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West Side Story: raccontare il presente attraverso il passato tra musical e realismo urbano
È stato un evento cinematografico sin dal primo momento: da quando durante la notte degli Oscar 2021 ne abbiamo visto il trailer, West Side Story di Steven Spielberg è diventato il film più atteso della passata stagione cinematografica, nel sessantesimo anniversario dell'indimenticabile capolavoro di Robert Wise e Jerome Robbins. Le sette nomination agli Academy Awards 2022, tra cui Miglior film e Miglior regia, non fanno altro che confermare l'importanza di quello che è già un autentico classico contemporaneo, il cui valore è stato riconosciuto più dalla critica, soprattutto europea, che dal pubblico.

«Non considero West Side Story di Steven Spielberg un re-make ma una re-interpretazione» (Rita Moreno)


Un omaggio a un musical che anche noi celebriamo mettendo sotto la lente di ingrandimento il lavoro fatto da Spielberg, uscito vincitore dalla difficile sfida di restituire, aggiornandola, la grandezza di una pietra miliare della storia del cinema.  


Sul finire degli anni Cinquanta, le lotte intestine di una New York in rapidissimo cambiamento finivano dalle pagine di cronaca sul palcoscenico. Con un solido impianto drammaturgico legato alla reinterpretazione del Romeo e Giulietta di Shakespeare, il musical del 1957, dopo quattro anni di successi e repliche ininterrotte, aveva trovato la definitiva consacrazione sul grande schermo, aggiudicandosi ben dieci premi Oscar. I protagonisti di questo immediato successo teatrale e poi cinematografico erano Leonard Bernstein, Stephen Sondheim, Arthur Laurents e Jerome Robbins, quattro omosessuali di origini ebraiche che erano riusciti, attraverso la loro arte, a raccontare il dramma della discriminazione presente negli Stati Uniti in quegli anni. Spielberg riparte da quelle idee, coinvolgendo nella lavorazione lo stesso Sondheim (poi scomparso lo scorso 26 novembre), con l'intuizione che la chiave per reinterpretare il musical stesse proprio nella capacità di poter raccontare il presente attraverso il passato


Se il presupposto di questo nuovo West Side Story risiede quindi nel trasporre le tensioni di ieri per parlare di quelle di oggi, la messa in scena deve anzitutto lavorare sul concetto di realismo.
  

«Doveva essere autentico e realistico, quelle dovevano sembrare le vere strade in cui è accaduta questa storia» (Steven Spielberg)


Durante gli anni Cinquanta, nella parte ovest della città di New York, vi furono ampie demolizioni. La Grande Mela doveva mutare per aprire la strada verso il futuro, dimenticandosi di chi quel cambiamento lo aveva reso possibile. In questo senso la costruzione del Lincoln Center sulle macerie dei vecchi quartieri residenziali è stato un punto interessante da cui partire per raccontare livori repressi pronti ad esplodere. Nell'opening scene del film di Spielberg, la macchina da presa atterra su scale antincendio poggiate sui calcinacci di palazzi sventrati: lo scontro tra Jets e Sharks è sin dal primo momento il frutto di un'istanza di sopravvivenza, della volontà di controllare una zona destinata a scomparire. Il motore narrativo è lì, per le strade, nella povertà dilagante che dà vita a due visioni differenti del mondo in rotta di collisione ancor prima che il piano etnico ne diventi giustificazione. C'è chi da tempo si è rassegnato al soccombere e chi, appena arrivato, vede nel Paese più di quanto esso possa offrire. In questo senso, America è il brano che meglio racconta il sottotesto del musical originale e che Spielberg non casualmente decide di trasportare dal grigiore di un anonimo tetto alle variopinte e sovrappopolate vie della città. 
 

La seconda grande esigenza a cui Spielberg sente di dover rispondere è l'autentica rappresentazione delle due anime del film ed in particolare di quella portoricana:


«È importante che la rappresentazione sia vera per donare all'opera l'integrità che merita» (Steven Spielberg)

Il classico del 1961, figlio di dinamiche produttive e sensibilità diverse, aveva sì portato sul grande schermo una rappresentazione della minoranza portoricana a New York, ma lo aveva fatto con un cast sostanzialmente caucasico e mascherato da quel pesante e oggi difficilmente accettabile strato di fondotinta. Impossibile dimenticare l'unica notevole eccezione costituita da Rita Moreno, eccezione dalla quale si è ripartiti nel 2021 per assemblare un gruppo di trenta, tra ballerini e attori, interpreti portoricani. Al di là dei numeri, questa scelta si è tradotta sul piano narrativo in un'arma preziosa nella direzione del realismo, con un utilizzo non scontato e diffusissimo dello spagnolo (spesso non sottotitolato) che rende alla perfezione il bilinguismo di quella comunità.


In questo grande processo di rinnovamento è stato fondamentale l'apporto in sceneggiatura di Tony Kushner (che già aveva lavorato a Munich e Lincoln dello stesso Spielberg), in particolare nella creazione di un personaggio ex-novo per Rita Moreno. Se il film del 1961 si divideva lungo le linee di genere, facendo prevalere la componente maschile per i Jets (Tony e Riff) e quella femminile per gli Sharks (Maria e Anita), Spielberg e Kushner spostano il fulcro della vicenda sostituendo a Doc, originariamente un ruolo secondario, la fondamentale figura di Valentina (Rita Moreno), proprietaria del negozio di dischi dove lavora Tony (Ansel Elgort). Alla Moreno il compito di portare equilibrio ed è interessante come le venga affidata Somewhere, cantato da Tony (Richard Beymer) e Maria (Natalie Wood) nell’originale. Il momento in cui, verso l'epilogo, la donna impedisce ai Jets di aggredire Anita (Ariana DeBose), originariamente fermata da Doc, assume così un peso ben diverso, avendo affidato a un'altra donna il compito di impedire lo scempio. Analogamente, molto significativa la scelta di Iris Menas, interprete trans non binary, per affrontare con una sensibilità diversa la parte di Anybodys, certamente distante dal personaggio di Susan Oakes (addirittura ribattezzato "Scarafaggio" nella versione italiana del 1961).


Nonostante si sia ampiamente descritto come Spielberg lavori nel reinterpretare sul piano della sostanza punti di vista, suggestioni e prese di posizione dei suoi predecessori, le più grandi differenze si trovano sul piano dello stile dove il regista di Cincinnati dimostra come si possa creare davvero qualcosa di nuovo. Il suo West Side Story è una vera e propria lezione di regia, segnata da tempi di montaggio ineccepibili e da coreografie perfettamente integrate (per non dire immerse) nel paesaggio urbano circostante. Mettendo insieme senso di appartenenza e distacco, amore e odio, gioie e dolori, Spielberg firma un prodotto ad alto tasso emotivo, coinvolgente e capace di far dimenticare l'amatissima conclusione che ben conosciamo. Justin Peck riparte dal lavoro dei predecessori cogliendone le linee di fondo e ampliandone la complessità compositiva, mentre il direttore della fotografia Janusz Kamiński ci riporta al classico del 1961 ogni volta che un riflesso di luce passa tra drappi appesi e vetrate policromatiche restituendoci palette impossibili da dimenticare.

 
There's a place for us
Somewhere a place for us
Peace and quiet and open air
Wait for us somewhere

There's a time for us
Someday a time for us
Time together and time to spare
Time to look, time to care

Someday
Somewhere
We'll find a new way of living
We'll find a way of forgiving
Somewhere


Andrea Valmori

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