Pubblichiamo con molto piacere un vostro contributo, ricevuto in relazione al nostro primo CortoCircuito dedicato a Holy Motors!
Giulia Pugliese
HOLY MOTORS (2012, Leos Carax)
9 appuntamenti come i 9 gironi dell'inferno di Dante, Holy Motors è un viaggio dantesco nella vita di un uomo di cui non sappiamo l'identità e che forse ormai a forza di interpretare diversi personaggi, non ne ha più una. Monsier Oscar è come una tela bianca. I ruoli che interpreta lo portano ad umiliarsi e sono grotteschi, ma sembra non poter fare a meno di continuare a fare quello che fa, come se lui stesso non avesse potere sulla propria vita.
Al primo appuntamento interpreta una vecchia mendicate di cui a nessuno sembra fregare niente, il regista usa un time-lapse per far muovere velocemente le persone intorno.
Lo spettatore è stranito in quanto fino a prima interpretava un banchiere che parlava male dei poveri.
Al secondo appuntamento, quando si mette la tuta per la performace capture, i movimenti fatti ricordano una danza tribale e di guerra.
Quando Monsier Merd entra nelle fogne vediamo anche altre persone, questa immagine mi ha fatto ricordare una serie di film sul futuro distopico, uno in particolare “Snowpiecer” di Bong Joon Ho. La scena in cui Monsier Merd esce dalla fogna e c'è una specie di mirino, a me in realtà ha ricordato quando nei cartoni animati, ci si voleva focalizzare su un dettaglio e c'era un cerchio e tutto intorno nero.
Merd viene trattato dal fotografo come un freak, un fenomeno da baraccone, viene citata la fotografa Diane Arbus. Quando la modella viene rapita, non gli oppone resistenza, come capisse che Merd non è pericoloso. Lo stesso Merd si comporta come un bambino: i versi che fa, il modo di guardarle il seno non è sessuale, ma come lo guarderebbe un bambino e alla fine lei gli canta una ninna nanna e lui si addormenta.
Durante l’ entr’acte, il protagonista grida 12 e 3 ( 12-3= 9 ).
Il quarto appuntamento è sicuramente quello più emblematico dove uccide se stesso e il suo doppio.
Le scene di Parigi modificate che vede Monsier Oscar mi hanno ricordato “Addio al linguaggio” di Jean-Luc Godard, ma anche i visori notturni dei militari, come se Parigi fosse il suo campo da battaglia.
Nel quinto appuntamento, deve interpretare la scena della morte, che risulta una parodia, c’è un cane nero, come da riferimento all’inizio del film. Il dialogo ha poco senso e sembra parlare ad
una vecchia attrice (“se sei stato tanto odiato, sei stato anche tanto amato”, “mi sento così vecchia”, “nella mia testa sei sempre giovane” ). A me ha ricordato la scena dell’astronauta che invecchia di “2001 odissea nello spazio” di Stanley Kubrick.
Quando si addormenta in limousine e perde i contorni della strada sembra un quadro impressionista.
L’ incontro con Kylie Minogue è un incontro molto malinconico: quando parlano della Samaritaine “ l’ hanno distrutto per fare un hotel di lusso” , quando parlano del loro rapporto e quando dicono “ il tempo è contro di noi “. Lei stessa ci anticipa che si butterà. I manichini potrebbero essere un rimando al surrealismo di de Chirico.
Quando arriva all’ ultimo appuntamento, abbiamo come l’impressione di essere arrivati al finale con il sottofondo di “Revivre” di Gerard Manset, ma anche questo è un'illusione, perché il film non finisce e lo vediamo al suo ultimo appuntamento, quello più grottesco e anche umiliante a mio parere. Le scimmie mi hanno ricordato sempre “2001 odissea nello spazio”, ma anche “Rabbits” e “Inland Empire” di David Lynch, dove gli animali attuano scene di quotidianità tradizionale.
Il finale trasporta nelle macchine sentimenti umani, che nel film gli uomini non hanno.
In tutto il film, secondo me, c’ è anche un rimando alla filosofia di Cartesio di non fidarsi della propria percezione dei sensi, in quanto questi ci ingannano, come nella scena nella sala cinematografica che sentiamo il rumore del mare che però non c’è. Questa scena potrebbe essere anche un riferimento a Bazìn che diceva che il regista non deve ingannare lo spettatore, mentre l’industria cinematografica moderna lo fa. Il tema della menzogna ritorna spesso nel film.
RAPPORTO TRA CELINE-MOUSIER OSCAR: apparentemente sembra un rapporto reale e genuino, in realtà rimarca il classico rapporto tra attore e assistente personale. Lei a volte sembra fingere (per esempio quando ride alla battuta ) ed essere accondiscendente con lui.
DORMIENTE: L’ artego di Leos Carax si risveglia nel suo appartamento ed è come se lo vedesse per la prima volta. Vede una nuova porta dove è disegnata una foresta, la apre ed entra in una sala cinematografica, dove gli unici non addormentati sono un bambino e un cane. Oltre il riferimento alle immagini di Marey, c’ è sicuramente un riferimento alla purezza dei bambini e allo loro spontaneità, che mi ha fatto venire in mente questa frase: “Gli unici che dicono la verità sono i matti e i bambini. Per questo i primi li rinchiudono e i secondi li educano“ di Giorgio Fornoni.
LA FORESTA: che viene anche citata da Monsier Oscar, secondo me è un rimando al primo uomo, alla semplicità, alle origini e al primordiale.
LA LIMOUSINE: è un camerino, un luogo dove nascondersi, dove togliersi o mettersi le maschere. In molte scene interne vediamo la limousine piena di oggetti come se Monsier Oscar ci vivesse da sempre, sembra quasi una discarica di tutto quello che ha raccolto negli anni. Vi è un contrapporsi della sfarzosità esterna al disordine e all’accumulo interno. Spesso Mousier Oscar guarda il mondo da un piccolo schermo: le strade esterne e le persone, come se il vero palcoscenico fosse la vita.
SIGNIFICATO del film: Il film è una critica molto personale all’industria cinematografica, con il termine personale, non mi riferisco allo stile, ma alla storia professionale del regista che per ben 13 anni non è riuscito a trovare dei finanziatori per i suoi film. L’ industria cinematografica svilisce, rende impersonali i suoi lavoratori (anche con l’ uso della tecnologia ) e rende gli spettatori passivi e omologati sempre allo stesso cinema.
Il protagonista, non sono sicura che sia un attore, sembra più un condannato che deve espiare una pena. La scena più dura, secondo me, è quella in cui parla con il personaggio di Michel Piccoli (che forse è nella sua testa) e parla del suo lavoro “continuo come ho iniziato per la bellezza del gesto“, ma in quello che fa non c’è bellezza, è come se il protagonista fosse ormai anche estraniato dal suo quotidiano e dai suoi gesti.