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«Lo studio non esclude l’istinto così come la prosa chiama poesia»: i fratelli D'Innocenzo sul loro cinema di spazi, ombre e assenza
Registi e sceneggiatori, appassionati anche di pittura, fotografia e poesia, i fratelli D'Innocenzo (classe 1988) sono tra le personalità più eclettiche e stimolanti del panorama cinematografico italiano contemporaneo. Quello di Damiano e Fabio è un cinema alla continua ricerca di nuove suggestioni da modulare e modellare, sulla base di un talento gestuale proprio solo dei grandi autori.


A pochi giorni dall'uscita in sala del loro ultimo film, America Latina, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2021, abbiamo intervistato i gemelli romani, cercando di capire il percorso creativo che ha portato alla realizzazione dell'ultimo progetto, senza trascurare i tratti distintivi comuni a tutta la loro poetica.

Favolacce mi sembrava un film corale, colorato, disteso. Pur con tutte le "problematiche" del caso. America Latina mi sembra invece completamente concentrato sul protagonista, molto cupo, claustrofobico. Da dove nasce questa nuova spinta? Volevate costruire una sorta di controcampo del film precedente? Avete sentito l'esigenza di fare i conti con una dimensione più intima? 

Il nostro principale obiettivo, con America Latina, era quello di fare un film muto. Dovevamo quindi sottrarre personaggi. La corale vitalità di Favolacce doveva lasciare spazio al profondo singolo. Non c’è stato però alcun discorso programmatico, nessuna convenienza strategica. 

Se non erro, ma correggetemi se sbaglio, Latina è una zona paludare. L'acqua è l'elemento principale che mina le fondamenta del suolo, così come della casa del protagonista. Ora, però, Latina non ce la mostrate molto nel film. La casa quindi è un simbolo dell'animo del vostro Massimo (tre diversi piani, come vuole la psicanalisi per eccellenza) o è un riflesso più ingombrante di quell'area urbana?

Latina è paludare, oscena. Ci interessava tutto ciò. Dialoga con ciò che accade nella casa del protagonista. Giorni che scorrono umidicci e poi la scoperta del fango. Di Latina ci interessava mostrare l’aria, il paesaggio brullo, quasi inutile. Vite sospese con lo sputo.


L'incipit mi piace moltissimo. Entriamo in punta di piedi nella location principale del film, che di fatto è anche l'unica. Condividiamo lo sguardo in soggettiva (di chi?) e i credits scorrono al contrario. Mi sembra quindi ci siano le tracce già di una sorta di deformazione, sia dell'immagine cinematografica che del percorso di avvicinamento a un luogo sinistro. C'ho preso? E, in ogni caso, come lavorate alla costruzione di una scena? Tutte queste intuizioni nascono in fase di ideazione o una volta arrivati sul set?

La soggettiva è quella di una bambina. Lo sguardo, ciò che cerca. Ciò che vede. I titoli di coda vanno in senso opposto e invitano inconsciamente a lavorare a ritroso, a riavvolgere il nastro a fine film. In questa storia abbiamo disegnato e colorato personalmente ogni inquadratura. Ogni progetto ha bisogno di una dieta diversa. Qui dovevamo avere pieno controllo dell’aspetto visivo. Ogni colore, ogni inquadratura, che piaccia o meno, è frutto di nostri disegni. Ne rivendichiamo ogni difetto. 

Penso che America Latina sia un film di spazi. Ci dicono tantissimo, ingabbiano o liberano l'anima inquieta di Massimo. Come avete scovato la casa che fa da scenografia al tutto?

L’abbiamo trovata tra gli scarti del primo location manager che ha lavorato su questo film. Era una casa sbagliata e noi cercavamo una similitudine col protagonista, sbagliato anch’esso. Quella piscina che sembra un artiglio. Quella scala esterna. Quella casa quasi bidimensionale, come il disegno di un bambino pigro. Tutti gli interni sono stati ricostruiti. Ogni punto di colore è stato scelto con attenzione per poter creare ombre e profondità.


Molti critici hanno sostenuto che America Latina sia il vostro film più libero, meno soggetto a impalcature sociali da indagare e più diretto nel portare in scena il vostro gusto, il vostro amore per le immagini: è così?

Ogni critico deve dire la sua e difendere la propria posizione. Per noi è presto capire, vivendoci dentro. Risponderemo a questa tua domanda tra vent’anni. Certamente però non ci interessava aprire questioni sociali. E neppure con i nostri primi due film precedenti.

Quello che mi sembra di intuire guardando questo lavoro è che siate dei registi di cuore, di pancia. Che portiate in scena senza troppi fronzoli le vostre emozioni, la vostra passione. Prima di immergervi in un progetto, studiate? Siete cinefili e vi confrontate con alcuni vostri punti di riferimento nel passato, oppure preferite aggredire la storia come viene, lasciarvi guidare dal vostro istinto? Se vi rifate a qualcuno, mi dite che vi ha "accompagnato" in questo percorso?

Lo studio non esclude l’istinto così come la prosa chiama poesia che chiama guerra. Abbiamo sempre creduto che non esista un solo modo di fare le cose. Durante questo film ci hanno molto accompagnato narratori come Piero Chiara, Ajalbert, Cassola e Borges.


Mi raccontate qualcosa della vostra collaborazione con i Verdena? Come mai la scelta è ricaduta su quella band e come avete lavorato con loro? Li avete guidati o avete lasciato loro carta bianca?

I Verdena sono il gruppo italiano contemporaneo che amiamo di più. Non riuscivamo a trovare musica di repertorio adatta e così gli abbiamo scritto una lettera. Hanno visto i nostri primi due film e letto la sceneggiatura di America Latina. È stato semplice. Con loro il dialogo è stato immediato e meraviglioso: esseri frugali, che non devono dopare alcuna emozione per farti commuovere. La loro abilità è fuori discussione e il loro impegno fa invidia a molti professionisti del cinema. Gli abbiamo chiesto di andare a sbattere con le immagini e di essere infantili: clangori, tonfi, spesso linee di vuoti, suonare l’assenza, fischi schivi. Speriamo di lavorare ancora con loro e di conoscerli ancora meglio. E di sentire prestissimo il loro nuovo album.

A cura di Simone Soranna
Maximal Interjector
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