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I film di George Clooney, dal migliore al peggiore
In occasione dell'uscita su Netflix di The Midnight Sky, nuova regia di George Clooney in arrivo domani sulla piattaforma di streaming, ripercorriamo le prove del popolare attore dietro la macchina da presa, mettendole in fila dalla peggiore alla migliore secondo il giudizio del nostro dizionario (a parità di voto, a fare da discriminante sono naturalmente le preferenze della redazione).

MONUMENTS MEN (2014)



Ispirandosi all'omonimo libro di Robert M. Edsel, Clooney racconta la storia vera, rimasta ignota per lungo tempo, di un gruppo di uomini disposti a rischiare la propria vita in nome della fede nel potere salvifico della cultura dinnanzi agli orrori e alla brutalità umana, nonché del valore dell'arte come testimonianza di espressione individuale da preservare. Ma il regista e interprete (affiancato come sempre dal fido Grant Heslov come co-sceneggiatore e co-produttore) non riesce a trovare la giusta chiave per far coincidere le lodevoli premesse con una resa filmica quanto meno soddisfacente. Superficiale e banale, troppo attento a sdrammatizzare e stemperare i toni più che a sviluppare le potenzialità intrinseche del soggetto, il film assume le fattezze di un divertissement fine a se stesso, prolisso ed eccessivamente retorico, incapace di evolversi in un racconto maturo, originale o quanto meno coinvolgente.

IN AMORE NIENTE REGOLE (2008)



Al terzo film da regista, George Clooney cambia nuovamente genere e, dopo la spy story di Confessioni di una mente pericolosa (2002) e il dramma d'impegno civile e politico di Good Night, and Good Luck (2005), passa alla commedia sofisticata. Un dichiarato omaggio alle opere di George Cukor, Preston Sturges e Howard Hawks che si rivela però piuttosto velleitario: una involontaria parodia poco coesa e poco ispirata, priva di uno sguardo sagace e pungente su vizi e piccolezze umane, oltre che ripetitiva e alla lunga noiosa. Le schermaglie verbali tra protagonisti peccano di brillantezza, mentre le partite di football sono ben coordinate e dirette ma non riescono mai a divertire come vorrebbero e potrebbero. Clooney suscita simpatia, malgrado gigioneggi più del solito, al contrario di John Krasinski e soprattutto di una Renée Zellweger decisamente fastidiosa e respingente. 

THE MIDNIGHT SKY (2020)



Tratto dal romanzo La distanza tra le stelle di Lily Brooks-Dalton, The Midnight Sky è la settima prova dietro la macchina da presa di George Clooney e (fatta eccezione per la mini-serie Catch 22 del 2019) arriva tre anni dopo il suo precedente Suburbicon e addirittura quattro anni dopo le sue ultime prove d’attore con Money Monster e Ave, Cesare!. Clooney guarda un po’ a Gravity (di cui era anche protagonista), un po’ a Contact e un po’ a Interstellar, finendo presto per dare la sensazione di già visto. Nella prima parte il film fatica molto a carburare, sia per una narrazione non troppo originale, sia per un montaggio incerto, che non riesce a dare il giusto ritmo alla pellicola. L’intrattenimento, così, è scarso, ma The Midnight Sky riesce a rialzare la testa nella seconda parte, con un’ultima mezz’ora visivamente affascinante in un paio di sequenze e una narrazione che riesce a coinvolgere un pizzico di più. Un po’ tardi per salvare l’intera baracca, ma quantomeno l’ultima mezz’ora è più che discreta, nonostante la retorica (dovuta anche a una colonna sonora di Alexandre Desplat troppo invasiva) faccia spesso capolino tra le pieghe della sceneggiatura. 

SUBURBICON (2017)



Tre anni dopo il fallimentare Monuments Men (2014), George Clooney torna dietro la macchina da presa adattando una sceneggiatura mai portata sul grande schermo che i fratelli Coen scrissero durante gli anni Ottanta. Insieme al fidato Grant Heslov, Clooney ha riesumato il copione e, pur parlando dell’America degli anni Cinquanta, l’ha adattato pensando agli Stati Uniti contemporanei, quelli segnati dall’elezione di Trump. Dietro le belle facciate delle ville della borghesia a stelle e strisce di Suburbicon – esplicita metafora degli States di ieri e di oggi – si nascondono ipocrisie, razzismo e tensioni che finiscono per esplodere in una potentissima spirale di violenza. La famiglia protagonista, con al centro un Matt Damon che raramente si è visto così diabolico sul grande schermo, è allegoria dell’intero discorso sociopolitico portato avanti dall’impegnato regista americano. Il cinismo del cinema dei Coen c’è tutto, e si sentono quelle atmosfere da commedia ner(issim)a che hanno sempre fatto parte dello stile degli autori di Fargo (1996), anche se non sempre la sceneggiatura risulta incisiva e alcuni elementi (sul razzismo, in primis) possono risultare un po’ pretestuosi. 

CONFESSIONI DI UNA MENTE PERICOLOSA  (2002)



George Clooney esordisce alla regia adattando (con la sceneggiatura di Charlie Kaufman) il romanzo autobiografico di Chuck Barris. Gran confezione e riuscito affresco d'epoca in cui il regista (che si ritaglia saggiamente un ruolo di comprimario) descrive contemporaneamente l'inesorabile scivolamento qualitativo verso il basso della televisione e il clima di sospetto e paranoia caratterizzante buona parte degli anni della Guerra Fredda (la storia parte alla fine degli anni cinquanta e si conclude all'inizio degli ottanta), estensione del caos emotivo ed esistenziale del protagonista dalla mente pericolosa. Una riuscita spy-story in cui, malgrado il ritmo di tanto in tanto latiti e lungaggini e ripetizioni facciano capolino, Clooney mette in luce non scontate doti di narratore di prim'ordine, concedendosi anche interessanti soluzioni visive che arricchiscono di ulteriori coloriture il disordine mentale di un personaggio disturbato e schizofrenico come Barris. Ottima la prova di Sam Rockwell, premiato come miglior attore al Festival di Berlino. 

LE IDI DI MARZO (2011)



Adattando il testo teatrale Farragut North di Beau Willimon, Clooney torna al cinema politicamente impegnato e lo fa con un film per certi versi speculare e contrario a Good Night, and Good Luck (2005). L’idealismo della pellicola precedente lascia qui il campo a un lucido e disincantato sguardo sullo stato delle cose: un'amara ammissione di impotenza e disillusione dinnanzi ai giochi sporchi e al cinismo del potere. Le speranze e i sogni hanno fatto posto al pragmatismo sfrenato, le parole sono meri strumenti di manipolazione e la lotta per la sopravvivenza è combattuta a suon di bugie e compromessi. Clooney costruisce un brillante e convincente thriller politico, centellinando a dovere la tensione, e guarda alla grande tradizione del grande cinema americano anni settanta, peccando solo a tratti di prevedibilità (non manca qualche passaggio eccessivamente derivativo). Grande prova di tutto il cast, capitanato da un Ryan Gosling al suo meglio e arricchito da una serie di ottimi interpreti in grado di rubare la scena anche con una semplice battuta. 

GOOD NIGHT, AND GOOD LUCK (2005) 



Opera seconda del regista George Clooney in cui l'idealismo e l'impegno civile trovano una forma cinematografica che colpisce per lucidità ed efficacia narrativa. Sfruttando largamente l'uso di filmati d'epoca, Clooney (sceneggiatore con Grant Heslov) tesse una trama capace di essere sempre coinvolgente e interessante, grazie a precise caratterizzazioni psicologiche e a una messa in scena che predilige primi e primissimi piani accompagnati a un montaggio serrato, una splendida fotografia in bianco e nero e un intelligente uso della colonna sonora. Un grande affresco che aiuta a comprendere l'atmosfera di tensione e continuo sospetto caratterizzante gli anni cinquanta negli Stati Uniti, ma anche un appassionato elogio (mai retorico, banale o demagogico) al giornalismo d'inchiesta e al coraggio di sostenere con forza e coerenza le proprie idee. Straordinaria la prova di David Strathairn, caratterista qui assurto a protagonista, tutta giocata in sottrazione e valorizzando al meglio il timbro vocale e gli eloquenti silenzi di Ed Murrow. 

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