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I 30 anni di Barton Fink dei fratelli Coen e le ossessioni della City of Nets
Ormai 30 anni fa, esattamente il 18 maggio del 1991, veniva presentato in concorso al Festival di Cannes il quarto lungometraggio dei fratelli Coen: Barton Fink. Il film fu una vera e propria incoronazione per i due fratelli che, avendo già alle spalle tre pellicole largamente apprezzate dalla critica, furono investiti dei primi riconoscimenti di una carriera ormai in rampa di lancio. 

Il film si portò a casa addirittura tre premi (Palma d’oro, miglior regia e miglior interpretazione mascjile per John Turturro) fatto che sfociò anche in una piccola rivoluzione all’interno dei meccanismi di premiazione del festival (dall’anno successivo, infatti, una simile eventualità venne esclusa dal regolamento). Chi ha visto il film potrà facilmente capire anche le motivazioni che spinsero l’allora presidente di giuria Roman Polański a elargire così tanti onori all’opera di Coen. Barton Fink è certamente un sentito omaggio al cinema del regista polacco, artista da sempre stimato dalla coppia originaria di St. Louis Park. Diventa quindi semplice immaginare come Polański abbia fatto un vero e proprio tuffo nel passato, magari a quelli de L’inquilino del terzo piano (1976) o, ancora, a quelli in cui i fantasmi della mente prendevano vita attraverso i corridoi dell’appartamento di Repulsione (1965). Anche nel film dei Coen Bros l’hotel sembra vivere di una vita propria, proiezione ed estensione della mente del nostro protagonista, le sue manie e ossessioni prendono la forma di un vero e proprio luogo dell’orrore, e in questo potrebbe risultare immediato il rimando a un altro celebre locus horridus della storia del cinema: l’Overlook Hotel di Shining (1980).



Barton Fink è un film estremamente sfaccettato, capace di affrontare più tematiche come, ad esempio, il rapporto con la religione, argomento certamente caro ai due registi di fede ebraica. Le ossessioni di Fink sfociano quindi nelle manie di grandezza dell’artista che, credendosi Dio, pone sé e la sua arte su un piano superiore (non è quindi un caso che sfogliando il libro della genesi, il nostro sceneggiatore riconosca i primi versi della sua stessa sceneggiatura). Fink, nonostante sogni di dare voce alla middle class, non sarà mai uno di loro, come gli fa capire anche il personaggio di John Goodman (uomo del ceto medio che vive in quell’hotel, a differenza di Barton che invece è solo di passaggio). I fratelli Coen non lesinano quindi anche una critica all’artista benpensante, una persona essenzialmente egocentrica e che non dà mai ascolto agli altri (lo stesso Fink interromperà spesso i discorsi di Charlie Meadows per riportare il discorso su di sé). 

Essendo ambientato negli anni ’40, il film dei Coen non poteva che essere anche una finestra sull’establishment hollywoodiano, mondo di sciacalli dalla parlantina veloce e capaci di attrarre a Los Angeles artisti, scrittori e musicisti più disparati. Le promesse di fama e successo sono luccicanti miraggi che rischiano però di rivelarsi una vera e propria prigione dorata. In questa descrizione di Hollywood i due registi hanno dichiarato di essersi ispirati al libro City of Nets di Otto Friedrich; in questo romanzo la città è vista come una vera e propria rete di connessioni e conoscenze verso la quale sono attirati scrittori e musicisti, provenienti da ambienti più disparati. Città estremamente mutevole, la città degli angeli, in cui puoi passare da essere qualcuno a uno dei tanti in un battito di ciglia. Risultano così un monito dall’eco biblico le parole che produttore rivolge a Barton “tu credi di essere l’unico scrittore capace di darmi quel tocco speciale alla Barton Fink? Là fuori ci sono almeno altri venti scrittori sotto contratto a cui chiedere un soggetto scritto con il tuo stile”: frasi che fanno riflettere sull’unicità del ruolo dell’artista (e di Dio) specialmente se collegate a un testo come la Bibbia, un unicum in cui le varie voci che la compongono possono rischiare di (con)fondersi tra loro. 



Simone Manciulli

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