Il futuro è oggi: la rivoluzione dolce della donna nell'industria cinematografica
07/03/2022
L’8 marzo, data dalle connotazioni fortemente politiche e non meramente celebrative, è l'occasione per ricordare le conquiste sociali ed economiche ottenute dalle donne nel corso dei secoli. In ambito prettamente cinematografico, la ricorrenza spinge a pensare, oggigiorno, all’incredibile e tortuoso cammino che le donne hanno dovuto intraprendere per arrivare ad essere considerate nell’industria dello spettacolo.

Fino a pochi decenni fa, infatti, il dominio dell’audiovisivo era in saldo controllo maschile, tranne rare eccezioni. Le uniche figure femminili dotate di potere, all’interno dello show business, erano le grandi dive che, a suon di capricci e interpretazioni indimenticabili, facevano perdere il sonno ai “poveri” produttori: Greta Garbo e Marlene Dietrich tra anni ’20 e ’30, Bette Davis e Katharine Hepburn per (quasi) tutta la loro carriera, passando per Elizabeth Taylor e Marilyn Monroe, senza dimenticare Rita Hayworth, Ingrid Bergman, Audrey Hepburn, Grace Kelly, le nostre Sophia Loren e Anna Magnani e così via.




Successivamente, in tempi più recenti, qualcosa è iniziato a cambiare. La società si è evoluta, le conquiste civili si sono fortunatamente moltiplicate e il ’68 e tutti gli anni ’70 hanno favorito un’imponente ondata di femminismo radicale. Le discriminazioni e gli abusi sulle donne non sono ovviamente spariti del tutto ma oggi, in piena era Time’s Up e #MeToo, stiamo assistendo a una sorta di resa dei conti nei confronti di (ormai ex) uomini potenti e misogini che avrebbero lasciato volentieri la situazione al punto di prima.

Le donne, entrate inizialmente in punta di piedi all’interno delle strutture audiovisive, hanno pian piano iniziato a farsi sentire ad alta voce, arrivando ad esercitare posizioni di prestigio nel grande ingranaggio che muove la macchina del cinema.

Uno tra i settori attualmente più controllato dalle donne è sicuramente quello legato alla produzione cinematografica. Moltissime figure femminili si ritrovano sempre di più a capo della creazione e organizzazione di film e serie TV, arrivando in alcuni casi ad avere importanti ruoli decisionali in alcuni tra gli studios più importanti al mondo. Tra queste, le più note sono sicuramente Donna Langley e Stacey Snider, rispettivamente presidente della Universal Pictures ed ex presidente della 20th Century Fox, prima che quest’ultima venisse fagocitata dal colosso della Walt Disney Company.




A proposito di Disney: quando l’ennesimo caso delle molestie ha travolto anche John Lasseter, storico co-fondatore della Pixar, la compagnia ha deciso di affidare il ruolo di direttore creativo dei Walt Disney Animation Studios (e quindi il volto stesso della casa di produzione) alla brillante Jennifer Lee, regista, sceneggiatrice e produttrice nota anche per aver realizzato la pellicola col più alto incasso nella storia del cinema d’animazione, il film premio Oscar Frozen.

Rimanendo negli States, impossibile non citare Kathleen Kennedy: cofondatrice e comproprietaria, insieme al marito Frank Marshall, della Kennedy/Marshall Company, cofondatrice, con Marshall e Steven Spielberg, della casa di produzione Amblin e, dal 2012, presidente della LucasFilm, subentrata al posto di George Lucas. Si tratta di uno dei produttori che genera più guadagno al botteghino, con un incasso globale stimato intorno ai 15 miliardi di dollari. Il classico “pezzo grosso”.

Spostandoci invece in ambito europeo, c’è una produttrice cinematografica britannica che non tutti conosceranno, ma il cui nome è stato letto da tutto il mondo in cima ai titoli di testa dei maggiori blockbuster di successo degli ultimi vent’anni. Una volta si soleva dire che “dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna” e la carriera di Emma Thomas sembra portare al massimo livello tale parabola. A fine anni ’90, infatti, un giovane regista di Londra, alle prime armi, riesce a farsi produrre i suoi primi cortometraggi: è proprio su questi primissimi set che Christopher Nolan incontra, conosce e si innamora della sua produttrice.


 

Thomas e Nolan danno vita a un sodalizio artistico che, a partire da un noir in bianco e nero girato a bassissimo costo, Following (1998), si sviluppa attraverso alcune tra le pellicole chiave del nuovo millennio. Nel 2001 i due fondano a Londra la casa di produzione Syncopy Films, con cui la Thomas produce tutti i film scritti e diretti dal marito: da Memento a Insomnia, da The Prestige alla folgorante trilogia del Cavaliere Oscuro, passando per i fantascientifici Inception e Interstellar fino ai recenti Dunkirk e Tenet, con la parentesi de L’uomo d’acciaio di Zack Snyder e la serie animata Batman – Il cavaliere di Gotham. Oggi la coppia vive negli Stati Uniti e, ogni volta che annuncia un nuovo film, riesce a creare attese spasmodiche nel cuore di fan e distributori di tutto il mondo. Emma Thomas è di fatto uno dei produttori più potenti del cinema statunitense e non solo, capace di ottenere e maneggiare budget giganteschi, mantenere il più rigido silenzio sulla lavorazione dei suoi film e generare hype a picchi altissimi ogni due/tre anni.

Sempre l’Europa e, più precisamente, la Francia, ha dato i natali a due autrici che, più di tutte, si fanno attualmente carico di un inno femminista e, in generale, profondamente sensibile alle tematiche umane. Abili conoscitrici della regia e, prima ancora, della scrittura cinematografica, hanno saputo imprimere alle loro opere, con autorialità e delicatezza, alcune delle più belle riflessioni sulla sessualità e sui rapporti umani che il cinema ci ha donato da parecchio tempo.

La prima non la scopriamo certo oggi: Claire Denis è forse la regista francese più conosciuta ed apprezzata. Nata a Parigi ma cresciuta in Africa fino all’età di 13 anni, è stata assistente alla regia per autori del calibro di Jacques Rivette, Costa-Gavras, Jim Jarmusch e Wim Wenders e nel corso della sua carriera ha fornito importanti riflessioni sul colonialismo e sulle tensioni familiari, dedicando un’importante porzione della sua estetica allo studio dei corpi e alle implicazioni più fisiche e respingenti dell’essere umano. Il suo stile sovversivo e provocatorio ha impressionato critica e pubblico soprattutto in pellicole sensuali e surreali quali Beau Travail (1999) e High Life (2018), passando attraverso accostamenti di violenza estrema (seppure solamente suggerita) ed estetica elegante e delicata in Cannibal Love (2001), fino alla recente incursione nella (riuscita) commedia intellettuale con L’amore secondo Isabelle (2017).




Apprendendo la lezione della “maestra”, negli ultimi anni anche Céline Sciamma è riuscita a costruire un universo cinematografico fondato su sensibilità, delicatezza e soprattutto straordinario talento, trattando i temi della giovinezza e della sessualità come raramente si era visto prima sul grande schermo. Sciamma debutta alla regia nel lungometraggio nel 2007 con Naissance des pieuvres, in cui traspare da subito la sua poetica cara ai “primi amori”, ottenendo da subito premi, candidature ai César e i primi apprezzamenti della critica. Da quel momento, la carriera della regista francese sembra non sbagliare un colpo. Tomboy (2011), piccolo gioiello girato in 20 giorni con una piccola troupe, segue le vicende di Laure, bambina di 10 anni non conforme di genere che si fa passare per maschio agli occhi dei suoi coetanei, specialmente quelli femminili. Il film si aggiudica numerosi riconoscimenti e lancia il nome della Sciamma, che da allora diventa una presenza fissa ai principali festival europei e non solo, grazie alla successiva realizzazione di Diamante nero (2014), Ritratto della giovane in fiamme (vincitore del Prix du scénario al Festival di Cannes 2019) e Petite Maman (2021). Nel mezzo, anche la meravigliosa parentesi della sceneggiatura de La mia vita da zucchina (2016), di Claude Barras.

Passando in rassegna le ultime scoperte femminili, non possono non saltare all’occhio due cineaste che, recentemente, hanno attirato l’attenzione grazie alla loro creatività, messa al servizio, ancora una volta, dell’universo femminile. Nel primo caso parliamo della regista che, un anno dopo gli Oscar a Parasite, ha riscritto le regole dei premi cinematografici, facendo incetta di statuette in ogni festival o celebrazione in cui il suo Nomadland sia stato presentato: Chloé Zhao. Vincitore del premio Oscar per il miglior film, la miglior regia e la miglior attrice protagonista (Frances McDormand) e, soprattutto, del Leone d’oro a Venezia oltre che di innumerevoli altri premi, Nomadland è un’affascinante riflessione esistenziale sugli affetti perduti e sui bei tempi andati, un’elegia lirica on the road dedicata agli outsider d’America e sorretta in toto dall’antidiva per eccellenza, una mostruosa Frances McDormand che, per completare il tutto, vince le ennesime statuette della sua carriera (anche in veste di produttrice) e ne approfitta ancora una volta per tenere alto il coro delle femministe.




Chloé Zhao, al primo tentativo, eguaglia e di fatto supera mostri sacri che erano andate vicine al tanto atteso tripudio femminile nel campo della regia: geni artistici come la nostra Lina Wertmüller, Jane Campion (che quest’anno ci riprova con Il potere del cane), Sofia Coppola e, più recentemente, Greta Gerwig. L’unica ad esserci riuscita, prima di Zhao, era Kathryn Bigelow che, con The Hurt Locker, vinse sia come regista che come produttrice. Oggi Chloé Zhao è ormai affermata, è già stata battezzata dai blockbuster tramite la realizzazione di Eternals della Marvel e tutte le principali distribuzioni del mondo sono pronte a litigarsi il suo prossimo film.

La seconda cineasta in analisi è la seconda donna per eccellenza che, durante l’ormai storica notte degli Oscar 2021, si è aggiudicata una statuetta, precisamente per la migliore sceneggiatura originale: Emerald Fennell.

I talenti dell’autrice britannica sembrano non esaurirsi mai ed è difficile dire in quale settore particolare riesca ad esprimersi meglio. Nata come attrice, dopo alcuni piccoli ruoli in grandi produzioni, si fa notare per la sua interpretazione di Camilla Parker-Bowles nella serie televisiva The Crown. Nel frattempo, però, si cimenta anche nella scrittura della serie Killing Eve e, forse stanca di adattare per il piccolo schermo, nel 2020 scrive e dirige il film femminista dell’anno: Una donna promettente, edulcorata commedia nera che, con carisma e coraggio, sputa tutte le denunce possibili in faccia a un sistema maschilista e fortemente misogino, grazie al “bel faccino” vendicativo di una Carey Mulligan (anche lei produttrice della pellicola) che si fa promotrice della tanto attesa “vendetta”.




Per ultime, vanno monitorate attentamente anche le nuovissime generazioni, che più di chiunque altro stanno vivendo sulla pelle alcuni tra i cambiamenti più consapevoli e radicali mai messi in scena, così sullo schermo come nella realtà. Da questo punto di vista, la serie televisiva di successo del momento, Euphoria, ha saputo parlare apertamente di molestie, identità di genere e adolescenza senza cadere nel ridicolo ma, anzi, elevando l’ordinario a straordinario.


«I just showed up without a map or a compass, and at some point, you have to make a choice... about who you are and what you want. And therein lies the catch»


Calata nel classico contesto adolescenziale del liceo statunitense in cui si rincorrono amicizie, amori, traumi, sesso e droghe, Euphoria è stata lodata da pubblico e critica specializzata soprattutto per l’esercizio realistico, ipercinetico e ricchissimo di virtuosismi nella messa in scena con cui porta in scena vere situazioni di disagio che toccano ormai la stragrande maggioranza dei giovanissimi di oggi. A interpretare benissimo le due protagoniste sono Zendaya e Hunter Schafer, autrici di un connubio che ha saputo restituire con incredibile veridicità tutte le fragilità di due personaggi scritti con grande lucidità.

Zendaya, attrice, modella e ballerina di 25 anni, è probabilmente l’attrice più richiesta del momento. Ha già alle spalle sei lungometraggi (tra cui Dune di Denis Villeneuve), di cui uno, Malcolm & Marie, da protagonista assoluta al fianco di John David Washington. Per la sua interpretazione di Rue in Euphoria si è aggiudicata un Premio Emmy (e tanto altro) come miglior attrice in una serie drammatica. Indipendente, talentuosa e bellissima, Zendaya è il nome sulla bocca di tutti.




La sua è, in parte, gloria condivisa, dal momento che anche la sua collega di Euphoria, Hunter Schafer, sta facendo parlare di sé. Si tratta di un’attrice e supermodella già notevolmente affermata, nonostante la giovanissima età. Oltre al ruolo di Jules in Euphoria, infatti, è conosciuta per essere una delle più importanti modelle transgender nel mondo della moda, in particolare grazie alle sue numerose battaglie per i diritti LGBTQ+. Si è infatti distinta come attivista sin dal periodo dell’adolescenza, dalle prime battaglie a diciassette anni contro l’imposizione dell’uso dei bagni pubblici a seconda del sesso di nascita. È da sempre impegnata a sfruttare i privilegi e la visibilità che le sono concessi come modella per puntare i riflettori sul concetto di gender, che vorrebbe decostruire a favore di una rivoluzione dell’autoidentificazione.

«I feel like I've framed my entire womanhood around men», dice il personaggio di Schafer: è tempo di cambiamento.

Nicolò Palmieri

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