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Béla Tarr – La potenza del cinema come esperienza audiovisiva totalizzante
Tra i più importanti registi del cinema europeo a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, Béla Tarr inizia a interessarsi al cinema da ragazzo, realizzando alcuni cortometraggi già durante l’adolescenza. I suoi lavori amatoriali lo portarono all'attenzione dei Béla Balázs Studios, studi che prendono il nome dal noto teorico cinematografico ungherese, che finanziarono il suo esordio nel 1979, Nido familiare. Dopo alcuni film a colori, con regia dinamica e narrazioni che sembrano avere influenze nel cinema di John Cassavetes, Tarr codifica il suo stile personale solo nel 1988 con Perdizione. Gira poi quello che è considerato uno dei suoi capolavori, Sátántangó, della durata di sette ore e mezza. Seguono Le armonie di Werckmeister e L’uomo di Londra, quest’ultimo tratto da Simenon. Del 2011 è il suo ultimo lavoro, Il cavallo di Torino, ennesimo film straordinario ispirato alla filosofia di Nietzsche.

Autore unico per profondità di sguardo e maestria nella messa in scena, Tarr è il cantore di un cinema fortemente autoriale che dietro un'apparente freddezza, fatta di geometrici quadri in bianco e nero e fluviali piani-sequenza, lascia trasparire un devastante trasporto emotivo, fatto di simbolismo, tragedia e poesia.

Ecco alcune sequenze simbolo del cinema di Béla Tarr, tratte dai suoi più grandi capolavori:



Sul finire degli anni '80, Béla Tarr dà vita alla metamorfosi più decisiva e imprescindibile di tutta la sua carriera: con Perdizione abbandona definitivamente il colore per approdare a un cinema sostanzialmente “unico”, girato secondo i canoni e codici di uno stile che usa il bianco e nero e il piano-sequenza quali punte di diamante e capisaldi irrinunciabili di un modo personale di intendere le immagini cinematografiche, il loro valore e i loro orizzonti possibili. E Perdizione è una pellicola caratterizzata da un dialogare rancoroso e straniato, sovraccarico di elementi morali, sottotesti, implicazioni filosofiche di vario genere: un flusso ininterrotto che dona al film un fascino apocalittico, amplificato oltre ogni misura dall'approccio di Tarr. Viscerale e metafisica, cupa e disperata, un'opera che non rinuncia alla tangibilità ruvida dei propri fotogrammi, a dispetto di quanto di solito l'assenza di colore induce a fare («Il bianco e nero infatti contiene in sé un principio di astrazione e lontananza dalla concretezza dell'oggetto», P. Bertetto). L'approdo definitivo non possono che essere i cani randagi, simboli di una fine del mondo già materializzatasi chissà quando e chissà dove, della quale gli umani rimasti nel tempo presente, all'interno di un universo così crudo e asettico, non sono che la diretta e indifferente manifestazione. Potentissimo, anche se il meglio (per Tarr) deve ancora arrivare.



Dodici capitoli, della durata complessiva di 7 ore e con quattro anni di lavoro alle spalle: Sátántangó è l'opera più monumentale e titanica di Béla Tarr, il geniale magiaro nel cui cinema ogni immagine è un inno alla potenza destabilizzante della settima arte e alle sue implicazioni, tanto epiche quanto tragiche. Il risultato è, in questo caso come altrove, un capolavoro torrenziale e assoluto, fluviale ed epocale, una pietra miliare inamovibile. Siamo nella pianura ungherese e il respiro tarkovskijano veicolato dall'autore raggiunge un empireo difficilmente esprimibile per chiunque altro, nel quale il massimo della dimensione apocalittica coincide con l'apice del trascendentale: una commistione di alto e basso, di dannazione sprofondata negli abissi del tempo e dello spazio e di sublimazione metafisica delle immagini che rendono il film di Tarr un'epopea sensoriale senza (e fuori dal) tempo, paradigmatica della condizione umana, delle sue menzogne, delle sue dolorosissime storture. Un film sulle bugie del potere, sull'inconcludente natura dolente dell'esistenza, sul baratro dal quale nessuno può dirsi esente, in quanto abitante del pianeta Terra soggetto alle vessazioni di un fato mefistofelico e delle strutture coercitive che, giorno dopo giorno, ne scandiscono la quotidianità, scavando delle fosse sempre più profonde dalle quali è davvero difficile sottrarsi. Tutto avviene senza infingimenti, in una visione nella quale la temporalità è resa col massimo del realismo e della verosimiglianza attraverso piani-sequenza interminabili e scene infinite: non un tour de force fine a se stesso, ma un'esperienza alla quale abbandonarsi con il corpo e con lo spirito, sprofondando nelle secche e nei tantissimi momenti preziosi di una messa in scena irripetibile, a metà tra onirismo malato e agghiacciante verismo. L'Apocalisse è (già) qui, è ora, è arrivata e non ce ne siamo nemmeno accorti; Tarr ce ne riversa addosso l'eco profondissima, con tutta la spietata consapevolezza di un uomo e di un filosofo delle immagini. Le lande desolate, al cinema, non hanno mai avuto tale imponente e derelitta grandezza. Fotografia capolavoro di Gábor Medvigy. Dal romanzo di László Krasznahorkai.



Pietra miliare assoluta del cinema contemporaneo, nonché uno dei massimi punti di riferimento per tutti gli anni 2000, Le armonie di Werckmeister mette in scena, in termini allegorici e metaforici, un apologo pessimista ma profondamente poetico sugli uomini e il loro destino, trasfigurando le storture più atroci e i simbolismi più amari in pagine di grande cinema del sentimento, che nasconde un cuore evidentemente pulsante sotto la scorza apparentemente rigida generata dell'oltranzismo formale. Il villaggio del film, caratterizzato da scontri e ostilità, è prigioniero di una figura mostruosa ma reticente (il principe, invisibile ai più), che si macchierà di terribili delitti: un'evidente allusione ai regimi totalitari che hanno caratterizzato la storia del Novecento, dei quali il film di Tarr vuole ergersi a opera di denuncia, ma senza mai sbilanciarsi direttamente sul territorio del pamphlet, preferendogli semmai le nebbie, tutt'altro che consolatorie, del ricordo e della reminiscenza. L'enorme balena è invece chiaramente una traslitterazione in chiave unicamente negativa del Leviatano, animale biblico simbolo tra le altre cose della potenza di Dio («È incredibile come il signore si diverta a creare esseri così strani»), la quale, nonostante non si sottragga dal vessare gli uomini con un fatalismo spesso mortifero, non può che essere contemplata da occhi puri e ammirati con totale sospensione dell'incredulità, sotto il segno della paura e dell'abbandono. Girato in trentanove piani-sequenza, Le armonie di Werckmeister è un'opera che parla di un microcosmo scettico e impaurito, irretito e tramortito, caratterizzato da razzie e violenze, come in una delle scene in assoluto più memorabili della storia del cinema, recente e non: la devastazione di un ospedale per mano di un manipolo di uomini, durante la quale i malati vengono sradicati dai loro letti con ferocia silenziosa, mentre l'apparizione del corpo raggrinzito e scheletrico di un vecchio diventa un monito disperato a cessare le ostilità e deporre le armi. Il potere dell'immagine al grado massimo, grazie a sinuosi movimenti di macchina e al meraviglioso bianconero di Gábor Medvigy. Fondamentale il contributo delle musiche di Mihály Vig. Il titolo omaggia le teorie musicali del compositore barocco Andreas Werckmeister. Presentato al Festival di Berlino.



Un'altra grande opera di Béla Tarr, che adatta l'omonimo romanzo di Georges Simenon spostando l'ambientazione da Dieppe, in Normandia, a Bastia, in Corsica. Una ulteriore conferma dell'impressionante profondità di sguardo di un autore unico, in grado come nessun altro di forgiare immagini costruite in maniera tanto calibrata e rifinita quando potente e destabilizzante, orchestrando una sinfonia di patimenti e ossessioni che restituisce come meglio non si potrebbe il fascino incessante delle suggestioni della pagina scritta. Tarr lavora sulla diluizione e sull'attesa, sul silenzio e sull'interminabilità (suoi indiscussi marchi di fabbrica), forzando fino alle massime conseguenze i confini e limiti del proprio cinema e dando vita a un'operazione tanto seduttiva quanto gravida di spunti, per i tanti risvolti implicati e le molte tematiche chiamate in ballo, dalla colpa al fato, dal contatto umano (mancato) al mistero agghiacciante insito nelle cose del mondo. Il regista ungherese, come al solito, fa largo uso di piani-sequenza e inquadrature senza punteggiatura, rimarcando l'espressionismo e la pittoricità delle proprie immagini e costruendo un'opera nella quale tutto, dalla scelta delle sonorità al peso della costruzione formale, contribuisce a generare un'esperienza cinematografica eccezionale, più virato al noir che sbilanciato verso interrogativi religiosi, ai quali l'ungherese pare preferire evidentemente le voragini morali. Fotografia di Fred Kelemen, musiche di Mihály Vig. Presentato in concorso al Festival di Cannes. Partecipazione straordinaria dell'attrice Tilda Swinton, presenza a dir poco insolita per il cinema di Tarr, nei panni della moglie del protagonista.



L'opera ultima e definitiva di Tarr è una bolla spazio-temporale angosciante e cupissima, collocata nelle campagne ungheresi, in cui il tempo e lo spazio diventano pilastri portanti e forze da manipolare e dilatare, ricorrendo a inquadrature e a sequenze prolungate all'infinito oltre che a scenari foschi e brulli: delle terre selvagge dal fascino rupestre e contadino, che il bianco e nero (fotografia di Fred Kelemen) trasforma in delle lande sterminate e sperdute da cinema espressionista, simili a un inferno dell'anima privato di ogni forma di colore, vita, speranza. Tarr non contempla mai il suo ego di autore ma, accanto alla sua volenterosa troupe e alla moglie Ágnes Hranitzky (co-regista), dà vita a una monumentale riflessione sull'Apocalisse, lavorando sulle figure umane come manifestazioni dirette del caos primordiale, da rispettare e da raffigurare in tutto il loro dolente sovrapporsi di istinti e contraddizioni, di speranze disilluse e brutalità sopite pronte ad accendersi. Un cinema che ammutolisce nella sua sommessa potenza, che usa il tempo morto come sommo strumento di elaborazione immaginifica e psicologica. Gli inserti esterni alle azioni dei due personaggi principali, un padre e una figlia che lo affianca e lo cura, assumono il valore di presagi mortiferi: il visitatore e il suo discorso pieno di immagini oscure e ombrose, gli zingari e le loro proteste, il modo disarticolato con cui la donna legge un libro fornitogli da uno di quei vagabondi, secondo il regista ungherese una specie di Bibbia rovesciata. L'evento clou, tratto da un fatto realmente accaduto nella vita di Nietzsche, è tenuto fuori campo e viene rammentato nelle primissime battute dall'evocativa voce narrante. Il filosofo tedesco non si vede mai, ma la presenza del suo pensiero è più che tangibile. Straordinario il contributo del fido compositore Mihály Vig, che ha realizzato un tappeto sonoro costituito da un unico brano, semplicemente da brividi nella sua martellante catatonia. Orso d'argento e Premio FIPRESCI al Festival di Berlino.

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