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Roger Deakins, quando la fotografia al cinema è una questione di stile
Quando ci troviamo di fronte a un fotogramma di una bellezza da togliere il fiato, oppure a un complesso e avvolgente movimento della macchina da presa, oppure a un incredibile piano-sequenza, i meriti del virtuosismo spesso se li prende solo il regista... e il direttore della fotografia, poverino, se ne rimane seduto su un ramo riflettere sull'esistenza come il piccione di Roy Andersson.

L'annosa questione della divisione dei meriti tra regista e autore della fotografia, secondo la denominazione cara al maestro Vittorio Storaro, perché le parole, si sa, sono importanti, è allo stesso tempo semplice, perché legata al differente ruolo che ciascuno dei due ricopre nello shooting di una ripresa, e complessa, conseguenza del fatto che la divisione dei ruoli (e delle competenze) spesso è più labile di quanto si possa pensare. Senza perderci in pedanti argomentazioni, in poche parole, si può dire che il regista, sulla base delle proprie intuizioni, coordina quel lavoro di illuminazione del set a cui, fisicamente, si dedica il cinematographer (come viene chiamato nei paesi anglofoni). Gestione delle fonti di luce, uso del colore, scelta della composizione dell'immagine e ricerca nella geometria della ripresa sono solo alcune delle mansioni del direttore della fotografia, il quale, spesso anche operatore alla macchina, è un professionista fondamentale nell'economia di un film. E quando si parla di DoP (Director of Photography) che segnano la storia del cinema degli ultimi trent'anni, il primo nome in cima alla lista è quello di Roger Deakins.

Britannico della contea inglese del Devon, classe 1949, Deakins è colui che attualmente riesce a far convivere meglio di chiunque altro istanze classiche, provenienti dalla sua profonda conoscenza della pellicola, e continua ricerca di nuove forme di linguaggio visivo, esplorando le potenzialità in continuo divenire del digitale. Fine appassionato di pittura (e si vede), inizia come cameraman e assistente di produzione per vari documentari, si muove nel cinema ad alto livello già negli anni '80, ma è dall'inizio degli anni '90 che acquisisce piena padronanza dei propri mezzi:  la svolta avviene con lo scoccare del sodalizio artistico con i fratelli Coen, che prede il via nel 1991 con Barton Fink, sublime riflessione su creazione artistica e derive autodistruttive premiata con la Palma d'oro a Cannes. È l'inizo di una straordinaria collaborazione, ricchissima di grandi film estremamente stimolanti anche dal punto di vista della sperimentazione visiva. Nel 2018, dopo ben 13 nomination, Roger Deakins vince il suo primo Oscar per il bellissimo Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve, riconoscimento che conquista anche nel 2020 per 1917 di Sam Mendes, discusso war-movie girato come fosse un'unica ripresa.

Andiamo ora e esplorare la sua poetica in immagini, attraverso alcuni significativi fotogrammi che ben restituiscono tutta la magia di un lavoro straordinario.

Stormy Monday (1988)



Aggiornando il gangster-movie agli anni '80, l'inglese Mike Figgis ha costruito un buonissimo film di genere, calato nel suggestivo paesaggio di una Newcastle livida e notturna. Il mood noirish, cuore della pellicola, è esaltato dalla ricercata atmosfera creata dalla fotografia di Deakins, capace di pennellare suggestivi scorci grazie al sapiente uso della luce naturale, senza dimenticarsi di definire alla perfezione anche i fumosi jazz club metropolitani, tipici coacervi di intrighi criminali e passioni impossibili del cinema nero classico.

Fargo (1996)



Avvolto dalle nevi e dai venti gelidi che soffiano costantemente sui caratteri e le idiosincrasie dei suoi personaggi, Fargo è un film allo stesso tempo caustico e rassicurante, in cui la provincia americana così fredda e asettica è specchio di una società che ha accettato passivamente la violenza e l'amoralità come elementi di normalità. Uno dei film migliori dei fratelli Coen, magistrali autori che riescono a bilanciare alla perfezione i molteplici registri entro cui spazia la pellicola. Strepitosa la fotografia ovattata di Roger Deakins, che fonde realismo e fugace matrice onirica senza un'ombra di gratutito formalismo. Campi lunghissimi e primi piani si alternano con precisione chirurgica, accompagnando lo spettatore in un viaggio nel grottesco in pieno stile Coen.

L'uomo che non c'era (2001)

 
Il capolavoro dei Coen bros. è un omaggio filologicamente impeccabile alla stagione d'oro del noir americano, affresco tragico di un'umanità ferita e devastata dalle proprie insicurezze, dal proprio senso di inadeguatezza e da frustrazioni che proiettano senza riserve in una lotta impari con le avversità. Moderno nel ripercorrere i tòpoi classici del genere (basti pensare alla geniale trovata di mettere al centro della storia un uomo "invisibile", senza il minimo appeal), il film trova nell'eccezionale fotografia un elemento di rilievo assoluto. Attraverso una vasta scala di grigi e a una notevole profondità di campo, Deakins immerge lo spettatore negli anni '40 come meglio non si potrebbe, definendo dal punto di vista visivo il tragico fatalismo che permea la vicenda. Curiosità: il film, girato a colori in pellicola 35mm, è stato successivamente convertito in bianco e nero durante la post-produzione.

Non è un paese per vecchi (2007)



Ispirata all'omonimo romanzo di Cormac McCarthy, l'opera n°12 dei fratelli Coen è un memorabile affresco "morale" che racconta un'America di confine, selvaggia e soprattutto impietosa, dove la bizzarria e il rimescolarsi dei generi assumono qui forme canonicamente anomale, dando vita a un intenso western postmoderno, ibridato con il thriller e con il noir. Un distillato limpido e cristallino della poetica coeniana, crocevia della morte dal sapore metafisico con al centro il Male assoluto. Difficile dimenticare lo psicopatico assassino Chigurh, interpretato da un Javier Bardem in stato di grazia, così come la maestria luministica di Deakins, evidente nelle riprese sia in interni, sia in esterni. Del Texas in cui è ambientata la storia sembra di sentirne profumi e sapori.

L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007)



In breve: la miglior fotografia dal 2000 a oggi, con buona pace della nutrita compagine critica che invece ha incoronato in tempi recenti il lavoro di Bruno Delbonnel (meraviglioso, senza ombra di dubbio) per Il favoloso mondo di Amélie (2001) la best cinematography degli ultimi vent'anni. Echi del miglior Terrence Malick nella sospensione (a)temporale e una padronanza del formato panoramico nella descrizione del paesaggio che guarda ai classici hollywoodiani anni '50 fanno di questo western crepuscolare un riferimento assoluto in termini di ricerca visiva. La pellicola 35mm diventa per Deakins la tela su cui dipingere un'emozionante ballata dai toni poetici e sommessi, magistralmente messa in scena da Andrew Dominik e scandita dalle ipnotiche note di Nick Cave e Warren Ellis. Basterebbe la sequenza dell'assalto notturno al treno, girata come un duello tra silhouette, per gridare al capolavoro in termini di fotografia.

Revolutionary Road (2008)



Una profonda e impietosa analisi del deteriorarsi del rapporto di coppia firmata Sam Mendes, in cui l'ambientazione nella provincia dell'american dream anni '50 diventa fondale espressivo per rievocare le suggestioni del mélo classico, rielaborato però in chiave contemporanea (e universale). Deakins non guarda al Technicolor coevo all'ambientazione del film, ma sceglie soluzioni più moderne, pur affidandosi alla pastosità cromatica della pellicola. Gli interni della casa, come da manuale, sono autentici co-protagonisti della vicenda, segnando, anche nei momenti di intimità, il vuoto che separa i personaggi interpretati dalle star DiCaprio e Kate Winslet, di nuovo insieme a undici anni di distanza da Titanic (1997).

Skyfall (2012)



Attraverso un respiro cinematografico mai raggiunto dai titoli precedenti, il film onora al meglio il 50° anniversario della saga di James Bond con un'operazione densa di riferimenti alla tradizione, ma proiettata verso il futuro. Sam Mendes aggiorna il mito senza stravolgerlo, coniugando atmosfere old-style di rara suggestione e mirati riferimenti a una minaccia incombente contemporanea. A dir poco clamoroso il lavoro in digitale di Deakins, speculare a quello in pellicola elaborato dal grande Hoyte van Hoytema nel successivo Spectre (2015). Il viaggio tra i fantasmi del passato diventa emozione pura tra le highlands, con la brughiera scozzese che incornicia shot già entrati nel mito, ma non si dimenticano nemmeno la notturna Shanghai, illuminata da metalliche luci al neon, o la suggestiva Macao, ripresa come un fiammeggiante tempio del peccato.

Prisoners (2013)



Pur rivelando qualche debito di troppo con il cinema di David Fincher, Denis Villeneuve ha realizzato un solido thriller che attinge a piene mani alle atmosfere neo-noir contemporanee. Il crudo realismo della vicenda è definito in maniera esemplare dalla splendida fotografia notturna di Deakins, che esplora nuovi territori in termini di illuminazione artificiale. I toni freddi la fanno da padrone e la ricerca di un continuo gioco di luci e ombre, cuore pulsante del film, si attesta su un livello qualitativo decisamente elevato. Cinema commerciale borderline, che guarda al grande pubblico senza cadere negli stereotipi del blockbuster.

Ave, Cesare! (2016)



Ma quanto si sono divertiti i Coen a realizzare questo spassoso ritratto della Howood anni '50? Tra minacce comuniste, set di improbabili peplum e attori di terz'ordine, il film è un affettuoso omaggio al mondo del cinema, che smaschera ipocrisie, vizi e bugie che proliferavano dietro ai lustrini della Golden Age. Non mancano musical, western e noir, secondo un caleidoscopico mood coeniano al 100%, cesellato alla perfezione dalla cinematography di Roger Deakins, il quale riesce a connotare ogni genere di riferimento con notevole maestria.

Blade Runner 2049 (2017)



Una delle scommesse cinematografiche più ambiziose degli ultimi anni, vinta su tutti i fronti. Riuscendo nel difficilissimo intento di riprendere, aggiornandolo, l'iconico immaginario di Blade Runner (1982), Denis Villeneuve va ben oltre i confini del semplice "sequel-nostalgia", e sfrutta il cupo fatalismo del meraviglioso film di Ridley Scott, conservandone i sottotesti religiosi e filosofici, per approdare a una complessa riflessione sul confine tra reale e virtuale, analogico e digitale. La componente barocca e postmoderna che ha reso indimenticabile il cult originario viene ridimensionata, puntando su soluzioni più contemporanee anche grazie al fondamentale contributo della fotografia. Coadiuvato dall'impressionante lavoro dello scenografo Dennis Gassner, Deakins dà vita a uno straordinario lavoro luministico arthouse che lavora sulle tonalità calde e fredde del colore spingendosi verso una sperimentazione visiva che è già un riferimento del genere sci-fi. Impossibile dimenticare il confronto tra K (uno ieratico Ryan Gosling) e il gigantesco ologramma di Joi, il segmento quasi monocromatico dell'arrivo del protagonista alle rovine post-apocalittiche di Las Vegas o il finale sulla neve. Passato, presente e futuro si fondono magistralmente, sotto il segno di una palette cromatica tra le più suggestive del recente cinema hollywoodiano.

Davide Dubinelli
Maximal Interjector
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