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Dick Tracy, il gangster movie pop firmato Warren Beatty
Borsalino e trench gialli al posto di maschera e mantello, pistola automatica e orologio con ricetrasmittente incorporata, piglio risoluto che si sovrappone, senza eclissarla, a una inguardibile vena romantica. Questi i tratti distintivi di Dick Tracy, detective nato dalla matita del fumettista statunitense Chester Gould nel lontano 1931. Personaggio che si è imposto fin da subito come un autetico caposaldo all'interno delle stripes americane, le quali, in pieno periodo proibizionista, hanno iniziato per la prima volta a confrontarsi con il mondo delle investigazioni polizesche e le loro conseguenti dinamiche violente. Quello proiettato su carta da Gould è un mondo fumettistico di esplicita matrice cinematografica, segnato da virtuosistici tagli delle inquadrature delle vignette che rimandano all'Espressionismo degli anni '20.

Ispirandosi all'immaginario creato da Gould, Warren Beatty nel 1990 realizza il suo Dick Tracy cinematografico, ritagliondosi anche la parte del protagonista. Quello che ne è venuto fuori è un caleidoscopico gangster movie pop che mescola al suo interno le istanze più disparate, senza anticipare le soluzioni che esploderanno a metà anni '90 con la selvaggia affermazione della corrente postomoderna. Attutendo la componente violenta originaria in favore di una stilizzazione volta a coinvolgere anche il pubblico più giovane (produce la Touchstone Pictures, factory disneyana attiva dal 1984 al 2016), il film mescola sapientemente i codici del film di supereroi con quelli del poliziesco, mettendoli in stretto contatto sulla base di uno scanzonato spirito d'avventura. Un modello ipertestuale di inaudita modernità, che oggi, in tempi in cui ci si interroga sulle possibili variazioni sul tema del comic movie, permette di riflettere sul confine tra intrattenimento e influenza autoriale all'interno del genere.



Integerrimo vigilante votato alla rispetto di giustizia e legalità, vagamente tormentato dal peso del suo ruolo, Dick Tracy diventa, per Beatty, un Batman colorato, bonario e impacciato nelle questioni sentimentali, che si muove ad altezza bambino. Nelle suggestive inquadrature dall'alto della città è impossibile non vedere i rimandi, in chiave lisergica, alla ben più cupa Gotham City messa in scena da Tim Burton l'anno precedente, anche grazie al contributo della colonna sonora firmata, non a caso, da Danny Elfman. Sempre dal punto di vista della ricerca visiva, le architetture delle strabilianti scenografie di Richard Sylbert, meritatamente premiate con l'Oscar inseme a trucco e canzone originale (Sooner or Later di Madonna/Stephen Sondheim), sembrano uscire dalla Cartoonia di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), sottolineando la volontà di Warren Beatty, coadiuvato dall'incredibile lavoro di Vittorio Storaro (fotografia) e Milena Canonero (costumi), di creare un fortissimo trait d'union tra rappresentazione live action e mondo dell'animazione.

Lo stile barocco, eccessivo e cartoonesco della pellicola, tra dissolvenze a tendina e split diopter shots, è un omaggio filologicamente ineccepibile alle strisce di Gould degli anni '30 e '40 (e non a quelle con derive sci-fi dei decenni successivi) e, al tempo stesso, un aggiornamento del tratto grafico proprio del fumetto originale, stampato in bianco e nero, attraverso l'uso espressivo dei colori primari. Il risultato è un unicum nella storia, in grado di accendere come poche altre pellicole quel senso di stupore e meraviglia che sta alla base della creazione cinematografica. L'estetica fumettistica ricercata dal film attraverso maschere deformanti, coloratissimi abiti oversize ed eccentriche ambientazioni diventa un valore aggiunto connaturato all'opera stessa allo scopo di rendere speciale e unico un modello artistico seriale come quello delle stripes, nella stessa misura in cui, ad esempio, i Ben Day dots (ovvero i reticoli di puntini che riproducono la texture delle vignette) definiscono l'opera di Roy Lichtenstein. Dick Tracy è uno dei pochissimi film autenticamente pop, che fa propri i simboli della cultura di massa per immergerli in un universo magico.



I sinistri ambienti malavitosi giocano con i tratti archetipici dei gangster movie, la presenza di Al Pacino nei panni del boss Big Boy Caprice è una chicca assoluta, così come le fugaci apparizioni di James Caan (Spaldoni) ed Henry Silva (Influence). Ma, a rimanere impressa a lungo nella memoria, è l'atmosfera noir entro cui si muove Mozzafiato Mahoney («Lo so, non sai se hai voglia di picchiarmi o di baciarmi... È la solita storia»), memorabile femme fatale interpretata da una Madonna all'apice della popolarità (nello stesso anno del film, la cantante scala le classifiche di tutto il pianeta con il singolo Vogue e pubblica la storica raccolta The Immaculate Collection). Mondo degli adulti e mondo dei bambini si rincorrono, si sfidano ad armi pari ed escono entrambi vincitori, uno accanto all'altro, proprio come Dick Tracy e il ragazzino al suo fianco, nell'ultima scena del film.

Davide Dubinelli
Maximal Interjector
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