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L'insostenibile leggerezza dell'essere Daniel Day-Lewis
Daniel Day-Lewis, ovvero il più grande attore contemporaneo. Britannico con cittadinanza irlandese, nato a Londra il 29 aprile 1957, esordisce sul grande schermo con una piccola parte nel bellissimo Domenica, maledetta domenica (1971) di John Schlesinger, prima pellicola ad affrontare in modo diretto e privo di stereotipi il tema dell'omosessualità, all'inteno di un sofferto triangolo amoroso. Recitato in maniera superba dai protagonisti Peter Finch, Glenda Jackson e Murray Head, il film è un delicato e cupo ritratto della solitudine affettiva dell'uomo moderno, schiacciato dal continuo contrasto tra pulsioni interiori e il loro soffocamento in ossequio al perbenismo borghese, sinonimo di repressione. Daniel Day-Lewis, all'epoca quattordicenne, compare per alcuni secondi nei panni di un ragazzino che riga un'automobile con un pezzo di vetro.

Fondamentale, per la sua formazione attoriale, la preziosa esperienza teatrale al Bristol Old Vic di Londra negli anni '70. Di stampo classico, Daniel Day-Lewis trascende qualsiasi classificazione interpretativa precostituita, svettando in solitaria nel panorama cinematografico di oggi. Dalla metà degli anni '80, intraprende un percorso artistico senza eguali, dosando con estrema perizia la sua presenza sul grande schermo e scegliendo solo ruoli che sente profondamente, senza mai cedere a una sovraesposizione che avrebbe potuto usurare anzitempo la sua carriera.


«Non c'è niente di più bello in ogni arte di qualcosa che appaia semplice. E se si cerca di fare qualsiasi dannata cosa nella vita, ci si rende conto di come sia impossibile ottenere questa semplicità priva di sforzo»



Michael Mann, Martin Scorsese, Steven Spielberg e Paul Thomas Anderson solo solo alcuni dei grandi nomi che hanno contribuito a rendere unica la parabola artistica di Daniel Day-Lews, maestro assoluto di naturalezza espressiva, impegno civile, eleganza e professionalità, il quale purtroppo ha annunciato il suo ritiro dalla recitazione nel 2017, dopo la sontuosa prova offerta nel capolavoro Il filo nascosto. Una scelta di classe, per un uomo di classe. «Whatever you do, do it carefully».

Di seguito, 10 film per 10 ruoli memorabili, in una classifica che omaggia la straordinaria grandezza di Daniel Day-Lewis:

10) My Beautiful Laundrette (1985)



Thatcherismo, omosessualità, integrazione razziale, anni Ottanta. Troppa carne al fuoco? Probabilmente. Stephen Frears, che dirige un film à la Loach, sa tuttavia come intrecciare abilmente acuta indagine sociologica a più d'una pertinente evoluzione narrativa. Sebbene imperfetto e facilmente destinato a invecchiare, il film è un documento intenso e interessante su alcuni momenti importanti nella storia della Gran Bretagna, e sulla capacità di un autore di analizzare in maniera nervosa e interessante un racconto non semplice, dolente e ricco di sfumature. Non c'è un solo sentimento, nel film di Frears, che sia tratteggiato con pur minima traccia di superficialità. La robusta sceneggiatura, candidata all'Oscar, è firmata da Hanif Kureishi, che avrebbe curato anche (sempre per la regia di Frears) Sammy e Rosie vanno a letto (1987).

9) Il mio piede sinistro (1989)



Opera prima del regista Jim Sheridan, che adatta con Shane Connaughton l'omonimo romanzo autobiografico di Christy Brown, Il mio piede sinistro racconta la vera storia di un uomo nato portatore di handicap e morto artista affermato. Con un impianto strutturato su continui flashback, il film riesce a tratteggiare le ossessioni e le sofferenze del protagonista (l'incomunicabilità con il resto del mondo, la solitudine fisica ed emozionale): la materia di base diventa elemento scenico che scandisce il continuum narrativo, permettendo di compiere salti temporali tra il passato e il presente. Sheridan evita facili sentimentalismi legati al tema, che viene affrontato con eleganza e senza troppi drammi, utilizzando la menomazione come artificio per parlare di speranza e di forza d'animo e stemperando la retorica con elementi ironici a bilanciare le derive cupe e commoventi. Semplicemente strepitose la prove di Daniel Day-Lewis e Brenda Fricker (che interpreta la madre del protagonista), entrambi vincitori di un Oscar, rispettivamente come miglior attore (protagonista) e attrice (non protagonista). Musiche di Elmer Bernstein, fotografia di Jack Conroy.

8) L'insostenibile leggerezza dell'essere (1988)



Tratto dall'omonimo romanzo capolavoro di Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere ha il pregio di intraprendere una strada documentaristica (come dimostra l'impiego di alcune immagini di repertorio), concentrata sulla ricostruzione del contesto storico che riguarda la Primavera di Praga, piuttosto che puntare sul complesso apparato filosofico dell'opera scritta. Il regista decide di mettere al centro del suo lavoro la tragedia dell'invasione sovietica e le sue drammatiche conseguenze individuali e collettive, intrecciandole con un dramma sentimentale dall'andamento classico. Il romanzo è stato sfrondato a favore di una struttura più fluida, a cui mancano però dei veri guizzi da ricordare, ma Kaufman è attento a non scadere nella retorica e il suo sguardo si mantiene delicato fino alla fine. Grande prova del terzetto di attori protagonisti (Daniel Day-Lewis, Juliette Binoche e Lena Olin) e superba fotografia di Sven Nykvist.

7) L'ultimo dei mohicani (1992)



Ispirandosi solo parzialmente all'omonimo romanzo di avventura di James Fenimore Cooper del 1826, (prendendo invece spunto principalmente dalla sceneggiatura di Philip Dunne per il film Il re dei pellirossa del 1936), Michael Mann dà vita a uno dei suoi film più convenzionali, ma comunque fascinoso e avvincente. Raro esempio di cinema epico in quasi totale assenza di retorica, un'opera discontinua in cui la narrazione gestisce con difficoltà la mole di tematiche e personaggi, ragion per cui la regia decide di sopperire a una scrittura non sempre all'altezza (la sceneggiatura è firmata dallo stesso Mann in collaborazione con Christopher Crowe) regalando momenti di cinema puro da batticuore. Notevole dal punto di vista visivo, specie grazie alla lussuosa fotografia di Dante Spinotti, a una impeccabile gestione del ritmo e a una serie di scene memorabili dal forte impatto emotivo. Grande prova di Daniel Day-Lewis e notevole colonna sonora di Randy Edelman e Trevor Jones, vincitrice di un Golden Globe. Cinema d'avventura d'altri tempi, da conservare gelosamente.

6) Gangs of New York (2002)



Da sempre interessato ad analizzare la violenza come fenomeno alle radici della società americana, Martin Scorsese apre il terzo millennio con un affresco epico sulla sua città natale, che finisce inevitabilmente con il contenere vari riferimenti alla recente tragedia dell'11 settembre. Elefantiaco nella durata come nella scenografia (minuziosamente ricostruita da Dante Ferretti nell'ultimo grande set della storia di Cinecittà), il film squarcia il velo su un capitolo storico eluso dai manuali scolastici e racconta un'epopea urbana dominata dalla reciproca sopraffazione, dove la struttura “tribale” dell'America proletaria e multietnica viene spazzata via da un'autorità costituita non meno brutale. L'estetica da grand guignol, i tanti eccessi sul piano registico e qualche concessione di troppo a stilemi da spot pubblicitario lo rendono un'opera imperfetta che fece gridare molti in al capolavoro mancato: nonostante tutto siamo però dalle parti del grande cinema. Se Daniel Day-Lewis è monumentale nei panni di Bill il Macellaio, “padre della patria” sadico e razzista, DiCaprio imprime una svolta alla sua carriera diventando da questo momento il nuovo attore-feticcio di Scorsese. Clamorosa débacle agli Oscar: dieci nomination e nessun premio.

5) Nel nome del padre (1993)



Tratto dal romanzo autobiografico Il prezzo dell'innocenza di Gerry Conlon e vincitore dell'Orso d'oro al Festival di Berlino, Nel nome del padre è uno dei titoli più importanti e sentiti della carriera di Jim Sheridan. Il regista, che ha adattato il testo di partenza insieme a Terry George, firma una dura opera di denuncia, che usa come pretesto un errore giudiziario per sviscerare al meglio la questione irlandese. Senza risparmiare sulle sequenze violente e approfondendo nel modo giusto i tratti psicologici dei personaggi principali, Sheridan dirige una pellicola urgente e personale, con la quale vuole trasmettere tutta la sua indignazione: missione compiuta, grazie a un copione che coinvolge fino alla fine e a una regia che non si perde in eccessi retorici. Cast strepitoso, in cui giganteggiano un dolente Daniel Day-Lewis e un intenso Pete Postlethwaite. Funzionale colonna sonora di Bono, che contribuisce ad accrescere l'impatto emotivo delle immagini.

4) Lincoln (2012)



Riallacciandosi idealmente ad Amistad (1997), Steven Spielberg riprende il discorso a lui caro sul tema della schiavitù e delle disuguaglianze razziali in America, raccontando attraverso la figura di Lincoln un passaggio fondamentale per la costruzione della democrazia statunitense. Ispirata e di grande densità storico-politica, si tratta di un'opera resa ancora più preziosa dal valore aggiunto della eccellente interpretazione di Daniel Day-Lewis, vincitore di un meritatissimo Oscar come miglior attore protagonista (il terzo). Dopo Gangs of New York (2002) di Martin Scorsese e Il petroliere (2007) di Paul Thomas Anderson, Day-Lewis incarna un altro personaggio fondativo della storia americana, in quello che si va configurando come un preciso e straordinario percorso artistico: quella dell'attore londinese è una mimesi accuratissima, che parte dal corpo e termina con la voce (da ascoltare a tutti i costi in lingua originale, anche per via di un doppiaggio italiano a dir poco censurabile). Di grande maturità la regia di Spielberg, messa qui totalmente al servizio della Storia ed esaltata dalle magnifiche luci della chiaroscurale fotografia di Janusz Kaminski.

3) Il petroliere (2007)



Adattando il romanzo Petrolio! di Upton Sinclair, Paul Thomas Anderson racconta la perdita dell'innocenza di una Nazione. Daniel Plainview (Daniel Day-Lewis) è incarnazione paradigmatica delle qualità e dei limiti dell'Homo americanus: tenacia, determinazione, pragmatismo e senso degli affari, ma anche ambizione smisurata, brama di potere, individualismo e salvaguardia delle apparenze. Il film sottolinea contraddizioni e eccessi di una grande potenza economica in divenire, focalizzandosi sulle sue due anime più forti: il capitalismo e la religione, incapaci di dialogare tra loro e alieni a qualsiasi compromesso. Gli Stati Uniti che vanno nascendo sono quindi un colosso dai piedi d'argilla, privo di solide basi morali ed educative (con padri assenti o, nella migliore delle ipotesi, deprecabili), animato da feroce avidità e spietata prevaricazione. Magniloquente affresco, disincantato e profondamente cinefilo (con rimandi a Erich von Stroheim, John Huston e Stanley Kubrick), uno dei film più caustici e potenti firmati da Anderson, impreziosito da numerose sequenze da antologia, dalla mirabile fotografia di Robert Elswit (premiata con l'Oscar) e da una straordinaria direzione attoriale. Impressionante la prova di Daniel Day-Lewis, che si è portato a casa il suo secondo Oscar, ma Paul Dano, nel doppio ruolo di Eli e Paul Sunday, non è da meno. Orso d'Argento per la migliore regia e Orso speciale per il contributo artistico (l'ottima colonna sonora di Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead) al Festival di Berlino. Il film è dedicato alla memoria di Robert Altman.

2) L'età dell'innocenza (1993)



Potrebbe sembrare anomalo l'accostamento tra Martin Scorsese, cantore della New York contemporanea e del suo marciume metropolitano, e il romanzo di Edith Warthon, ambientato tra i merletti e i pettegolezzi dell'alto-borghesia americana ottocentesca. E, invece, raramente un matrimonio cinematografico fu così felice: in una ricostruzione d'epoca tanto maestosa e realista da poter essere accostata solo al perfezionismo viscontiano, l'analisi di questo microcosmo soffocato dalle convenzioni sociali e dal culto caparbio delle apparenze è impeccabile e chirurgica proprio come quella dell'universo mafioso in Quei bravi ragazzi (1990). Attori in stato di grazia, inquadrature che ricordano quadri di Monet o Seurat, precisione millimetrica nelle scenografie (di Dante Ferretti) e nei costumi (di Gabriella Pescucci, l'unico Oscar conquistato dal film), una varietà infinita di carrellate, piani sequenza in soggettiva e altri movimenti di macchina che però non sfiorano mai il tecnicismo fine a se stesso. Ma al di là di tutto ciò, il mélo di Scorsese è grande soprattutto perché è lontano dalle tradizionali pellicole in costume e dal manierismo affettato di certo cinema britannico: ogni dettaglio così meticolosamente curato, ogni scena accarezzata dall'esplicativa voce narrante (di Joanne Woodward nella versione originale, di Maria Pia Di Meo nel doppiaggio italiano) sono funzionali alla rappresentazione di un'America che, nemmeno nella sua ipocrita imitazione della società aristocratica europea, è mai stata innocente. Fotografia di Michael Ballhaus, musiche di Elmer Bernstein. Magnifico.

1) Il filo nascosto (2017)



Cinque anni dopo The Master (2012), Paul Thomas Anderson torna ancora agli anni Cinquanta e a un rapporto ossessivo tra due personaggi, in cui le dinamiche di figura forte e figura debole si vanno a interscambiare nel corso della narrazione. Reynolds Woodcock, uomo austero e severissimo ma anche capace di inattese fragilità infantili, è ancora succube del fantasma di una madre, le cui reliquie (una fotografia, una ciocca di capelli) porta sempre con sé: lui, che conosce alla perfezione la femminilità e i desideri di ogni donna, sembra poter fare a meno di una compagna nella vita, fino a quando non conosce Alma, modella, amante e addirittura “nuova madre” pronta a prendersi cura di lui e a scacciare gli spettri nascosti tra i fili degli abiti che Woodcock tesse quotidianamente. È infatti un film di fantasmi, Il filo nascosto (Phantom Thread, in originale), ma non sono soltanto quelli presenti a livello diegetico, ma anche quelli di una storia (del cinema) caratterizzata dal ricorso alla pellicola 35mm, capace di restituire atmosfere del tempo che fu e di ricordare film americani diretti da autori inglesi (molti i possibili rimandi a Rebecca – La prima moglie e Il sospetto di Alfred Hitchcock) o, allo stesso tempo, film inglesi di autori americani (Il servo e numerosi lavori successivi di Joseph Losey). Paul Thomas Anderson, nato in California nel 1970, ha firmato così il suo film più british, amalgamando la compostezza del cinema inglese con l’incisiva brutalità di Martin Scorsese e i caroselli visivi e giocosi di Max Ophüls (si veda la magnifica sequenza del Capodanno). Ma, in mezzo a tanti possibili riferimenti fantasmatici, a svettare è comunque il tocco personalissimo di un autore (qui anche sceneggiatore e direttore della fotografia) che prosegue a scavare negli abissi dell’animo umano con una forza audiovisiva e drammaturgica impressionante, in grado di trattare tematiche complesse e stratificate senza aver bisogno di alcun momento forzatamente intellettuale o di conversazioni che avrebbero gravato sulla godibilità dell’opera. Una meraviglia assoluta. Soltanto Daniel Day-Lewis avrebbe potuto interpretare in maniera così sbalorditiva il tormentato, esigente e fanciullesco stilista Woodcock. 
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