortemente drammatici, sempre sotto il segno di una raffinata naturalezza espressiva nel mettere in scena complesse tematiche morali. Regia, sceneggiatura e montaggio impeccabili. Da vedere.

8) Dancer in the Dark di Lars von Trier (2000)



Tra le opere più discusse, discutibili e controverse di Lars von Trier, il film si apre con uno schermo nero, accompagnato dalle note della colonna sonora, nel tentativo di far immedesimare fin da subito lo spettatore con la condizione esistenziale che affligge la protagonista (prossima alla cecità), appassionata di musical e abituata a sognare a occhi aperti. Film politico sui generis contro xenofobia e pena di morte ma anche rivoluzionario esempio di stravolgimento dei codici del musical hollywoodiano: prendere o lasciare, senza vie di mezzo. Tra provocazione e autentica innovazione del linguaggio cinematografico, giocando sul confine tra fiction e realtà, von Trier gioca in casa e si diverte un mondo a spiazzare lo spettatore. Meritatissimo Prix d'interprétation féminine a Bjӧrk, autrice di una performance strepitosa.

7) La stanza del figlio di Nanni Moretti (2001)



Opera dalla tensione morale e drammatica assai elevata che è un magistrale esempio di cinema del dolore, in cui la temperatura emotiva è sempre sorvegliata e mai urlata, con una gestione ammirevole di una materia controversa e scivolosa. In parte, il film è una risposta a quanti accusavano Moretti di fare cinema solo su se stesso e per stesso, ma la realtà è molto più complessa: è la sfida, campale e impegnativa, di un autore ambizioso che s'è messo in testa l'obiettivo di sfidare anche il tabù del lutto, con il massimo pudore possibile e senza arretrare di fronte a nulla. Imperdibile.

6) Amour di Michael Haneke (2012)



L'amore da sempre danza pericolosamente sul sottile filo che separa la vita dalla morte, un sentimento puro che qui diventa protagonista unico e oggetto di studio per Michael Haneke. Radicale e privo di qualsiasi soluzione di compromesso, il film riesce a trasmettere e a raccontare una vicenda umana e toccante, innescando una spirale verticale e vertiginosa, dalla quale sembra non esserci uscita se non attraverso l'estremo gesto finale (anticipato dal flashforward dell'incipit). Il regista, affrontando temi come vita, morte, malattia, anzianità ed eutanasia, riesce a sbigottire e, quasi, a spaventare, costringendoci a una profonda riflessione su noi stessi. Uno dei film più scioccanti degli ultimi anni. Oscar e Golden Globe come Miglior film straniero.

5) L'enfant – Una storia d'amore di Jean-Pierre e Luc Dardenne (2005)



Attraverso le vicende di due esistenze ai margini, i fratelli Dardenne, Palma d'oro anche nel 1999 con Rosetta, danno vita a una splendida e struggente opera umanista che descrive le fragilità, il senso di inadeguatezza e il lacerante disagio emotivo di due persone inadatte alla vita, confinate in un sottobosco sociale infimo e meschino. I Dardenne ripercorrono temi e ambienti sociali già affrontati nelle loro opere precedenti, ma riescono a evitare qualsiasi forma di manierismo, emozionando con uno stile filmico sempre sorprendente nella sua essenzialità (mancanza di colonna sonora, macchina da presa mobile che segue i personaggi, dialoghi ridotti all'indispensabile) e capace di descrivere con naturalezza e passione un microcosmo di anime sperdute, per certi versi grette eppure tenere, per cui è assai difficile non provare empatia.

4) La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013)



Abdellatif Kechiche, al suo quinto film, ha realizzato una splendida educazione sentimentale spontanea e vitale, capace di restituire il carattere unico e irripetibile di un legame capace di deviare per sempre il corso di un'esistenza. Tra sorrisi e lacrime, anche i più piccoli gesti quotidiani assumono una valenza speciale, trasmettendo una sensazione di autenticità raramente percepita prima in una pellicola cinematografica. Un fluviale ed emozionante racconto che si muove tra dubbi e indecisioni, passione e delusione, piacere e dolore, in cui la straordinaria naturalezza degli espliciti rapporti sessuali tra le due protagoniste risulta scevra da ogni compiacimento voyeuristico. Magnifico.

3) The Tree of Life di Terrence Malick (2011)



Elementi tra loro conflittuali eppure necessariamente complementari, ambedue parti integranti dell'esistenza di ciascun individuo, The Way of God (sensibile e amorevole) e The Way of Nature (severa e brutale) sono i poli entro cui Malick dà vita al suo progetto più ambizioso e filosofico, denso di riflessioni sulla complessità e la semplicità del quotidiano, su Bene e Male che si annidano in ciascun essere umano, sulla ineludibile coesistenza di bellezza e orrore, poesia e disperazione nell'infinito cosmologico che ci circonda. Un'opera magniloquente aliena a qualsiasi moda o convenzione, autentico spartiacque nel cinema contemporaneo, da vivere come un flusso di suggestioni interiori e immagini di annichilente bellezza.

2) Parasite di Bong Joon-ho (2019)



Una scatenata e pirotecnica commedia nera che parla dei nodi cruciali del presente e della crisi economica con uno sguardo a dir poco funambolico e incendiario, tanto nelle premesse del racconto quanto nei suoi folli e imprevedibili sviluppi e colpi di scena, che mescolano dissacrazione fuori controllo e irresistibile bizzarria, satira politica e ossessioni contemporanee, slanci di black  humor e riflessioni sulle fratture tra ranghi sociali, collocate plasticamente su piani differenti e destinate a una feroce e impietosa lotta di classe. Un esempio, limpido e cristallino, di perfezione di regia e scrittura, che ha entusiasmato all'unanimità pubblico e critica internazionale. Quattro Oscar: Miglior film, Miglior film straniero, Miglior regia e Miglior sceneggiatura originale. Clamoroso.

1) Elephant di Gus Van Sant (2003)



Il risultato più potente e destabilizzante della filmografia di Gus Van Sant è questo piccolo film para-documentaristico, stringato e insieme visionario, che trasforma l'orrore del quotidiano e il vuoto pneumatico di una certa noia giovanile in una sinfonia ellittica e brutalissima, in cui i piani-sequenza per i corridoi disegnano geometrie tanto armoniose quanto claustrofobiche. La morte è lì, acquattata dietro ogni angolo, nascosta in una mostruosità che c'è ma non si vede, descritta da soggettive fataliste e da una moltiplicazione continua dei punti di vista. Uno degli esiti più sperimentali e moderni a cui è approdato il cinema degli anni Duemila, capolavoro di sguardo, di etica ed estetica nonché saggio di stile in cui, paradossalmente, non succede nulla perché tutto, forse, è già accaduto. Girato in tre settimane con attori non professionisti e ispirato al massacro della scuola Columbine. Per volere del Presidente di giuria di quella edizione, Patrice Chéreau (il quale chiese a Gilles Jacob una deroga al regolamento), vinse la Palma d'oro e il Premio per la miglior regia. Una scelta coraggiosa, che forzava la regola secondo la quale il film vincitore del massimo riconoscimento non potesse aggiudicarsi nessun altro premio (paletto imposto per evitare che accadesse come nel 1991, quando Barton Fink dei Coen vinse Palma, regia e miglior attore).
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