News
I VOSTRI ELABORATI: WORKSHOP LIVE “IL CINEMA COREANO”!
Durante il workshop live dedicato al cinema coreano, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico di questa cinematografia in costante crescita, che può vantare nomi molto quotati nel panorama cinematografico internazionale, come Kim Ki-duk, Park Chan-wook e Bong Joon-ho.
Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Andrea Parigi
L’importanza del silenzio

L’aspetto del cinema di Kim Ki-duk che mi ha colpito di più, ma credo di non essere il solo, è il silenzio dei personaggi. Un silenzio che non è un semplice stare zitti, ma il contrario: Kim Ki-duk con queste scene mute riesce a farci capire più cose di quanto potrebbe fare attraverso il dialogo. Non è un mutismo sistematico che attanaglia allo stesso modo tutti i personaggi.  Ad esempio in Moebius, dove non si parla mai, non comunicano forse perché sarebbe troppo doloroso esprimere quello che provano oppure in Bad Guy il protagonista non parla perché ha un difetto alla voce di cui si vergogna che non lo aiuterebbe in quello che fa. Uno dei registi più grandi di tutti i tempi, Alfred Hitchcock, sosteneva che bisognerebbe ricorrere al dialogo solo quando necessario e tutto ciò che viene detto invece di essere mostrato è perso per il pubblico. Chissà se il regista sud-coreano abbia preso spunto dal regista britannico, ma sappiamo per certo che il suo è cinema puro, fatto di sole immagini. Al di là delle qualità tecniche che può contenere il silenzio, nei film di Kim Ki-duk ha un significato importante: fa riflettere (Arirang), fa pregare (Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera), fa amare (Ferro 3), fa…morire! Il suo cinema ci dice tutto anche non parlando, e ha certamente un pregio: riesce a far emozionare allo stesso modo il pubblico di tutto il mondo. 

Barbara Anna Clara Ferraro    
Un orso bianco nella neve                      

Cosa rende affascinante un film, cosa fa rimanere estasiato, colpito, stupito lo spettatore critico mantenendo sempre desta la sua attenzione? 
La ricetta vincente sembra proporla la nuova cinematografia sud-coreana, una sorta di Nouvelle Vague, una rivoluzione, iniziata negli anni 2000 che sta facendo amare e studiare da tutti Kim-Ki duk, Park Chang-Wook, Bong Joon-ho e compagni.
L'interesse verso il cinema sud-coreano è stato definitivamente suggellato dal film Parasite di Bong Joon-ho pluripremiato nel 2020, che ha reso manifesto il valore di questa corrente cinematografica.
È evidente che una nuova etica ed estetica, propria di questo cinema, crei curiosità e susciti all'esterno tanto clamore e favore. 
Lo spettatore si sente e risente parte attiva nella visione, affascinato dal mondo orientale tanto distante dal suo immaginario, ricco di punti di vista nuovi e talvolta estremi.
Il cinema sud-coreano riesce infatti anche a modificare l'approccio alla visione. È un cinema che non annoia, anche se caratterizzato da ritmi lenti, e che riesce a stupire modificandosi al suo interno con accelerazioni o rallentamenti inaspettati. 
Diventa quindi sempre una sorpresa, una bomba che si innesca piano, ma che quando esplode nell'animo se ne impossessa e lo inebria.
Porta gli occhi a concepire scenari nuovi, sottrae le parole per riempire il film di significato.
Lo spettatore deve abituarsi ad un nuovo concetto di cinema ad un continuo cambio di registri nella stessa pellicola: il film può esser crudo e spietato e, un attimo dopo, dolce e romantico. 
Nel film L' Isola, Kim Ki-duk decide di raccontare una storia d'amore singolare tra due solitudini che si incontrano e scontrano. Lui fugge dopo un delitto e medita il suicidio e lei, traghettatrice di persone e di anime, in questa sorta di villaggio galleggiante, riesce a salvargli la vita. Tra i due si instaura un rapporto di attrazione quasi ossessivo a tratti violento.  A scompigliare definitivamente un già instabile equilibrio sarà l'arrivo di una prostituta che scatenerà la gelosia di Hee-jin e che porterà la vicenda a tragiche conseguenze. 
Amore e morte viaggiano insieme e cullano lo spettatore in questo piccolo, ma prezioso gioiello in cui i dialoghi sono ridotti quasi a zero. La protagonista non proferisce parola, sono i suoi occhi a comunicare allo spettatore la sua inquietudine. 
Marcato è il tema della sessualità unico mezzo di comunicazione in un mondo incapace ad esprimersi. 
Il film si nutre di immagine e suono componendo quadri di bellezza disarmante, come quando i due protagonisti abbracciati si lasciano trascinare dalle acque del lago.
Cifra stilistica di tutti i film sud-coreani è rimanere sempre in bilico tra vita e morte, tra violenza e dolcezza.
I protagonisti non trovano mai pace, sono eterni lottatori pronti a combattere contro gli altri e contro se stessi.
Quest'aspetto è ben rappresentato da Park Chang-wook in Old Boy film che in fatto di tensione e suspense, non ha niente da invidiare al cinema di genere americano, ma anzi spesso lo surclassa per profondità, torbidezza psicologica e crudezza del racconto. 
Un cinema di genere noir, in cui la vendetta è protagonista. Un uomo imprigionato per 15 anni in un bunker, accusato della morte della moglie, vive la sua prigionia concentrato su chi sia il mandante.
Una volta liberato capirà che la punizione è solo all'inizio e che dovrà scontare la sua pena. Nella sua corsa all'inseguimento del suo carnefice, non sarà possibile nessuna concessione al ludico. Il protagonista sarà "telecomandato" dal suo carnefice demiurgo.
Park Chang-wook riesce ad avvinghiare lo spettatore in un vortice di passioni malate toccando i livelli della più potente e lacerante tragedia greca. 
Siamo sopraffatti da un mondo dominato dalla violenza e dalla follia di istinti bestiali, dove persino l'amore è sbagliato e dove non è possibile ripulirsi dalla colpa.
Anche Boong Joon-ho gira un film di fantascienza post apocalittica all'americana e propone con Snowpiercer un film di denuncia sociale. Durante una nuova era glaciale un gruppo di sopravvissuti viaggia su un treno che non si ferma mai, suddiviso secondo una posizione prestabilita che corrisponde al rango sociale. Finché i poveri sopraffatti e schiacciati come insetti dal potere, inizieranno la rivolta.
Il regista esprime la sua posizione chiaramente anticapitalistica, e sottolinea sia l'impossibilità di scavalcare i ranghi sia i risultati di un'infruttuosa lotta di classe, in cui il povero rischia alla fine, per innalzare la sua posizione, di diventare copia del padrone.
Per poter aspirare al cambiamento di una società in un mondo duro governato dal potente che predomina sul più debole, occorre trovare qualcuno che rifugga il sistema e viva al di sopra dei suoi meccanismi. 
Solo così sarà possibile far ripartire il mondo e la civiltà da zero auspicando ad un diverso e più prosperoso inizio.
Usciti dal treno gli ultimi sopravvissuti vedono un orso bianco nella neve.
Il regista ci suggerisce che seguendo i dettami della Natura, anche dopo una glaciazione tremenda e spietata, si troverà il modo di ripopolare un pianeta che sembrava ormai perduto per sempre.

Gianluca Grannò
Il cinema coreano: questione di classe … sociale

Il cinema coreano, da circa vent’anni sforna grandi autori.
I più rappresentativi e, probabilmente, i più apprezzati nei Festival europei (Venezia, Cannes e Berlino) e non solo, sono Kim Ki–duk, Park Chan–wook e Bong Joon–ho.
Registi accumunati da uno sguardo rivolto alla società coreana e al degrado che caratterizza gli strati sociali del nuovo millennio, uno sguardo crudo, diretto e spesso spietato. 
Un paese in cui il governo, impegnato principalmente a mantenere alto il tasso di crescita economico a scapito della questione sociale, ha contribuito ad acuire le diseguaglianze tra i ceti che emergono in tutta la loro drammaticità.
Il cinema non poteva guardare altrove.
In Pietà, Kim Ki-duk ci racconta la tragica storia di un sadico individuo che, al servizio di uno strozzino, costringe i malcapitati debitori a sottoscrivere polizze infortuni per poi, una volta inadempienti, sottoporli a strazianti mutilazioni per recuperare le somme prestate. 
Il tutto si svolge nella malsana rete di vicoli e nelle logore botteghe aggrovigliate nella periferia di una città sud coreana: un labirinto di miseria in cui gli abitanti sono come topi in trappola. 
Terreno fertile in cui ambientare una storia di crudele vendetta in un clima oscuro, cinico e a tinte rosso sangue.  
In Sympathy for Mr. vengeange Park Chan-Wook racconta laceranti storie di vendette generate da povertà e malattia. Il protagonista è un ragazzo sordo muto che compie atti anche cruenti, che spiazzano e sconvolgono emotivamente lo spettatore, per racimolare i soldi per la sorella malata. 
Una storia inquieta, cupa, con al centro il dolore mostrato in tutta la sua durezza. 
Un cinema di elevata fattura che raggiunge apici altissimi nella sequenza dell’ascensore: il volto pallido della ragazza morta è svelato da un lento movimento del lenzuolo e il dettaglio delle mani che si sfiorano ci regala una ventata di romanticismo e dolcezza.     
Ultimo, ma solo in ordine cronologico, Parasite di Bong Joon–ho, tocca, probabilmente, il livello più elevato nel rappresentare il conflitto sociale e le sue tragiche conseguenze.
Protagonista è la famiglia Kim, stipata nell’angusto e fatiscente appartamento di un sobborgo cittadino. che sopravvive, a stento, di sussidi ed espedienti.
L’inizio del film è folgorante: dalla finestra intravediamo la strada, siamo in un seminterrato, siamo nel sottosuolo sociale; la camera si abbassa, lentamente, a scoprire un ragazzo che si affanna, aggirandosi tra i miseri ambienti, per trovare un segnale wi-fi a cui agganciarsi gratuitamente; la camera in movimento lo accompagna, mostrandoci lo stretto corridoio e la stanza in cui i genitori sono stancamente adagiati. Il ragazzo si muove freneticamente, sfiorando il basso soffitto come alla ricerca di aria. Sua sorella si unisce a lui, e i due si raggomitolano vicino al water: un trono in un castello di miserie. 
Il padre, a completare un quadro intriso di squallore, uccide una cimice mentre mangia un panino.
La scena prosegue con la famiglia riunita a piegare i cartoni della pizza, mentre la disinfestazione inonda la stanza di gas saturando l’inquadratura: sono loro stessi insetti da sterminare.     
D’improvviso la svolta: da una inaspettata situazione, la famiglia Kim orchestrerà un brillante ed articolato piano, impreziosito da un montaggio magistrale, per conquistare un posto al sole a discapito di una famiglia benestante ed ingenua. 
Tuttavia, nonostante gli sforzi, il regista sembra volerci suggerire, che non c’è nessuna possibilità, per i Kim, di affrancarsi da questa condizione. L’odore persistente, che sembra accompagnarli costantemente è come un marchio indelebile, qualcosa che fa parte di loro a livello profondo, incancellabile.
Costretti a lotte intestine sono ricacciati a forza dalla pioggia torrenziale nel loro buco sotto terra. 
Il finale è tristemente poetico: siamo nell'appartamento sottoterra, l'inquadratura della finestra e il movimento della camera verso il basso ci riporta al punto in cui tutto è iniziato, gli ultimi pensieri sono racchiusi in una lettera che custodisce i sogni di un futuro irrealizzabile. 
Grazie ad un cinema essenziale e rigoroso, Bong Joon–ho ci racconta la triste e disperata condizione di una umanità dolente e sconfitta.
Il cinema coreano, che troppo spesso è colpevolmente dimenticato dalla miope distribuzione italiana, si caratterizza per la sua capacità di mescolare con sapiente maestria la durezza degli argomenti: dolore, miseria e vendetta, con una regia (una “messa in scena” per citare Hitchcock ed i maestri della Nouvelle Vague) estremamente strutturata e virtuosistica. 
I registi coreani mostrano un cinema di immagini, di musiche e di suggestioni che stupiscono e che probabilmente trovano, nella cultura orientale, il sottostrato adatto per raccontarci la società coreana con crudezza e poesia.

Lucia Cirillo
Parasite: quando la fiducia è solo un gioco ad alto rischio

C’è qualcosa di vagamente rassicurante in un racconto che pare voler proporre una realtà semplificata da stereotipi di facile individuazione. Di fatto, ciò che rende irresistibile un film come Parasite è proprio questo piccolo inganno di fondo: la realtà è troppo complessa per poter essere descritta semplicemente da modelli rappresentativi che non includano anche la portata descrittiva e contenutistica di quella componente “aleatoria” - fatta di ambiguità, sfumature, imprevisti di percorso - necessaria per decifrare un mondo di cui spesso si fatica a comprendere le logiche.
La società coreana contemporanea deve la sua attuale composizione alle conseguenze nefaste di una grave crisi economica e finanziaria, partita negli anni novanta dopo una crescita travolgente, che ha prodotto una forte polarizzazione di classe, concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi e un sistema redistributivo inefficace. 
Questo il contesto dei personaggi di Parasite: una famiglia poverissima vittima delle conseguenze di una economia speculativa fondata su fattori aleatori - sganciati dai “fondamentali” dell’economia reale - basati esclusivamente sulla “fiducia” nell’andamento di breve periodo dei titoli del mercato finanziario.
La fiducia, appunto. Quella immotivatamente riposta dall’ingenua padrona di casa verso il maestro di inglese, appena conosciuto, di sua figlia quando le proporrà una nuova insegnante per suo figlio. La fiducia che avrà anche per l’autista appena assoldato a sua volta ai danni di un incolpevole e irreprensibile servitore, e che porterà al licenziamento della fidatissima governante. Nessuna verifica, nessuna cautela. I padroni accolgono il nuovo in casa loro senza apporre filtri. Ci si libera del vecchio, come la fidata governante, senza troppi scrupoli. E intanto una nuova generazione (ad elaborare il piano è per primo il giovane e scaltro ragazzo) tenta la scalata approfittando di questa ingenuità di fondo della classe privilegiata. Uno studioso di questione meridionale parlerebbe di “familismo amorale”.
La sera in cui la famiglia di arrampicatori resterà in casa senza i padroni sarà l’occasione per provare a vivere da ricchi: mangeranno cibo senza neppure preoccuparsi di cosa si tratti, ad un certo punto si accorgeranno di aver mangiato persino cibo per cani, abbinandolo a vino di altissimo costo ma di cui non sanno nulla. Si approcciano al lusso senza possedere gli strumenti e la sensibilità per riconoscere l’eccellenza.
Anche la vecchia governante e suo marito confesseranno a loro volta di aver approfittato dell’assenza dei padroni per “parassitare” alcune delle loro risorse. Ma in quel caso si era trattato della consultazione di cataloghi di arte, quasi a suggerire come la povertà stessa senta il bisogno di ragionare con le sue aspirazioni perdute e su una disuguaglianza fondata su valori rimpiazzati troppo rapidamente. Come se si facesse largo una fiducia (ancora lei) cieca in un benessere fatto solo di carrelli da riempire senza stare troppo a pensare di che cosa.
Una fiducia che, come una bolla pronta ad esplodere, pianifica poco e pare rassegnarsi al caos per aggiudicarsi un riscatto solo ipotetico

Simona Bassano
Parasite

Molti film di Bong Joon-Ho hanno una struttura circolare, finendo con un ritorno ai luoghi delle inquadrature di apertura o con un richiamo formale ad esse. Accade in Memories of Murder, nella danza di Madre, tra le montagne in Okja e nello stesso emblematico movimento di macchina verticale di Parasite. In mezzo alla parentesi temporale dei suoi racconti si consuma la tragedia dei protagonisti, che è invariabilmente anche un pezzo di racconto di un tormento nazionale, fino ad allargarsi e diventare universale. 
Ma se Bong Joon-Ho non manca di lucido distacco nella precisione delle forme con cui costruisce le sue messe in scena, il suo cinema resta sempre di grande umanesimo e queste chiusure ad anello sembrano rafforzare il sostanziale pessimismo del regista, che a ogni passo ci ricorda quanto sia inesorabile l’indifferenza generale in cui si consuma il dramma umano. 
I temi trattati nelle pellicole del cineasta coreano, peraltro declinati attraverso il paradigma dei più disparati generi - dal monster movie al fantasy, all’action distopico – rivelano di essere in realtà il pretesto per una analisi minuziosa, accompagnata spesso da una critica feroce, di strutture e sovrastrutture sociali. Che si tratti della crudeltà degli allevamenti intensivi, di mostri che si generano da catastrofi prodotte dall’inquinamento ambientale, della violazione dei diritti dei bambini e dei disabili o della forbice crescente del divario sociale tra ricchi e poveri, la Weltanshauung di Bong Joon-Ho lascia senza respiro, somigliando a un claustrofobico spazio senza via d’uscita, ulteriormente incorniciato nel complicato e ambiguo rapporto di repulsione-dipendenza dalla presenza americana, che tanto peso ha avuto nello sviluppo della storia della Corea del Sud. 
Quello che resta straordinario è, tuttavia, la maestria con cui il regista riesce ad orchestrare tutto questo senza indugiare mai nel compiacimento del dolore o del dramma, ma anzi spesso ricorrendo alle note più leggere del comico e del grottesco.
A proposito di questa capacità e di questo tratto unico, il critico Huh Moon-Yung scrive “Calore e distacco, umorismo e paura, cinismo e tolleranza, l’accento realistico e l’elemento onirico coesistono. E questi elementi contraddittori non sono solo vagamente collegati tra loro, ma creano piuttosto un accordo originale nato sotto l’influsso dell'immaginario e della sensibilità distintivi della generazione dei cartoni animati” 
A nessuno di questi schemi fa eccezione Parasite
Per questo film, il regista sceglie una rappresentazione stilisticamente molto complessa, mescolando, in maniera irresistibilmente intrigante, diversi registri. 
Questo mix risulta formidabilmente riuscito, perché arriva a combinare l’estrema raffinatezza della costruzione stilistica, grammaticale e sintattica, con un tono che si mantiene quasi lieve per buona parte del racconto. Con modi un po’ blasé, Bong circuisce lo spettatore e con la blandizie, giocando proprio sulle corde dell’umorismo, lo induce a empatizzare e a immedesimarsi con personaggi brutali, reietti, cenciosi, violenti e truffaldini. Quando questo processo è portato a compimento, sopraggiunge la suspence e una volta che il pubblico è agganciato a quell’amo, viene piombato nel caos; resta disorientato, non sa più cosa pensare e soprattutto dalla parte di chi si deve schierare. In questa condizione di spaesamento Bong introduce poi l’elemento deflagrante dell’assurdo e di un surrealismo ai confini dello splatter. 
A quel punto lo spettatore è suonato come un pugile e l’unica cosa che realizza è che mentre si faceva portare a spasso, ha abbassato tutte le difese e nel momento in cui è più debole, il regista affonda la sua lama con un finale struggente, che carica tutto il dolore sulle spalle del pubblico, lasciando invece sullo schermo ancora l’illusione della speranza. 
Già ad un iniziale livello di analisi del film, è possibile, poi, stabilire quali siano le forme simboliche attraverso le quali, dal prologo all’epilogo, si manifesta ed aleggia il già menzionato fantasma della minaccia statunitense.
L’epifania più evidente è il ripetuto riferimento ai Nativi Americani. Secondo alcuni critici l’utilizzo dell’estetica degli Indiani d’America serve a Bong Joon-Ho per criticare la tendenza globalista-capitalista a banalizzare strutture culturali complesse fino a renderle rappresentazioni superficiali facilmente commercializzabili. 
Suggestione convincente, che fa emergere il mai sopito sentimento del regista. Per Bong la Corea del Sud è un Paese sostanzialmente colonizzato dagli USA. Questo aspetto la pone in una sorta di continuità ideale con la condizione a cui furono costretti gli Indiani d’America ai tempi di Colombo. L’ambiguità di questa colonizzazione apparentemente buona, portatrice di libertà a spese dei liberati, sembra essere l’humus da cui si genera anche l’ambivalente ruolo che l’auctoritas statunitense esercita sui protagonisti. 
Da un lato i Kim la usano per contraffare referenze e diplomi, dall’altro i Park ne dipendono con ingenua e incondizionata fiducia. Per entrambi risulterà fatale.
Ulteriore indizio sembrerebbe la misteriosa pietra portata in dono alla famiglia dall'amico di Kim Ki-Woo prima di trasferirsi all’estero: quello che sembra inizialmente il buon auspicio per aprire le porte del riscatto sociale (non importa se grazie a un’educazione americana reale o millantata), alla fine rivela il suo vero volto, trasformandosi in un’arma a doppio taglio mortale per chi l’ha accolta.
Se questo è il sostrato metaforico ed emotivo generale, nel particolare Bong torna a occuparsi di temi che aveva già affrontato in Snowpiercer: le disuguaglianze sociali, la forma sghemba del conflitto di classe, la guerra tra poveri e l’inevitabile sacrificio del “fondo”. Tutti gli elementi tipici e archetipici di una organizzazione sociale di stampo capitalista (di cui gli USA sono e restano l’emblema più grande). Ma proviamo a vedere come essi vengono calati all’interno del racconto.
First things first. L’enorme divario che esiste tra i Kim e i Park è ribadito fino a diventare quasi didascalico: in un seminterrato buio, sgangherato e fatiscente vivono i primi, in un edificio dalle linee essenziali, eleganti e pulite, inondato dal sole e dal verde, i secondi. 
Sono costretti a una scaltrezza senza inibizioni e censura i Kim, che sfruttano la connessione dei vicini e la disinfestazione delle strade per sterminare gli scarafaggi che gli infestano la casa, che pretendono di farsi pagare lavori mal fatti, che falsificano documenti e inventano referenze.
E’ derivata dal loro status la corrività naïf dei Park, che si lasciano abbindolare da un paio di altisonanti riferimenti universitari americani e da una glamorousissima quanto oscura specializzazione in arteterapia, che sono disposti subito a credere alla dubbia moralità del proprio (fino a un attimo prima discretissimo) autista, che si lasciano convincere che la fidata governante possa aver celato loro una malattia infettiva che potrebbe mettere a rischio la salute degli indifesi figli. 
Tutto questo è possibile non per la “belt of trust” su cui dice di voler basare il proprio giudizio So-Dam, ma perché i Kim ritengono i Park alla stregua di scimpanzé che non meritano il posto che occupano, e i Park ritengono i propri subordinati al pari di insetti: tollerabili fino a quando si mantengono invisibili, ma da sacrificare se “oltrepassano il limite”. D’altra parte, questi sono anche facilmente sostituibili, grazie all’enorme esercito di riserva su cui i Park possono contare.  
Se, dunque, il desiderio di riscatto sociale dei Kim passa per la mistificazione che si alimenta dell’ingenuità dei Park e arriva a compimento attraverso la loro manipolazione, se gli agi e la tranquillità domestica dei Park si reggono solo sullo sfruttamento del lavoro dei loro comprimari, in questo schema di cose, chi è l’ospitante e chi è il parassita? Ne può davvero esistere uno solo? 
C’è un altro tema, strettamente correlato, che Bong aveva già affrontato in Snowpiercer e che torna a proporre in Parasite: la sua personale riflessione sulla lotta di classe. 
La visione alla base di entrambe le pellicole non appare corrispondere in tutto a uno schema marxista di stampo classico che fotografa quella capitalista come un’organizzazione sociale divisa in classi che configgono e che sono destinate a prevalere o a soccombere sulla base dei rapporti di forza che riescono a esprimere. Le dinamiche messe in scena in questi due film infatti poggiano su un’interpretazione più claustrofobica e pessimista.
La società di Bong sembra infatti una struttura organizzata in caste (indizio ne sia il fatto che il lumpen, per quanto possa migliorare la propria posizione, porterà sempre con sé il suo puzzo in eredità) e le dinamiche al suo interno sembrano definite deterministicamente, trattandosi di un sistema di cui va anzitutto preservato l’equilibrio. 
Per questo motivo affinché i Kim si affranchino dalla propria subalternità sottoproletaria è necessario che coloro di cui prendono il posto siano sacrificati, relegati a una posizione ancora peggiore, senza alcun ruolo e dunque senza alcuna speranza. In questo ulteriore luogo fisico e metaforico non arriva mai la luce e non si vive. Sia esso un bunker inabissato nel suolo o il fondo di un treno le cui uniche aperture verso l’esterno vengono attivate solo per smembrare il corpo vivo dei suoi abitanti, lì dentro l’unica opzione è attendere la morte e sopravvivere senza uno scopo.
Questo è lo snodo in cui si innestano la seconda e la terza fase del film, che introducono e risolvono il terribile e disperante tema della lotta senza quartiere che, lungi dal colpire chi beneficia in surplus del privilegio sociale ed economico, travolge solo gli ultimi in guerra con i penultimi. Ma se di tutti restano in terra i corpi e il sangue, verso il vero nemico di classe, fino all’ultimo istante, si continua a nutrire un’ottusa quanto infruttifera dedizione o una favolistica e commovente identificazione aspirazionale. 
Di tutto questo Bong Joon-Ho offre una efficacissima traduzione formale che si articola:
-                      nell’elegante composizione delle inquadrature, particolarmente raffinata quando utilizzano framing interni per separare i protagonisti quasi che a dividerli ci fosse un confine invalicabile (discrimine che, nelle parole del signor Park, distingue il cattivo dal bravo collaboratore)
-                      in sequenze di grande dinamismo, benché costruite per gran parte solo con montaggio interno 
-                      nei chirurgici movimenti di macchina, il cui stile si modifica durante l’articolarsi della trama per mettersi al servizio del racconto come significante. 
Bong usa, infatti, la steady-cam per compiere movimenti ampi e veloci nei larghi e luminosi spazi della villa dei Park, sceglie la macchina fissa per le riprese opprimenti all’interno del sovraffollato seminterrato dei Kim e la camera a mano per rendere la concitazione e il ribaltamento sovversivo nella strage in giardino. Con criterio simile, per tutta la prima parte del film, cioè fino a quando non entra in scena il bunker, la camera si muove con continuità, anche se con grazia impalpabile. Fino a quel momento Bong vuole ancora farci credere nella possibilità di un cambiamento, ma questo, per avvenire, impone cautela. La macchina da presa allora si insinua impercettibilmente nella scena esattamente come i Kim faranno in territorio nemico. Quando però in questo movimento si frapporranno la precedente governante e suo marito, la macchina da presa si bloccherà fino alla resa dei conti finale, muovendosi solo per rincorrere i contendenti su e giù per le scale.
E proprio le scale sono l’ultimo protagonista del film. 
Snowpiercer è un film di corridoi, Parasite un film di scale” ha dichiarato il regista coreano e, in effetti, dall’attacco al finale (in cui la macchina da presa dalla luce della finestra lentamente ci porta verso il basso), Parasite stabilisce nella verticalità la sua cifra stilistica.
L’intero tema delle gerarchie sociali è declinato in dislivelli, siano essi domestici (il seminterrato dei Kim, la villa multipiano dei Park, il bunker in cui è rinchiuso Geun-Se), siano essi urbani. La prima volta che Kim Ki-Woo appare sullo schermo mentre si reca alla villa dei Park, Bong lo inquadra in campo lungo, facendolo spuntare nell’angolo in basso a destra dello schermo mentre si inerpica su una salita piuttosto ripida. 
Per contrappunto, quando tornano alla propria abitazione, costretti alla fuga sotto una pioggia torrenziale, i Kim, in un groviglio che somiglia a una bolgia dantesca, attraversano una citta fatta di gradinate che si intrecciano e che sembrano non finire mai. 
E le scale tornano ancora nel finale in cui si proietta l’accorata speranza di riscatto contenuta nella lettera di Kim Ki-Woo, che immagina di poter un giorno finalmente acquistare la villa dei Park per consentire al padre di risalire dal bunker e tornare a vedere la luce. Ma quella risalita è subito negata dal movimento a scendere della macchina da presa, che ripropone l’attacco del film, stavolta calandolo nel buio della notte invernale. Un finale davvero tragico per chi guarda, cui resta l’amarezza di sapere che quel sogno non potrà mai compiersi. 
A conferma di questa chiusura pessimistica, Bong sceglie di accompagnare i titoli di coda con una canzone di cui è lui stesso autore e che fa interpretare proprio a Kim Ki-Woo. Il brano è l’ideale continuazione del film, dal momento che descrive come dovrebbero trascorrere gli anni a venire per il giovane Kim. Quanti sono quelli necessari a realizzare il suo sogno? 564 secondo il titolo che in origine aveva scelto Bong…

Valentina Castellani
Pochissime parole sui silenzi di Kim Ki-duk

L’aspetto per me più affascinante e sorprendente dell’opera di Kim Ki-duk è il silenzio che parla. Le immagini e gli attori del suo “cinema muto” evocano e trasmettono non solo emozioni, sensazioni di pelle, visioni, ma intere narrazioni.
L’ostinato mutismo di molti personaggi è capace di per sé di riempire dimensioni, spazi e volumi immaginari e al tempo stesso spietatamente realistici.
Un rifiuto di parlare che è l’inevitabile eco di un rifiuto di comunicare una realtà inaccettabile e percepita come immodificabile nella sua cruda essenza e nella sua essenziale crudeltà.
I personaggi silenziosi più intriganti e dolorosi, al limite dell’atroce, sono le donne, che con il loro mutismo urlano una condizione di umiliazione, sfruttamento e irredimibile solitudine. Possedute, usate, ferite, non hanno bisogno di parole per trasmetterci la loro infelicità, urlata o sussurrata da ogni espressione del viso e movimento del corpo.
I rapporti umani ridotti a sguardi, spesso nascosti e furtivi, restituiscono una realtà nuda e desolata che non prevede redenzione. Né amore, se non in una forma distorta e morbosa che lo allontana da ogni parvenza di umanità. Persino la vendetta, quando riesce, è comunque un’altra amara e definitiva sconfitta per chi la porta a termine. 
Nei suoi film esteticamente ammalianti ed emotivamente feroci ogni incanto è infranto da una verità, vissuta, ricordata o sognata, talmente separata e marginale da non poter essere pronunciata. 

 

 

 
Maximal Interjector
Browser non supportato.