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François Ozon – Andare oltre l'apparenza alla ricerca del sentimento perduto
«Un amico, una volta, mi ha detto: "Tu fai sesso mentre dirigi un film!". Credo abbia ragione: a me piace, con la macchina da presa, sentire il corpo degli attori». Autore di un cinema tipicamente "francese", venato di sottile intellettualismo nell'affrontare temi importanti legati alla complessità dei sentimenti, all'impossibile ricerca della felicità e all'elaborazione del lutto, il regista e sceneggiatore François Ozon (parigino, ça va sans dire) è tra i nomi più interessanti del panorama cinematografico transalpino del nuovo millennio.

«È la complessità ciò che mi attrae mentre ciò che rassicura mi lascia indifferente»


Quello di Ozon è un cinema pulsante e vitale, filmato in punta di cinepresa, che affronta tematiche profonde in maniera lieve. Il che non vuol dire superficiale. Corteggiatissimo dai festival internazionali, Ozon, di estrazione borghese, inizia la carriera di modello ma ben presto sviluppa una passione per la Settima arte che lo porta a laurearsi in Storia del Cinema. Dopo una serie di cortometraggi, esordisce sul grande schermo alla fine degli anni '90, e già nel 2000 realizza una delle sue opere più significative, Sotto la sabbia, affascinante dramma carico di mistero con Charlotte Rampling magnifica protagonista, in cui l'autore parigino diluisce in maniera intelligente e mai prosaica un'atmosfera di solitudine, abbandono e morte che trova compimento in uno spietato racconto sentimentale.

Il lutto torna nel cinema di Ozon sotto molteplici forme, modulato sulla base di sensazioni più o meno tangibili. Che sia rappresentata da una morte esplicita o da un sentimento di funereo distacco, la perdita è asse portante di una poetica giocata sulla percezione effimera che ciascuno di noi ha della realtà, e quindi della sua appartenenza ad essa.

 Il momento più elevato della "Trilogia del lutto", che comprende Sotto la sabbia (2000) e Il rifugio (2009), Ozon lo raggiunge con Le temps qui reste (2005), che è anche il miglior film del regista francese. Romain (Melvil Poupaud) scopre di avere poco tempo da vivere a causa di un male incurabile. Rifiuta la terapia, abbandona il compagno (Christian Sengewald) e decide di recarsi dall'amata nonna (Jeanne Moreau). Durante il viaggio, incontra Jany (Valeria Bruni Tedeschi), al centro di un matrimonio sterile, che gli chiede un figlio.


L'atmosfera di morte ricalca dinamiche fassbinderiane (anche se mai in maniera sciocca o derivativa), e si serve con grande spessore del classico immaginario queer indispensabile per decifrare il suo cinema. Non a caso il protagonista, omosessuale, è un fotografo di moda di eterea e raffinata bellezza, ruvidamente interpretato da Melvil Poupaud, già “ninfo” per Rohmer in Un ragazzo, tre ragazze del 1996 (e a proposito di presenze rohmeriane, impossibile non segnalare la partecipazione di Marie Rivière). I tòpoi consueti nella filmografia di Ozon si intrecciano a un confronto diretto con la morte, che si riversa nelle considerazioni – trattenute, alterate e implose – del personaggio nei confronti del paesaggio che lo circonda e degli altri esseri umani con cui entra in contatto. Un'opera di dolorosa e indimenticabile intensità. E il finale, splendido, non può lasciare indifferenti.

Nonostante qualche pesante scivolone, come nel caso del pastrocchio psicanalitico messo in scena nel thriller erotico Doppio amore (2017), il gusto raffinato per la provocazione, spesso rappresentato sulla base di false apparenze, è uno degli elementi chiave della filmografia di Ozon. Ed ecco allora che viene naturale parlare di Giovane e bella (2013), educazione sessuale di Isabelle (Marine Vacth), la quale, dopo aver perso la verginità durante le vacanze estive, tornata a Parigi decide di diventare una prostituta d'alto bordo con lo pseudonimo di Léa.


Scandendo la narrazione in quattro tempi secondo il naturale susseguirsi delle stagioni, François Ozon mette in scena un frammento irripetibile della vita di una bellissima adolescente francese con una leggerezza di tocco che non impedisce una profonda analisi della psicologia del personaggio. Intrappolata in un'età inquieta in cui l'amore è percepito come un sentimento mutevole e sfuggente, l'insofferente Isabelle diventa Léa offrendo il suo corpo puro e innocente a uomini maturi che non conosce, forse per noia, forse per sentirsi amata, forse come conseguenza dell'abbandono paterno.

L'impossibilità di raggiungere la felicità e di sentirsi realizzati, in un mondo che tende a esaltare l'insicurezza e la paura di affrontare un futuro incerto, è rappresentata con rigoroso distacco da un Ozon che non ha la presunzione di giudicare ciò che racconta, ma si limita a filmare con la consueta eleganza formale il passaggio dall'adolescenza all'età adulta della protagonista. Marine Vacth, presenza magnetica di sconvolgente bellezza che si muove con disinvoltura nelle algide stanze dei lussuosi alberghi parigini, si è calata con naturalezza in un ruolo sottilmente ambiguo, interpretando uno dei ritratti femminili più interessanti degli ultimi anni. Presentato in concorso al Festival di Cannes.

Per entrare nelle sottili pieghe del cinema di François Ozon, non si può non considerare Estate '85 (2020), una delle indagini più riuscite del cineasta parigino in termini di amour fou, di legame indissolubile tra Eros e Thanatos e di rapporto tra realtà e immaginazione. Nell’estate dei suoi sedici anni, mentre si trova in vacanza in una cittadina balneare sulle coste della Normandia, un giorno Alexis (Felix Lefebvre) si salva dall’annegamento grazie a un atto eroico del diciottenne David (Benjamin Voisin): Alexis ha appena incontrato l’amico che ha sempre sognato di avere. Ma questo sogno realizzato riuscirà a durare più di un’estate?


Ozon si cimenta con una trasposizione fedele al testo di partenza, il romanzo Danza sulla mia tomba (1982) dello scrittore inglese Aidan Chambers, ambientandola però nella sua Francia e trasferendola all’epoca, la metà degli anni ’80, in cui il regista aveva letto il libro. Quella dei due giovani protagonisti è una dipendenza emotiva dai risvolti lugubri e fatali, che stride con la spensieratezza dell'immaginario pop dell'epoca rievocato in maniera nostalgica. Rispetto a Chiamami col tuo nome (2017) di Luca Guadagnino, questo racconto collocato nel cuore degli eighties non è permeato dall’incanto e dal continuo rimando del desiderio erotico, ma da un legame incestuoso tra amore e morte.

«Gli anni Ottanta che oggi forse tendiamo a idealizzare in realtà sono stati un periodo molto ambivalente per la mia generazione. Mentre noi adolescenti scoprivamo l'amore e il sesso, in parallelo emergeva l'Aids che rendeva queste scoperte prive di gioia, pericolose». Nel film si allude al rapporto maledetto tra Rimbaud e Verlaine, ricorrendo a slanci di poesia che arrivano dall’inferno dell’anima, a un appagamento devoto dei sensi che coincide con lo sfregio consapevole della propria giovinezza, a vasche che sembrano sarcofagi e urne funerarie. Anche i momenti più sensuali e levigati sul piano della fisicità sono permeati da un senso di immediatezza fulmineo e oscuro.

Un'opera spiazzante, segnata da toni noir che irrompono nella spensieratezza di un'estate indimenticabile, artificioso all'inverosimile ma di notevole carattere. Nella ricca colonna sonora d’epoca si segnalano In Between Days dei Cure, Cruel Summer delle Bananarama, Sailing di Rod Stewart e Self Control di Raf. Un tuffo al cuore illuminato dalle spiagge e dai colori irripetibili del paesaggio "rohmeriano", con tanto di struggente scena in discoteca che omaggia esplicitamente Il tempo delle mele (1980).

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