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Festa del Cinema di Roma: Luca Guadagnino si racconta attraverso i suoi film preferiti
Nel corso della quarta giornata della Festa del Cinema di Roma, l'attenzione dei cinefili accorsi al Parco della Musica si è focalizzata sull'incontro ravvicinato con Luca Guadagnino. Il regista palermitano ha accettato l'invito del direttore artistico Antonio Monda, prestandosi a più di mezz'ora di chiacchierata in cui ha sviscerato la sua passione per il cinema. Attraverso sette particolari sequenze appartenenti a film che lo hanno formato e influenzato, l'autore di Chiamami col tuo nome ha accompagnato il pubblico presente in un autentico viaggio all'insegna della sensibilità cinematografica per eccellenza del secolo scorso. Da Carpenter a Ōshima, passando per Cronenberg e terminando con l’amato Bertolucci, Guadagnino si è lasciato andare alla malinconia artistica.

La prima scena che ha voluto mostrare apparteneva a Starman (1984) di John Carpenter: in particolare, la trasformazione da parte dell'alieno protagonista in Jeff Bridges. «È il primo film che mi ha reso consapevole di Jeff Bridges, che avevo già visto in Una calibro 20 per lo specialista ma di cui non avevo avvertito subito la straordinaria importanza. È un film che trovo meraviglioso, come tutta la filmografia di Carpenter, uno dei più grandi registi viventi.  Quando lo vidi rimasi completamente sconvolto dall'alieno Bridges. Dopo, quando ho cominciato a fare le mie cose, ho sempre inserito "Thanks to Jeff Bridges" nei ringraziamenti speciali. Non l'ho mai conosciuto, ma forse è meglio mantenere il mio folle amore per lui taciuto».

La seconda clip riguardava quello che, a detta di Guadagnino, è il suo film preferito di sempre, Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini. «Questo film continua a farmi amare il cinema nonostante io sia sempre più sfiduciato, soprattutto da quello che vedo ultimamente. Sebbene io non sia mai stato un grande amante del cosiddetto "cinema romano", Rossellini è stato forse il più grande regista mai vissuto. Viaggio in Italia è un film di suspense pur essendo un'opera sulla speranza e sulla necrofilia dell'amore. La regia di Rossellini che opera sulla separazione fra i due personaggi equivale al miglior Hitchcock e al miglior Lang. Ad oggi, è triste vedere come la sua eredità sia rimasta inascoltata. Rossellini aveva una virtù pedagogica nel suo fare cinema, sarebbe dovuto diventare un maestro ma mi sembra che la sua lezione sia stata dimenticata. La spiegazione è forse da ricercarsi nel fatto che, a differenza di altri autori rimasti iconici come Fellini, lui era un regista complesso, che faceva agire l'intelligenza dello spettatore senza cercare di sedurlo. Penso che la sua complessità sia meno intellegibile per chi cerca un'impressione immediata».




Dopo Rossellini, ecco arrivare uno dei padri di quel movimento che guardò proprio al maestro italiano come punto di riferimento. Nel commentare Prénom, Carmen (1983) di Jean-Luc Godard, il regista ha ricordato il rumore che accompagnò l'uscita in sala del film: «Uscì con il divieto ai minori di 18 anni ed io non potevo entrare. Volevo vederlo a tutti i costi, visti gli scandali che aveva creato e i premi che aveva vinto a Venezia. Alla fine riuscii a entrare in un cinema di Palermo. Rimasi sconvolto: all'inizio non ci capii niente naturalmente, poi iniziai a recepire la "mappatura Godard", i suoi giochi di parole e la sua resistenza politica fortissima. Capii che bisognava essere dei terroristi come lui e resistere».

Dalla Nouvelle Vague al body horror, con La mosca (1986) di David Cronenberg: «Uno tra i miei film preferiti. Quando fai qualcosa di così umanistico, l'elemento che guida la messa in scena sono gli attori, la loro generosità e capacità di osare in maniera profonda rispetto alla consapevolezza di sé. Una cosa impressionante di questa scena semplicissima, girata con appena tre piani, è che Cronenberg non usa il genere per un'impressione epidermica bensì per una profonda, servendosi di un trucco esplicito. Di Cronenberg mi piace tutto. Avrei dovuto perfino dirigerlo in un film che avevo intenzione di realizzare: Body Art, tratto dal romanzo di Don DeLillo, autore già di Cosmopolis. DeLillo diede a me e Paolo Branco i diritti, scrissi il film pensando a Isabelle Huppert e, per il personaggio del regista, allo stesso Cronenberg. Lui mi disse di sì ma poi, come spesso capita, non se ne fece nulla. È un uomo calorosissimo e simpatico, viene visto come freddo perché è molto intelligente».

C'è stato posto anche per George A. Romero e il suo Zombi (1978): «Amo Romero. Come Cronenberg e Rossellini è stato un grande regista dell'economia. Ho fatto due remake ma non si può fare un remake di questo film, anche se ahimè è stato fatto. I nuovi film hanno reso gli zombi veloci, ma la loro inesorabilità ha senso solo se sono lenti. Anche la lezione di Romero è rimasta inascoltata. Ha sempre avuto una visione critica degli Stati Uniti dal punto di vista politico e del capitalismo. Nei suoi film c’è spazio per i personaggi che allora non ne avevano, come donne ed afroamericani. Ha fatto un discorso sulla diversità quaranta anni fa, in un modo non consolatorio ma acre e radicale».



Il finale del confronto è stato un tripudio di sessualità, arte della messa in scena e soprattutto sconfinata ammirazione verso due registi che hanno fortemente influenzato la sua opera: Bernardo Bertolucci e Nagisa Ōshima.

Il primo è stato omaggiato con una conturbante scena de La luna (1979). «Per me Bertolucci è stato importantissimo. L’ho scoperto nell’adolescenza ed è stato il primo regista che mi ha sedotto con le parole prima ancora che con i film. Non volevo fare i film che faceva lui, volevo proprio diventare come lui. Aveva una straordinaria capacità di interpretare il reale attraverso il filtro del cinema e attraverso la sua incredibile messa in scena. Questo è un film maledetto, stroncato, invisibile. Quando registi come Bernardo e Cronenberg prendono rischi del genere e hanno a che fare con i tabù devono solo essere ammirati».

Nella filmografia del regista giapponese, invece, Guadagnino è andato a pescare una delle scene più provocanti di Ecco l’impero dei sensi (1976). «Si tratta del primo film di Ōshima che ho visto. Mi ha insegnato che non esiste un qualcosa che non puoi filmare, dipende sempre dal modo in cui lo filmi. Ha sempre fatto film che erano delle dissezioni molto acri sul nepotismo della società giapponese del dopoguerra. Film censurati e maledetti. In questo in particolare, il suo linguaggio crea una potenza visiva totale».

Il cineasta ha infine concluso con un’amara riflessione: «Sono film forse oggi fuori moda. Ed è un peccato, vista la loro messa in scena ed i contenuti».

Nicolò Palmieri
Maximal Interjector
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