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Peter Bogdanovich – Quando la fabbrica dei sogni diventa nostalgia del passato
Regista, sceneggiatore, attore e critico cinematografico statunitense, Peter Bogdanovich (1939 – 2022) è il discendente di un’abbiente famiglia di ebrei austriaci, che lascia l’America per sfuggire al nazismo. Inizia a lavorare con Stella Adler nell’ambiente off-Broadway, scrive di cinema sulla rivista Esquire e cura le monografie di Welles, Hawks e Hitchcock per il MOMA di New York. Si laurea in Storia del cinema con una tesi su Furore (1940) di John Ford ed entra in contatto con Roger Corman, figura decisiva per tanti giovani registi agli esordi.

Nel 1971 gira il documentario Directed by John Ford sul leggendario regista americano e raggiunge il successo con L’ultimo spettacolo, crepuscolare e struggente racconto sulla provincia americana e i traumi del paese, con sullo sfondo un’evidente e profondissima sensibilità cinematografica. Dirige in seguito Ma papà ti manda da sola? (1972), pieno di strizzate d’occhio alla commedia sofisticata, Paper Moon – Luna di carta (1973), ispirato al cinema di Frank Capra, che ottiene quattro nomination agli Oscar e la statuetta a sorpresa per la piccola Tatum O’Neal.

«I grandi nomi del passato non significano niente, per i giovani che vanno al cinema. Si perdono infiniti piaceri, gioie senza numero; un tesoro di esperienze liete, o profonde, o formative, che aspetta solo loro per rivivere e donarsi di nuovo: ma di questo, a quanto pare, i giovani di oggi non hanno il minimo sospetto»


La sua carriera successiva, mossa indelebilmente dal rimpianto per i generi della Hollywood classica, conosce alterne fortune. Tra i titoli di grande rilievo degli anni '80, impossibile non citare ...e tutti risero (1981), frizzante commedia vecchio stile con Ben Gazzara e Audrey Hepburn, e Dietro la maschera (1985), dramma hollywoodiano con una bravissima Cher (premiata a Cannes). Nel 1990 realizza un sequel de L’ultimo spettacolo, Texasville, e due anni dopo Rumori fuori scena. Il suo ultimo film, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, è Tutto può accadere a Broadway (2014). Come attore recita nel serial I Soprano e nel film postumo di Orson Welles The Other Side of the Wind (2018). Ha avuto una lunga relazione con l’attrice Cybill Shepherd, che ha diretto in quattro film.

Autore cinefilo, intriso di nostalgia e affetto per la Hollywood del tempo che fu, Bogdanovich, all'inizio degli anni '70, ha realizzato uno dopo l'altro i suoi tre film più importanti, tre gemme preziose da vedere e rivedere:

L'ULTIMO SPETTACOLO (1971)


1950, Wichita, minuscolo paese al confine tra il Texas e il Messico. La giovinezza dei ragazzi del posto si consuma tra amori, avventure sessuali, fugaci sortite in Messico e l'incombente Guerra di Corea.

Secondo lungometraggio del regista Peter Bogdanovich e il suo miglior film in assoluto. Opera con più livelli di lettura, L'ultimo spettacolo è innanzitutto un grande esempio di realismo cinematografico americano, dove la semplice quotidianità della vita nella provincia texana degli anni '50 diventa, senza colpi di scena e senza una vera e propria trama, una storia appassionante e coinvolgente, con personaggi vivi e indimenticabili e una cura per i dettagli calligrafica (clamorosa la colonna sonora, composta interamente da pezzi country trasmessi realmente dalle radio texane di quegli anni). Se si scava sotto questa piacevolissima superficie, tuttavia, si scopre un nucleo di grande nostalgia per un'epoca fatta di valori ormai impossibili da ritrovare: quella descritta nel film è infatti una generazione di ragazzi che ha schivato di un soffio gli orrori della Seconda guerra mondiale e che ancora doveva scoprire la Corea, una generazione sostanzialmente benestante, campione di un ribellismo dolce e innocuo, lontana anni luce dagli anni '60 e poco interessata alla politica. Ecco dunque che la pellicola diventa la descrizione piena di lacrime di nostalgia per un segmento di tempo, un pacifico atollo di storia americana destinato a essere presto sommerso dai torbidi decenni successivi. A suggellare questa operazione di amarcord, Bogdanovich (che era anche un noto critico cinematografico) inserisce una serie di piccoli riferimenti al cinema di Frank Capra e Howard Hawks, che viveva i suoi tempi migliori proprio nel primo lustro di quel decennio: la scena dell'ultimo spettacolo (che dà il titolo al film) del piccolo cinema di paese che proietta Il fiume rosso (1948) di Hawks è, in tal senso, la sequenza madre della pellicola e, probabilmente, la migliore dell'intera carriera del regista. Grande successo di critica. Lanciò una serie di talentuosi attori destinati ad avere fortune alterne: su tutti, Jeff Bridges. Nove nomination all'Oscar e due statuette vinte: a Ben Johnson e Cloris Leachmann rispettivamente come miglior attore e attrice non protagonisti.

MA PAPÀ TI MANDA SOLA? (1972)



Musicologo secchione e ingessato, Howard (Ryan O'Neal) si reca a un concorso di lavoro con la pedante mogliettina (Madeline Kahn). Qui conosce la frizzante e stravagante Judy (Barbra Streisand), che in pochi giorni metterà a soqquadro la sua vita.

Terza opera per il grande schermo di Peter Bogdanovich, critico cinematografico poi diventato uno degli autori più raffinati della New Hollywood. Dopo lo splendido L'ultimo spettacolo, dove il western hawksiano veniva utilizzato come strumento nostalgico per descrivere la generazione dei ragazzi degli anni '50, il regista newyorchese richiama nuovamente Howard Hawks, questa volta girando una sorta di personale remake di Susanna! (1938). Ma papà ti manda da sola? è infatti una pura screwball-comedy degli anni '30-'40, dove comicità slapstick, dialoghi spumeggianti e la guerra tra i sessi si fondono per creare un grande show comico e intelligente. A Bogdanovich non interessa cercare di attualizzare quel genere passato, con cui era cresciuto: lui vuol ricostruire fedelmente ciò che ha amato di quella Hollywood dei tempi d'oro. Quest'approccio, che negli anni successivi diventerà una sorta di poetica del regista e una vera e propria cifra stilistica, trova qui pieno compimento, riuscendo a essere un'operazione-nostalgia consapevole, divertente ed estremamente cinefila (ma mai agée). O'Neal e Streisand fanno faville, ma la coppia Cary Grant/Katharine Hepburn resta di un'altra galassia.

PAPER MOON – LUNA DI CARTA (1973)



Nell'America della grande crisi economica degli anni '30, un venditore ambulante di bibbie con il vizio della truffa (Ryan O'Neal) si ritrova affidata una bambina bionda (Tatum O'Neal): dopo gli iniziali dissapori, nasce un grande affetto e i due compiono una lunga serie di piccole truffe in tutta la nazione.

Continua il periodo magico di Peter Bogdanovich che, dopo il grande affresco elegiaco de L'ultimo spettacolo e la neo-screwball comedy Ma papà ti manda sola?, ripropone la sua poetica della rievocazione della Hollywood che fu (in particolare l'epoca d'oro degli anni ‘40-'50), dei generi fissi e della Settima arte intesa come fabbrica di sogni. Questa volta attinge al cinema di Frank Capra, raccontando una poeticissima favola d'amicizia on the road, dove i dialoghi tra i due personaggi principali (padre e figlia nella realtà) assurgono ad assoluti protagonisti, toccando vette brillanti nei battibecchi in macchina, quando Moses e Addie diventano quasi una coppia di fidanzati in preda a crisi di nervi. Davvero notevole, inoltre, il lavoro sulla fotografia operato da Laszlo Kovacs (collaboratore assiduo del regista), che crea un bianco e nero magico e sognante, appoggiandosi con coraggio agli scenari di povertà e miseria generati dalla Grande Depressione. Puro cinema dell'incanto, nostalgico ma mai malinconico, divertente ma mai sciocco. Un piccola gemma vintage nel bel mezzo della New Hollywood. Quattro nomination agli Oscar e statuetta a sorpresa per la piccola Tatum O'Neal.

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