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Dune: la sfida ai confini dell'universo conosciuto tra Lynch e Villeneuve
Primo dei sei romanzi appartenenti al Ciclo di Dune, scritti da Frank Herbert tra il 1965 e il 1985, Dune è un cult assoluto della letteratura fantascientifica. Opera monumentale che ricrea un mondo complesso ambientato in un futurio lontanissimo che però si rifà a un sistema politico feudale molto simile a quello medioevale, il capolavoro di Herbert segna un vero e proprio punto fermo artistico, tanto da influenzare innumerevoli progetti cinematografici, tra cui la saga di Guerre stellari, televisivi e videoludici.

Il cuore del libro, ridotto all'osso, riguarda la lotta tra Atreides (i buoni) e Harkonnen (i cattivi) per il controllo del pianeta Arrakis, conosciuto anche come Dune. Un canovaccio di base che già rende l'idea degli archetipi in gioco, dell'universalità della vicenda narrata, al netto di una miriade di intrecci e sottotrame che complicano non poco il discorso, e del potenziale in termini di sovrastruttura spettacolare

 
La partita più interessante, senza dubbio, si gioca al cinema. A distanza di quasi quarant'anni dalla stravagante e travagliata trasposizione firmata (e quasi disconosciuta) da David Lynch, Denis Villeneuve ha dato vita a un nuovissimo adattamento, rischiando un confronto impegnativo ma, proprio per questo, ancora più interessante. Pur non esendo perfettamente sovrapponibili poiché il Dune di Villeneuve, prima parte di un mega progetto in due atti, mette in scena solo la prima metà del libro omonimo, i due film si specchiano l'uno nell'altro in maniera quasi schizofrenica tanto sono distanti nell'approccio e nella resa visiva. Un effetto che non stupisce affatto se si pensa alle abissali differenze nella percezione del genere sci-fi che c'era nei primi anni '80 rispetto a quella dei nostri giorni. Al netto della voragine che separa Lynch e Villeneuve in termini di peso autoriale, la polarizzazione tra fan del primo e futuri fan del secondo è un punto di estremo interesse per intercettare un mutamento dei codici di genere che è un autentico scontro generazionale.



Prodotto da Dino De Laurentiis, in pratica vero realizzatore del film, il Dune (1984) di David Lynch è un'operazione delirante che ha acquisito lo status di cult proprio in relazione agli squilibri tipici di una produzione per certi versi folle. Lynch accettò soprattutto per poter realizzare altri lavori più personali, in primis il successivo Velluto blu (1986), sempre prodotto da De Laurentiis. La nota forza visionaria del regista statunitense si traduce qui in un blockbuster di fantascienza sui generis, contrassegnato da una trama confusa che non riesce a gestire tutto il materiale letterario di partenza e da un apparato visivo kitsch e variopinto. Scenografie e costumi sono un festival dell'eccesso, ma la cosa non è necessariamente una caduta di stile. Gli enormi vermi della sabbia, realizzati da Carlo Rambaldi, appartengono perfettamente all'universo orrorifico tipico del cinema del regista. Nonostante lo sforzo produttivo, questo Dune funziona solo in alcuni momenti (notevole l'inizio cosmico che ricorda i lungometraggi precedenti di Lynch), ma si perde in un andamento prolisso, vittima di una narrazione macchinosa e di una evidente incapacità di coinvolgere il (grande) pubblico. Non a caso fu un disastro al botteghino: flop che portò a Lynch a non realizzare più un altro progetto su cui non poteva avere il totale controllo creativo. Pompose musiche di Brian Eno e i Toto.



E dal 1984 passiamo al 2021. lI kolossal fantascientifico di Denis Villeneuve è un'avventura sci-fi dal profondo respiro epico che gioca le proprie carte con consapevolezza e coerenza, ricercando una continua sottrazione sia dal punto di vista dell'aspetto visivo, sia dal punto di vista del consistente materiale letterario da gestire. Modellato su un ricercatissimo e ipermoderno impianto minimal che riprende alcune soluzioni arthouse di Blade Runner 2049 riducendone sapientemente la palette cromatica, il film si pone come un viaggio mitico giocato su campi lunghissimi e ampi spazi ripresi con maestosità (impeccabile fotografia di Greig Fraser), che a volte corre il rischio di perdersi e ripiegarsi su se stesso nella continua ricerca di una solenne contemplazione. Il Paul Atreides interpretato da Timothée Chalamet, "eletto" che vive con timore il peso di un ruolo a cui non può sottrarsi, funziona soprattutto in relazione alla propria purezza adolescenziale, non a caso infatti il suo percorso di crescita, presente solo in parte in questa prima parte del titanico progetto Dune, trova il momento più significativo nel confronto con la madre dopo la fuga nel deserto. Dal punto di vista strettamente spettacolare, il film non si omologa agli eccessi dei blockbuster più commerciali e azzarda una via più autoriale: il senso plastico dell'azione è ben calibrato, ma la totale assenza di pathos e le studiatissime interazioni tra i personaggi possono diventare un limite. Ma, al netto di qualche scivolone, Villeneuve rimane fedele a una vincente idea di cinema che unisce spiritualismo e atmosfera apocalittica (con tanto di omaggio al colonnello Kurtz nel finale di Apocalypse Now), trovando il suo motivo di interesse primario in una efficace legame con la contemporaneità (il desiderio di libertà del popolo oppresso, il deserto come limes esistenziale, il rimando a un'ambientazione vicina alla visione occidentale del Medio Oriente). Onnipresenti musiche di Hans Zimmer, a tratti ingombranti ma fondamentali per trasmettere il fascino quasi esotico del concept di base. Il crudele Barone Harkonnen, interpretato da Stellan Skarsgård, è uno dei personaggi secondari migliori del film, ma anche la reverenda madre Gaius Helen Mohiam di Charlotte Rampling lascia il segno. Zendaya è Chani Kynes dei Fremen, nativi ribelli del pianeta Dune costretti all'emarginazione nel deserto più profondo.
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