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Drive to Survive, stagione 3: la Formula 1 alla sfida della pandemia

Se c’è una cosa che abbiamo capito dalle tre stagioni di Drive to Survive è che la Formula 1 non è solo quella che viene raccontata in film come Rush. Anzi se volessimo fare un paragone potremmo quasi dire che sia più simile a Game of Thrones, dove più di una volta gli intrighi e le sottotrame politiche hanno fatto da motore alla storia rispetto alle battaglie.

E forse è proprio questo il punto forte della serie. Nel corso di un anno in cui sarebbe forse bastato raccontare l’adattamento del Circus al covid 19, o limitarsi a mostrare un terribile e al tempo stesso miracoloso episodio come quello dell’incidente di Romain Grosjean, Netflix decide di dedicare a questi due elementi il giusto focus, salvo poi mantenere la narrazione sullo stesso filone che ha contraddistinto le prime due stagioni, quella del racconto dell’arco narrativo degli uomini e delle aziende o famiglie che abbiamo conosciuto finora.

La serie decide, traendo spunto anche da The Last Dance, di prenderla alla larga. Una timeline ci porta indietro fino al settembre 2019, praticamente una vita fa. Qui, in casa della scuderia Racing Point vediamo la presentazione della nuova auto e il primo episodio viene letteralmente usato per riportare gli spettatori in quel mondo, salvo poi riportarli nel finale alla brutale realtà. Marzo 2020, la stagione non può partire per i rischi dovuti all’incombere della pandemia e per un caso di positività nei box della McLaren. Scoppiano le polemiche e inizialmente si propende per correre lo stesso, finché la voce più autorevole, il campione in carica Lewis Hamilton, dice la sua: “Cash is King”. Una condanna a quella tattica di appeasement di alcuni che non avrebbero voluto propendere per la decisione di fermarsi, che porta tutti a ripensare ai rischi di crearsi una bolla mentre fuori sta crollando il mondo. Non si corre.

Superato lo scoglio covid, poi è tutta discesa. Rimane certo quell’attimo di racconto “post apocalisse”, con le sedi vuote, le riunioni via Zoom e ciò che ormai conosciamo bene da un anno a questa parte. Ma poi arriva luglio, che significa ripresa in Austria. E con essa Drive to Survive torna nel vivo degli scontri tra scuderie e piloti. E lo fa pur mantenendo le telecamere più a distanza del solito, causa pandemia.

E le attenzioni vanno dunque sui personaggi che in questi tre anni si sono aperti di più davanti alle telecamere e di cui si sta seguendo l’arco evolutivo. Da Pierre Gasly, intenzionato a riprendersi il suo posto in Red Bull, ma anche a Daniel Ricciardo, impegnato ad affrontare quest’anno l’annoso problema del cambio di scuderia, arrivato a 29 anni e desideroso di correre con una macchina che possa permettergli di gareggiare per la vittoria in ogni gara ora che è nel pieno della sua carriera. Finanche a raccontare il limbo di Sergio Perez, veterano che diventa rivelazione dell’anno a bordo di Racing Point ma con il contratto in scadenza e letteralmente scaricato dalla sua scuderia e intenzionato a mettersi in mostra per non abbandonare il mondo della F1. La bellezza di Drive to Survive è questa, raccontare gli sportivi, gli atleti che, parafrasando il Niki Lauda di Daniel Bruhl in Rush, indossano quel casco e sono attratti dalla velocità e da quelle monoposto pur consapevoli dei rischi (anche se oggi fortunatamente la tecnologia ha ridotto di molto le probabilità di incidenti gravi) ma al tempo stesso riescono a farci empatizzare con il loro lato umano. Non vediamo quindi un eroe quasi mitologico in cerca di gloria, ma il dipendente che cerca di tenersi il posto o di essere promosso, o il giovane che vuole migliorare e superare i propri idoli e ancora l’eterno secondo, Valtteri Bottas, che vuole il suo riscatto in una lotta contro il suo compagno di scuderia Hamilton. Semidei per il sangue freddo, la capacità di percorrere velocità folli e contemporaneamente dialogare con i team ai box via radio, e al tempo stesso uomini suscettibili alle stesse pressioni che potrebbe subire una persona qualsiasi in un periodo di intenso stress lavorativo.

E poi ci sono i simboli per eccellenza di questo sport. Le scuderie che con gli staff e i team manager costituiscono un altro microcosmo, con un percorso perpendicolare a quello dei piloti. Un mondo fatto di ingegneri, meccanici e artigiani che hanno l’obiettivo di costruire le macchine più veloci al mondo stando all’interno di rigidi regolamenti, e di manager che invece studiano le vetture e i team avversari per cercare ogni appiglio possibile per danneggiarsi a vicenda. È la componente politica della F1 in Drive to Survive, tra team manager che si salutano col sorriso e al tempo stesso si dichiarano guerra a suon di reclami in commissione, vedi Christian Horner (aka il signor Geri Halliwell), TM di Red Bull nella sua amicizia-rivalità con Toto Wolff (Mercedes). E anche in questa parte della storia è l’emotività umana ciò che emerge maggiormente, con la scelta furba della troupe di seguire ad esempio, oltre al già citato Horner che da queste stagioni ne sta uscendo come un Tywin Lannister qualsiasi pronto a sacrificare i piloti in casa per assicurarsi le guide migliori per le sue vetture, anche il team manager di Renaul Cyril Abiteboul: furente nel vedersi davanti più di una volta le monoposto rosa della Racing Point, ree a suo avviso di aver barato nella realizzazione del veicolo.

Non manca poi l’episodio che racconta il Titano dormiente del Circus, la Ferrari, che anche nel suo anno peggiore attira l’attenzione su di sé per le questioni interne. E la puntata non può dunque che concentrarsi sull’affrontare la triste realtà di un’auto non all’altezza del suo nome e con la grana di vivere da separati in casa con Sebastian Vettel, che nel giro di due anni ha perso prima il suo posto di primo pilota della scuderia e che nel corso di questa stagione riceve la notizia, nel pieno del campionato, del suo licenziamento a fine anno.

È apprezzabile il modo in cui si è deciso di narrare il fatto più grave dell’anno. Nel mostrare il terribile incidente occorso a Romain Grosjean, con la sua Haas che si spacca a metà al contatto con il guardrail in Bahrain e poi prende fuoco con lui all’interno, le telecamere vanno in ogni box a far vedere le reazioni di tutti i meccanici e poi on board con i piloti, che prima si informano via radio sull’accaduto e poi parcheggiano le vetture, si fermano, e fanno l’unica cosa che possono fare: pregare e sperare. Perché chiunque segua questo sport sa quanto in passato episodi del genere siano stati fatali, un’altra cosa che racconta molto bene Rush nell’episodio dell’incidente di Lauda al Nurburgring nel 1976. E così, quando dopo attimi di panico e silenzio si vede Grosjean uscire dalla metà della sua auto in fiamme incredibilmente illeso, non si può fare altro che sospirare.

Superato il momento più delicato in pista infine, Netflix dà l’ultima parola a Lewis Hamilton, che si conferma campione e che, come avvenuto a inizio stagione, ci riporta un’altra volta nella realtà fuori dal paddock. E lo fa puntando i riflettori su George Floyd e Black Lives Matter, sottolineando che chi è nella sua posizione deve usare la propria voce per combattere questo tipo di situazioni.

Netflix ancora una volta ha trovato la linea giusta per raccontare la Formula 1, mostrando come non esistano bolle in grado di isolare niente e nessuno dal mondo che ci circonda, neanche un business miliardario.



Mario Mancuso

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