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Flags of Our Fathers, Lettere da Iwo Jima – Una macchina da guerra eastwoodiana
Gli anni Zero del nuovo millennio sono forse la decade più importante della carriera da regista di Clint Eastwood. I titoli più folgoranti e apprezzati della sua vasta filmografia sono stati partoriti in questo arco temporale: dal dramma di Mystic River (2003) al testamentario Gran Torino (2008), passando per lo snervante Changeling (2008) e il pluripremiato Million Dollar Baby (2004). In pochi ricordano la doppietta di film formata da Flags of Our Fathers (2006) e Lettere da Iwo Jima (2006) e questo è un vero peccato perché il dittico è una delle operazioni più rischiose e interessanti alle quali Eastwood abbia mai lavorato.

Da sempre attento alla figura dell'antieroe, prima nei panni dello straniero senza nome di leoniana memoria, poi come narratore di storie con al centro un eterno protagonista cangiante ma costantemente sconfitto, emarginato, diverso, il dittico bellico diventa l'operazione meno celebrata e celebrata e ricordata (e più nascosta) di questi anni, incarnando così le caratteristiche di chi questi film li abita e di chi li ha concepiti. Frettolosamente si fa menzione delle due pellicole come facce di una stessa medaglia, da una parte la battaglia di Iwo Jima vissuta al fianco dell'esercito statunitense, dall'alto invece di quello nipponico. In effetti, sotto un certo punto di vista, potremmo riassumere così l'operazione. Ma si tratterebbe di una rilettura superficiale ed estremamente sintetica.

Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima sono sì due opere complementari e opposte, ma non perché alternano lo sguardo degli schieramenti, bensì perché solamente insieme restituiscono il ritratto unico e completo della follia bellica e delle sue conseguenze. Senza una retorica populista basata sulla spettacolarizzazione della violenza e l'esaltazione di (anti)eroi, non può esservi alcuna battaglia



Flags of Our Fathers racconta proprio questo. Mette in scena le premesse e il lavoro mediatico che stanno alla base di una guerra. Non esistono soldati senza motivazioni, non esiste esercito senza un popolo da salvare. Eastwood lascia in secondo piano il conflitto, sono poche le sequenze ambientate in prima linea, molte di più quelle che raccontano il contesto, la propaganda, lo show. Tutto prende piede da una fotografia, a sua volta fittizia, per nulla spontanea e scattata dal meno considerato dei fotografi. Quell'immagine viene poco alla volta gonfiata, resa densa di valore e sfruttata per creare mirabolanti raccolte fondi sostenute proprio da quei cittadini che i soldati, dall'altra parte dell'oceano, stanno difendendo. Flags of Our Fathers racconta il lavaggio del cervello di un singolo, di una truppa, di un esercito e di una nazione intera, senza il quale non ci sarebbe motivazione e, di conseguenza, non ci sarebbe alcuna guerra. Eastwood usa la sua cinepresa per raccontare l'imponente macchina, fredda e spietata, di una costruzione mediatica studiata a tavolino. Lo fa con un film freddo e plumbeo (la fotografia bianca e bluastra sembra quasi congelare le emozioni) dove sembra non esserci traccia alcuna di umanità.

Umanità che invece diventa protagonista di Lettere da Iwo Jima, il contraltare in tutto e per tutto. Seguiamo qui l'esercito giapponese, ma soprattutto scendiamo in guerra, respiriamo le bombe, lo sporco, la terra e, di conseguenza, i sentimenti. Questo lavoro è più caldo, toccante e vivo. Ma non per demerito del precedente, anzi! Proprio perché Flags of Our Fathers era calcolato e trattenuto, Lettere da Iwo Jima sembra ancora più appassionante. Si tratta di una liberazione, un'emozione che finalmente può esplodere (e non è un termine casuale data una delle scene più cruente e scioccanti della pellicola). Eastwood non teme di schierarsi al fianco del nemico. L'esercito orientale sembra incarnare valori più solidali e patriottici rispetto allo sporco respirato tra le alte sfere statunitensi del primo episodio. Tuttavia non sarebbe nemmeno corretto marcare una linea di confine entro la quale schierarsi. Non ci sono buoni o cattivi, non ci sono vincitori o vinti, non ci sono eroi o dannati, non c'è occidente o oriente, bandiere o lettere. Tutto fa parte di un unico, granitico, canto funebre scolpito in quelle che, come possiamo intuire dall'ultima sequenza del dittico, sono le lettere scritte dai nostri padri. Il cerchio si chiude. Noi e loro. Letters From Our Fathers.



Simone Soranna

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