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And the Oscar goes to: 1992 vs 2022, ovvero la forma circolare del successo
È successo davvero, ci sono passati davanti agli occhi trent’anni. Il 27 marzo 2022 si terrà al Dolby Theatre di Los Angeles la 94ª edizione dei premi Oscar e, a distanza di tre decenni, se ci si volta indietro a ragionare sui primi anni ’90 appare evidente quante cose siano cambiate all’interno dell’industria cinematografica e della stessa società occidentale (e non solo).

Nonostante il grande salto temporale dal 1992 a oggi, la serata degli Oscar ha conservato la medesima importanza mediatica e lo stesso glamour che facevano gola ai più grandi protagonisti dello spettacolo di trent’anni fa. Gli Academy Awards incarnano tuttora il baluardo del cinema commerciale, statuette dorate simbolo di un’enorme macchina mangiasoldi che vive grazie alle tendenze, allo stile e al mainstream.

Eppure, di temi delicati l’Academy ne ha affrontati a bizzeffe in questi ultimi anni.  Ad oggi, sembrerebbe quasi ridicolo (e probabilmente offensivo) pensare a categorie senza candidature a favore di attori afroamericani, autrici femminili, esponenti LGBTQ+ e minoranze etniche. Appena un anno fa veniva pubblicata sul sito ufficiale del premio Oscar la famosa lista degli standard che ogni pellicola dovrà rispettare, d’ora in poi, per poter concorrere nella categoria Miglior film: i requisiti riguardano la presenza, sia nel cast che nella crew, di donne, professionisti provenienti da etnie scarsamente rappresentate, esponenti LGBTQ+ e persone con disabilità. Similmente, le opere nominate dovranno essere incentrate su temi dal valore sociale, offrendo al pubblico una visione della società multietnica e diversificata. La parola d’ordine di questi ultimi, polemici anni di premi Oscar non può che essere una: inclusione.






D’altronde, degli scandali che negli anni hanno quasi travolto la serata patinata per eccellenza sono tutti a conoscenza: dalle molestie sessuali alle discriminazioni razziali, passando per la disparità di genere fino alle controversie politiche. A un certo punto, qualche vecchio saggio all’interno del consiglio dell’Academy deve aver preso spunto dal Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, prendendo alla lettera il celebre passo di Tancredi: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

Insomma, in trent’anni sono cambiate tantissime cose e la morale dello spettacolo statunitense sta ormai diventando a prova di scandalo. Se ci si avvicina però a paragonare la spensierata edizione del 1992 con quella odierna, si possono notare numerose similitudini e persino le stesse personalità che solcavano il red carpet all’inizio del decennio che avrebbe dato il cambio ai rivoluzionari anni 2000.

Perfino nel 1992 si apprezzavano i film capaci di infrangere i record. Proprio in quell’anno Hollywood ha assistito al trionfo dell’ultima pellicola capace di vincere i cinque Oscar principali: miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura (non originale), miglior attrice e miglior attore. Dopo Accadde una notte e Qualcuno volò sul nido del cuculo, nel 1992 Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme riuscì a fare piazza pulita delle statuette più ambite, guadagnandosi il titolo di pellicola dell’anno.






A distanza di trent’anni, quella vittoria può forse cominciare a risultare datata, ma un semplice collegamento la tiene saldamente legata ai giorni nostri: Anthony Hopkins, proprio come tre decenni fa, è l’attuale vincitore in carica dell’Oscar al miglior attore protagonista (per The Father – Nulla è come sembra) e, in quanto tale, verosimilmente salirà sul palco per effettuare il consueto passaggio di testimone. Trent’anni dopo il suo primo Oscar e appena uno dopo le polemiche per la mancata vittoria postuma di Chadwick Boseman.

È proprio nella categoria Miglior film, però, che le differenze fra le due edizioni si acuiscono a dismisura. Nel 1992 le pellicole candidate erano appena cinque. La normalità, fino ad allora: a nessuno sarebbe mai venuto in mente di aggiungere ulteriore carne al fuoco. Da qualche anno, nel vero rispetto della parola inclusività, l’Academy si è forse fatta scappare la mano. Quest’anno, dimostrandosi ancora una volta indecisa su chi buttare in mezzo nella lotta alla statuetta principale, ha nominato ben dieci pellicole (possibilità nata solo a partire dal 2010). Tra queste, anche un film in lingua non inglese: direttamente dal Giappone, Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi prova a replicare il fortunato precedente di Parasite, che nel 2020 fece incetta degli Oscar più importanti, destinati in precedenza esclusivamente ai film in lingua inglese. Cosa direbbero i patriottici anni ’90?


Nemmeno trent’anni fa, a dirla tutta, mancavano le sorprese. Accanto a tre film “convenzionali” come Il silenzio degli innocenti, Bugsy e JFK – Un caso ancora aperto, vennero affiancate due candidature “insolite” nella cinquina in lizza per il titolo di miglior film. Il primo caso richiama tante lotte di femminismo che negli anni hanno spianato la strada alla situazione attuale. Oggi, infatti, potrebbe sembrare normale associare il nome di una grande produttrice all’Oscar per il miglior film, ma all’epoca, quando Paul Newman (presentatore del premio finale insieme a Elizabeth Taylor) lesse le candidature, a più di qualcuno in sala dev’essere venuta la pelle d’oca al sentire pronunciare un nome femminile in mezzo a tanti virili produttori hollywoodiani. Il fatto che la donna in questione fosse (già allora) un mostro sacro come Barbra Streisand, produttrice e regista de Il principe delle maree, ha fortunatamente zittito ogni possibile polemista.

Il secondo precedente eclatante, invece, fu come un fulmine a ciel sereno per gli standard abituali dell’Academy: il classico Disney La bella e la bestia completò la cinquina e per la prima volta nella storia un’opera d’animazione veniva candidata a Miglior film. Rimase l’unica fino al 2010, quando il suo record venne pareggiato da Up della Pixar. C’è da dire, però, che nel 1992 non esisteva la categoria per il miglior film d’animazione e, ciononostante, La bella e la bestia vinse comunque due statuette su ben sei candidature.






Sfogliando invece le altre categorie, altre differenze sembrano affiorare un po’ ovunque. Trent’anni fa, come detto, le donne erano quasi una rarità. A meno che non si trattasse di attrici, scenografe, truccatrici o accompagnatrici, di registe donne non ce n’era traccia. Fino a quel momento, l’unica ad essere stata nominata per la regia era la nostra Lina Wertmüller per Pasqualino Settebellezze, nel 1977. D’altronde, sarebbe stata un’attesa ancora più lunga quella del primo premio registico femminile: sia sempre benedetta Kathryn Bigelow.

Oggi la situazione è cambiata drasticamente. L’anno scorso, l’Oscar come miglior regista è andato a Chloé Zhao (per Nomadland), candidata insieme alla britannica Emerald Fennell (Una donna promettente). Quest’anno, la speranza che la statuetta rimanga in contatto con mani femminile verrà riposta su Jane Campion, già premiata nel 1994 per la sceneggiatura di Lezioni di piano ma, finora, solo candidata come Miglior regista. Presentandosi con Il potere del cane, l’autrice neozelandese sarà il "pericolo numero uno" per i quattro uomini che ambiscono alla vittoria (specialmente per lo speranzoso Kenneth Branagh, finora mai premiato).






Per restare in tema di polemiche recenti, non è certo un segreto che negli ultimi anni mezza Hollywood e non solo si sia scagliata contro l’Academy per la costante assenza di personalità di colore candidate. L’hashtag #OscarsSoWhite ha cavalcato a lungo l’onda della polemica ed effettivamente ha raccolto, recentemente, alcuni buoni frutti: basti pensare ai premi andati a Mahershala Ali, Regina King, Spike Lee, Jordan Peele, Viola Davis.

Fra gli attori candidati di quest’anno, il papabile vincitore sembra essere Will Smith, che otterrebbe il suo primo Oscar grazie al suo ruolo in Una famiglia vincente – King Richard. A contendergli il premio, fra gli altri, ci sarà il due volte vincitore Denzel Washington con la sua interpretazione di Macbeth. Fra le donne, invece, si distinguono Ariana DeBose (West Side Story) e Aunjanue Ellis (King Richard).

La situazione può venire associata, a tratti, a una sorta di perbenismo ipocrita, ma perlomeno oggi la diversità è supportata e incoraggiata. Nell’edizione del 1992, invece, era molto difficile trovare un individuo non caucasico nelle prime file della platea losangelina. L’unica “fortunata” eccezione venne rappresentata dal compianto John Singleton, candidato sia a Miglior regia che a Miglior sceneggiatura per il suo Boyz n the Hood – Strade violente. Per quanto riguardava i venti attori nominati, tutti rigorosamente bianchi.

Infine, se c’è una cosa che fortunatamente fatica a cambiare nella serata dei premi più famosi al mondo è la presenza del cinema italiano. Oggi come trent’anni fa, infatti, una pellicola nostrana è candidata come Miglior film internazionale (o Miglior film straniero, come era chiamato fino all'edizione 2019). Paolo Sorrentino, infatti, proverà a raddoppiare il numero delle sue statuette con È stata la mano di Dio. Nonostante il suo cinema sia molto apprezzato all’estero e negli Stati Uniti, se la dovrà vedere con l’agguerrito Drive My Car, candidato anche in questa categoria.






“Appena” trent’anni fa, un giovane Gabriele Salvatores veniva invitato da Sylvester Stallone a salire sul palco e a ritirare il premio per il suo Mediterraneo. Casualmente, il suo breve discorso fu un appello a fermare le guerre. Se il tempo si ripresenta in forma ciclica, chissà che non assisteremo a un altro regista italiano fare lo stesso, dopo trent’anni.

Nicolò Palmieri

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