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I ponti di Madison County – Alle antiche sere e alla musica lontana
A tre anni di distanza dal capolavoro revisionista Gli spietati (1992), punto di svolta cruciale nella sua carriera da regista, e a due anni da Un mondo perfetto (1993), esemplare road movie in costante rapporto dialogico con il mito della frontiera, Clint Eastwood, pilastro di classicismo hollywoodiano contemporaneo, torna di nuovo a confrontarsi con il passato. Una tendenza, quella di guardare al tempo che fu, ricorrente nel suo cinema, che diventa un sottile fil rouge capace di collegare il western, genere fondativo dell'epica americana, legato a un periodo storico ormai concluso, a ogni altro canone cinematografico precostituito. Attraverso una prospettiva per certi versi inedita, in cui il ricordo non è mai subordinato a un desiderio di nostalgia fine a se stesso ma è semplicemente il veicolo per raccontare un frammento di vita scolpito nell'eternità, con I ponti di Madison County (1995) Eastwood si immerge con partecipazione totale in quel cinema dei sentimenti che sembrava essere quanto di più lontano potesse realizzare, per dare vita a un gioiello estemporaneo e memorabile come l'amore tra i due protagonisti. Ed è così, in maniera sorprendente, che il grande autore californiano ha portato a compimento una delle più struggenti love story mai apparse sul grande schermo.

Iowa, estate 1965. Nell'arco di quattro, intensi giorni, si consuma l'amore tra tra la casalinga sfiorita Francesca Johnson (Meryl Streep), moglie e madre di due figli, e il non più giovane fotografo Robert Kincaid (Clint Eastwood), spirito libero che si considera un cittadino del mondo. Una storia pura e semplice, che raccoglie al suo interno quanto di meglio si possa desiderare quando si parla di mélo sentimentale d'autore. L'essenzialità eastwoodiana, il cui rigore non impedisce un debordante trasporto emotivo, assume qui centralità assoluta. La passione che divampa tra i due protagonisti è sostenuta da una carnalità di pudore estremo, il sapiente uso dei limitati spazi interni e della profondità del paesaggio rurale apre a suggestioni di grande forza espressiva, il pathos è costruito secondo un trattenuto climax che culmina nell'indimenticabile prefinale sotto la pioggia. Tutto concorre a creare una soffusa ballata d'atmosfera giocata su contrasti abilmente smussati e vibranti rime interne.

«I vecchi sogni erano bei sogni. Non si sono avverati, ma comunque li ho avuti».


Esattamente come accadeva nei fiammeggianti mélo di Douglas Sirk, quello che vivono Francesca e Robert è un rapporto reso impossibile anche dal bigottismo della provincia americana. Ma se nel melodramma in Technicolor degli anni '50 a dominare la scena era l'eccesso artificioso (anche dal punto di vista cromatico), Eastwood percorre il genere controcorrente, donando profonda autenticità a ogni gesto e a ogni parola appena sussurrata. La prigione mentale entro cui si muove Francesca, donna che inaspettatamente si trova di fronte alla scoperta della propria passionalità, permette a Eastwood di mappare una iterata quotidianità fatta di frustrazione e rimpanto per quello che poteva essere e non è stato. «Mi resi conto che era stato qui solo pochi minuti prima di me. Ero immersa nella vasca in cui l'acqua era scivolata sul suo corpo, e trovavo che la cosa era molto erotica». Attraversato da un rispettoso e mai eversivo anticonformismo, rappresentato dal personaggio di Robert, il film è anche una potente (e attualissima) riflessione sull'etica americana della famiglia. Le convenzioni che schiacciano le libertà individuali vengomo forzate dall'interno, senza delegittimare i legami con cui ci si deve confrontare per una vita intera, nel bene e nel male.



Classica e allo stesso tempo anticonvenzionale, la pellicola acquisisce senso profondo anche per la sua natura di diario intimo, venuto alla luce quando tutto era già finito. Proprio perché vissuta attraverso la memoria, la storia tra Francesca e Robert è destinata a durare per sempre. Fugace, appassionata, indimenticabile. Perché «L'amore non obbedisce alle nostre aspettative. È mistero, puro e semplice». Autentico monumento della storia del cinema, che affonda le proprie radici nell'America più vera, segnata in egual misura da stridenti contraddizioni interne e da un intenso umanesimo di fondo, Eastwood rimane uno dei più nobili cantori della Settima arte, al di là dei vari generi con cui si è confrontato. Dietro a un volto scolpito nella roccia, si cela una sensibilità d'altri tempi, propria solo di chi ha vissuto senza mai cedere a mode o tendenze di passaggio. Indissolubilmente legato a un cinema virile dai tratti decisi, Eastwood, con I ponti di Madison County, ha aggiunto un tassello fondamentale alla sua parabola cinematografica dietro la macchina da presa, avvicinando il rigore morale alle pulsioni del cuore. Perché, in fin dei conti, non è altro che un romantico dagli occhi di ghiaccio.

Davide Dubinelli

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