I VOSTRI ELABORATI: WORKSHOP LIVE “IL CINEMA DI DAVID LYNCHâ€!
19/05/2020
Durante il workshop live dedicato al cinema di David Lynch, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico del cinema di un regista dallo stile innovativo inconfondibile, autore di opere originali ed enigmatiche. Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!
Simona Bassano
“PHILADELPHIA IS PERCOLATING IN ME”: UNA PASSEGGIATA SBILENCA PER LE STRADE DI DAVID LYNCH
Philadelphia è, secondo quanto dichiara Lynch, la città che ha influenzato più di ogni altra il suo cinema e, più in generale, la sua arte - quadri, disegni e animazioni. Questo luogo, se da una parte ha alimentato in lui inquietudini e paure, dall’altro ha evidentemente esercitato una dirompete e irresistibile forza attrattiva.
Come accade, dunque, che la città dell’amore fraterno possa trasformarsi in un incubo tanto duraturo e tanto fertile?
Come molte delle grandi città americane, il tessuto urbano di Philadelphia si compone in un complesso patchwork fatto di salti che potremmo definire psicogeografici e che, se ci si abbandonasse a una ipotetica e ciondolante deriva debordiana, ne rivelerebbero le molte incongruenze e contraddizioni.
“Philadelphia is percolating in me”. Questa è l’espressione utilizzata da Lynch per definire il suo rapporto con la città.
Capisco esattamente cosa intenda, perché dopo averci soggiornato, anche se per un tempo limitato, non sono mai riuscita a scrostarmela di dosso. Diversamente dal regista americano, però, Philadelphia è per me la città del desiderio, la mia Los Angeles, l’altro-dove in cui spesso ho fantasticato di reiventarmi, un po’, appunto, come in un film.
Una vita bo-bo, ambizioni vagamente anarcoidi che incontrano e sposano il proprio feticcio nella gestione della Wooden Shoe Library & Records, il fervore ipercinetico delle comunità artistiche di South Street che vivono tutto attraverso la lente (marginale) della riappropriazione. Degli spazi, della vita, della libertà dai processi di sussunzione esistenziale. Se fossi un protagonista di un film di Lynch, il senso di colpa per il tradimento che infliggo ogni giorno a me stessa nei compromessi che accetto, si trasformerebbe in un altro io che probabilmente avrebbe terrorizzato lo stesso Lynch ai tempi in cui ha vissuto in quella città.
Eppure, il rapporto che Lynch ha con Philadelphia, seppure mai didascalico, nella sua dinamica attrattivo-repulsiva, non ha mai avuto la necessità di sublimarsi. Trasfigurarsi certo, ma piuttosto in maniera simbolica.
Philadelphia è la città delle piaghe, che disgustano perché esposte, eppure, come lui stesso sostiene, se le guardi da vicino, persino il pus perde la sua carica orrorifica, perché ne capisci la natura e ne apprezzi, restandone sedotto, la materia organica.
Di questo è fatta la città per Lynch: muri scuri, coperti di fumi industriali, strade desolate, edifici diroccati, grandi fabbriche minacciose quanto imponenti, finestre da cui i visi appaiono come fantasmi (come la Mary di “Eraserhead”) e case di mattoni, che per Lynch non davano protezione dal mondo esterno più di un foglio di carta.
Questo è forse allora il modo in cui prendono vita quelle “idee” di cui Lynch dice comporsi il suo cinema e, insieme a quelle, i suoi protagonisti. Essi si generano nell’intercapedine di questo doppio strato.
La città è immobile e spaventosa, ma, se ti avvicini abbastanza, brulica di vita. Questa potenza creativa potrebbe essere allora quella che feconda i suoi soggetti, che con incomprensibile naturalezza proseguono a zig zag, spinti da pulsioni sensuali, a colori, erotiche e fibrillanti, cui si contrappongono pulsioni distruttive, che si depositano e si stratificano in una ragnatela che incastona ogni sorta di bruttura.
Questo processo mi pare si replichi con costanza e similitudini non trascurabili da film a film, sia quando si tratti di personaggi che nascondono un segreto che li divorerà dal di dentro (Fred/Pete, Betty/Diane), sia quando il doppio fondo che hanno cercato di celare sarà loro fatale (Renée/Alice, Nikki/Sue). Persino, forse, quando restano in qualche modo coerenti con i propri desideri di vita e di morte (Henry e Mary, i quali non tradendo i propri istinti, ma appagandoli nonostante tutto, non hanno bisogno di un esplicito doppio trasfigurativo). Per tutti loro (noi?) avanzare è una battaglia perpetua tra luce e ombra, tra il colore e il nero, un percorso interstiziale tra la caligine e i muri.
In questa lotta circolare che crea infiniti cortocircuiti, si potrebbero collocare i sorrounding di Aspen Street - strada che ospitava la casa di Lynch, probabilmente ora del tutto gentrificata - e gli enormi coloratissimi murales dei quartieri a sud est della città di Philadelphia. Poche miglia di distanza e il brulicante che fa orrore si è trasformato in un luogo che reinterpreta la materia, creando colore dal nero, luce dal buio.
Mi chiedo ancora, allora, se non sia un ritorno circolare perfetto anche quello che collega le atmosfere angoscianti, piombate nel nero e nel grigio asfissiante, di “Eraserhead” - suo primo lungometraggio - e le pareti scrostate di verde di Lodz - dove ha scelto di girare parte di “Inland Empire”, suo ultimo film - i suoi edifici scalcinati e tetri, che si aprono come quinte di un infinito backstage che conduce sempre su un altro-dove, matrioska-matriarca di paure e aspirazioni.
Chissà se Lynch ci ha mai pensato, però, che a Ludz, come a Philadelphia, c’è un intero isolato brillante di luce, composto di edifici le cui mura esterne (ancora un doppio strato!) sono per intero ricoperte da un mosaico fittissimo di specchi, che non poco ricorda il magico intrico di tasselli che riveste l’inatteso mondo nascosto dei Magic Garden di South Street...
Diletta Bisio
UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO: LA TEMATICA DELLO SGUARDO IN VELLUTO BLU
Entrare nei pertugi. Spiare, guardare, osservare di nascosto. Chi è dalla parte del torto? Chi commette orrori nel buio della notte, o chi osserva in silenzio?
Davanti a tale quesito siamo posti noi spettatori, guardando “Velluto blu”. Un film dove il calare del crepuscolo dà inizio a spettacoli tragici, che mettono a nudo le menti umane più contorte.
È dalla scena iniziale che il regista mette in chiaro la sua tesi: nulla è realmente ciò che sembra.
La musica è spensierata, il cielo è azzurro e la comunità di paese si rilassa dedicandosi alle tipiche attività quotidiane. Dietro alla facciata, di per sé ordinaria e tranquilla, l’occhio coglie i primi elementi dissonanti, e di colpo, l’uomo che annaffia il prato ha un attacco di cuore. La macchina da presa si insinua poi tra l’erba, e va nel terreno sottostante dove degli insetti lottano tra loro. Viene mostrata la violenza, il ripugnante, ciò che non trova spazio alla luce del sole. Sin dai primi minuti lo spettatore si è reso testimone di qualcosa di altamente disturbante.
A essere testimone di scene disturbanti è anche lo stesso protagonista, Jeffrey Beaumont.
La storia inizia quando Jeffrey scova tra l’erba un orecchio mozzato. Con la macchina da presa siamo guidati all’interno di essa, fino a vedere il buio totale. Tramite l’orecchio si crea un portale, con cui accediamo alla fase successiva del film, quella più oscura.
Dall’armadio dove si nasconde il protagonista, nella casa della cantante Dorothy, il suo sguardo ci svela le perversioni a cui sono sottoposti i personaggi di Dorothy e Frank, il cattivo del film, colui che incarna, tra tutte le pulsioni freudiane rappresentate da Lynch, il complesso di Edipo.
Lo sguardo celato di Jeffrey, condiviso con noi spettatori attraverso la macchina da presa, opera una sorta di rivelazione del noumeno, in termini kantiani. Di ciò che è, senza filtri. Così, la violenza e le inquietudini, nascoste da un’ovattata e ipocrita perfezione possono venire allo scoperto.
Lo spettatore in "Velluto blu" è complice. Complice di chi ha il potere, e di chi, alla resa dei conti, vince. Lo vediamo nella scena finale, Jeffrey è ancora nell’armadio e ha il potere dello sguardo sul nemico.
Frank, che al contrario non può vedere Jeffrey, si aggira armato per le stanze cercandolo, minaccioso, ma impotente. È questione di attimi, di trattenere il respiro per un paio di secondi, poi improvvisamente un proiettile attraversa la fronte di Frank, e il duello si conclude.
Per una notte gli esseri umani hanno agito come gli insetti che vediamo quando la macchina da presa si insinua sotto l’erba, lottando nel buio, facendo emergere il loro lato più selvaggio.
“Velluto blu” si conclude com’è iniziato, con una circolarità che appare come un risveglio da ciò che si potrebbe reputare un incubo. Il padre di Jeffrey, l’uomo che all’inizio del film è vittima di un attacco di cuore, torna nel suo cortile, ed esordisce con: “Mi sento molto meglio.”
Il primo piano stringe sul viso di Jeffrey, portando alla luce un’ultima volta il suo sguardo, ciò con cui è iniziato tutto. Ciò che l’ha coinvolto in situazioni spinose, e ciò che, alla fine dei conti, l’ha salvato.
Giuseppe De Santis
DAVID LYNCH E .... MICROCOSMO
David Lynch ha sempre dichiarato che senza la meditazione trascendentale, oggi probabilmente non esisterebbe nemmeno il suo esordio cinematografico, “Eraserhead” (1977). La meditazione lo ha accompagnato dentro la sua anima e gli ha fatto trovare la sorgente da cui sono emerse le sue migliori idee. Una fonte inesauribile di energia positiva e di creatività.
Esistono dei princìpi che si ripetono con diverse affinità in molte delle religioni, filosofie e discipline orientali, come quello del collegamento fra macrocosmo e microcosmo, quello della non dualità di vita e ambiente circostante e quella dell’inscindibilità di Bene e Male.
Essi affermano quanto la nostra vita personale sia indissolubilmente collegata all’universo che ci circonda e come, attraverso la pratica della meditazione e della preghiera, l’una possa influenzare l’altro a seconda del nostro stato vitale.
Basandosi su questo breve assunto, ci si potrebbe domandare quanto il cinema di David Lynch possa aver beneficiato di questa concezione della vita e quanto essa sia stata incanalata nei suoi personaggi e nelle sue storie.
Probabilmente la risposta è: molto più di quanto sembri.
Personaggi, decisioni, spirali, alter ego.
Gli esempi lynchani affrontabili a partire da questo chiasmo sarebbero molti, ma in questo breve spazio possiamo limitarci a pensare agli esempi più evidenti.
Per assonanza con la logica buddista cui spesso fa riferimento, il più lampante è ovviamente l’agente Dale Cooper, protagonista di “Twin Peaks”. Cooper spesso ricorre ad un istinto irrazionale sopito dentro di sé per avvicinarsi all’assassino di Laura Palmer e questo istinto tende a colmarne la lacuna razionale attraverso lo spazio del sogno. Ecco quindi che le conseguenze delle sue riflessioni e conseguenti azioni si manifestano sia con nuovi incontri nel suo inconscio, sia nell’ambiente a lui circostante. La concretizzazione di maggior impatto di questo concetto è nella rivelazione del colpevole su cui tutti, sia cittadini di Twin Peaks, sia spettatori dello show, si stavano interrogando da diverse puntate.
Come arriva Cooper all’Illuminazione? Radunando intorno a sé (il microcosmo) tutti i principali attori della tragedia in atto, sia dalla parte dei buoni, sia da quella dei sospettati (il macrocosmo). Andando a riunire quei puntini che generano quella non dualità di cui abbiamo accennato, può finalmente manifestarsi di nuovo la vita nella sua interezza: Laura Palmer gli sussurra all’orecchio il nome dell’assassino, il gigante gli restituisce l’anello (metaforicamente e fisicamente mancante) sottratto in sogno, la sua razionalità e astuzia completano il quadro che porta all’incarcerazione del colpevole. Dal profondo verso la superficie, dal piccolo verso il grande, dal nano/demiurgo che balla nella loggia al gigante/rivelatore che rimane immobile come un faro.
Il percorso del nostro protagonista, tuttavia, dimostra anche come le decisioni influenzino gli universi nei modi che meno vorremmo. La sua reclusione nella loggia nera, infatti, dà luogo al cortocircuito necessario a bilanciare il Bene e il Male: il Cooper-Bene che è riuscito a sconfiggere l’entità maligna di Twin Peaks viene sostituito dal Cooper-Male che, come scopriamo nella terza parte della serie, vaga insospettato per il mondo come a voler riequilibrare la troppa Luce creatasi gettando le Ombre necessarie.
Lo sviluppo della terza stagione ci dà modo di ragionare ulteriormente sul concetto di microcosmo e macrocosmo, anche uscendo dal solo universo dei protagonisti della serie.
Nani, giganti, Laura, Bob.
Ancora un chiasmo, un anello le cui estremità si fondono indissolubilmente. La figura del nano ci risulta la mente dietro la loggia nera, un luogo sepolto nella profondità di un bosco in cui impera il demiurgo di quella parte di mondo dove, ogni tanto, appare una televisione.
Al contrario, il gigante che aiuta Cooper vive in un faro, un luogo rialzato e fonte di luce in cui troviamo lo schermo di un cinema. È individuabile l’allegoria meta-narrativa del rapporto tra piccolo e grande schermo che David Lynch ha sempre portato avanti segnalandoci qui, tra le righe, la sua evidente preferenza e, in qualche modo, un’ennesima visione di micro e macrocosmo.
Il gigante, dal suo punto di osservazione, assiste alla creazione del Male, incarnato in Bob che nasce dallo scoppio di una bomba atomica. Per reazione, egli decide di creare il Bene assoluto, Laura Palmer, “incubata” una sfera d’oro che viene mandata nel mondo. Di nuovo, l’equilibrio può ristabilirsi, ma le forze sono sempre in collisione tra loro nei modi più sottili e subdoli, nel cinema di Lynch.
L’essere umano aspira al Bene assoluto e, nel corso di “Twin Peaks”, ancora una volta l’agente Cooper deve cercare di risolvere un mistero del tutto diverso, muovendosi tra mondi diversi che altro non sono che menti diverse. È tutto un sogno, ma “chi è il sognatore?”
Forse siamo noi spettatori che, come l’amato protagonista, condividiamo quell’aspirazione al Bene e forse è proprio per questo che, nella Parte 17, ci emozioniamo così tanto nel vedere i colori tornare e nel sentire quelle due linee di dialogo tanto semplici, quanto indimenticabili:
Laura: “Dove stiamo andando?”
Cooper: “Andiamo a casa”.
Il cortocircuito, tuttavia, è già in atto da qualche tempo. Bob è stato sconfitto, ma la sua dipartita ha portato uno squilibrio nell’universo, o negli universi.
Proprio nell’ultima scena, Cooper probabilmente pronuncia la sua unica frase sbagliata. Egli infatti domanda a Laura: “In che anno siamo?”. Probabilmente, il giusto dubbio da porsi sarebbe stato: “In che mondo siamo?”. Nichiren Daishonin, monaco buddista del XIII secolo, in una delle sue lettere più importanti scrisse ad un fedele: “Considera allo stesso modo sofferenza e gioia”. Utilizzando questo punto di partenza potremmo provare a rispondere all’agente speciale dicendogli che si trova in un mondo in cui il Male supremo è stato sconfitto. Tuttavia, se uno degli estremi non esiste, non può esistere nemmeno l’altro, poiché l’universo deve avere un equilibrio perfetto.
Forse è proprio per questo che Laura grida disperata, che le luci della casa si spengono e, con esse, anche lo schermo della nostra tv diventa nero. Lei, Bene supremo, deve pur fare da contrappeso all’assenza di Bob e tornare a vagare nell’oceano infinito che è la coscienza dell’uomo, dell’universo, di David Lynch, di noi spettatori attoniti e atterriti.
Alberto Martelli
TWIN PEAKS: “CONCETTI SPAZIALI”
David Lynch nasce il 20 gennaio 1946 a Missoula; a causa della professione del padre il giovane visionario è costretto a spostarsi in tutto il paese, in particolare verso est. La Virginia rappresenterà una tappa fondamentale della sua vita, proprio in questo stato conoscerà Toby Keeler [figlio di Bushnell Keeler di professione pittore]. Sarà proprio in questo clima che David comincerà a catalizzare la sua propensione verso l’arte, in particolare la pittura.
Gli interessi per l’arte pittorica lo portano a frequentare la Corcoran School of Arts, e in seguito School of the Museum of Fine Arts di Boston, ma vi rimase solo un anno. Segue un suo viaggio in Europa per studiare il pittore espressionista Oskar Kokoschka.
David Lynch matura in un contesto molto importante, sono gli anni della diffusione della corrente del movimento informale che si sta diffondendo in tutto il globo, e darà via a tutta una serie di interpretazioni a seconda di ogni paese. Questa corrente durerà circa un trentennio.
Nell’informale lo “spazio” diventa uno degli elementi cardini della ricerca di molti artisti contemporanei. Il viaggio rappresenta una delle esperienze portanti per la formazione intellettuale dei maggiori protagonisti dell’informale internazionale. L’esperienza di Pollock matura con i suoi viaggi nell’Arizona e in California, Burri dal suo periodo di prigionia in Tunisia fino alle distese del Texas infine Lucio Fontana con il suo viaggio a New York nel ’58 [rimase impressionato dalla città e soprattutto dai grattacieli che li comparò a delle cascate di cristallo].
La vocazione per l’arte e i suoi viaggi saranno sicuramente una componente fondamentale per il suo sviluppo artistico [la giovinezza passata a contatto con i boschi], come la pratica della meditazione trascendentale che richiama alcuni aspetti della scrittura automatica di André Breton [manifesto surrealista del 1924].
L’intera opera di “Twin Peaks” si basa sul concetto di “spazio”, questo termine viene espresso attraverso linguaggi differenti.
A partire dall’inizio con la prima puntata, possiamo assistere a uno spazio tipo “giurisdizionale”. A seguito della morte di Laura Palmer, l’FBI manda il suo agente Dale Cooper a indagare sulla morte della giovane. Il dialogo che avviene tra lo sceriffo Harry Truman e Cooper è semplice e chiaro. In sintesi dal momento in cui l’FBI interviene prende il controllo di tutto e subordina la polizia locale al suo comando. Dopo pochi istanti lo spazio formale lascia il posto a quello informale, l’agente Cooper cambia tono di voce, diventa meno austero, più poetico e più sensitivo, chiede al poliziotto come si chiamano gli alberi grandi e maestosi che si trovano all’ingresso della cittadina. Questo sarà solo il preambolo di una splendida amicizia che sta nascendo.
A seguito della morte di Leland Palmer si susseguono tutta una serie di fatti che portano a dei veri e propri conflitti giurisdizionali. L’agente Cooper diventa vittima di un complotto ordito contro di lui su un presunto traffico di droga, i fatti si svolgono al confine della cittadina con il Canada, le autorità canadesi cercano di far valere i propri diritti.
L’amena cittadina di Twin Peaks è un concetto spaziale, non solo perché è il luogo cardine in cui si narrano i fatti di questa vicenda ma poiché essa ci offre un repertorio straordinario che ci aiuta a comprendere al meglio la poetica “Lynchiana”.
Twin Peaks è la classica cittadina di provincia, molto distante dai grandi poli urbanistici che saranno presenti nella terza stagione, come New York e Las Vegas. Ne consegue che questo distacco dal mondo contemporaneo, porta con sé tutta una serie di fattori molto importanti che aiuteranno ad analizzare questi concetti.
In primo luogo, i personaggi che ruotano attorno alla vicenda sono quasi tutte persone tipiche della provincia che si contrappongono in maniera molto marcata rispetto a quelle che vivono in città. La massima espressione di questo distacco la notiamo nella persona di Albert Rosenfield, il patologo della squadra di Gordon Cole. Non appena Albert arriva a Twin Peaks tratta con disprezzo chiunque sia coinvolto nel caso e non solo, poiché egli vede in tutti i cittadini dei “primitivi”. In questo caso la mentalità della città cerca di prevaricare quella della provincia montana, per cui si assiste a una vera invasione di campo. Lo scontro giunge al culmine con il Dr. Will Eward, poiché i due uomini di scienza si scontrano sul medesimo terreno di lavoro, ne deferisce che Albert è specializzato proprio in questo campo scientifico, mentre il Dr. Eward pratica autopsie di rito e non è abituato a fare ricerca in casi così complessi. Inoltre Albert è decisamente più aggiornato sulle più moderne tecniche d’indagine e gode del pieno supporto del dipartimento centrale dell’FBI. Saranno proprio questi poli contrapposti a generare ripudio in Albert nei confronti del Dr. Eward e della sua comunità.
Esistono anche degli spazi imposti dalla mente, Harold Smith ne è un caso particolare. Harold è un ragazzo estremamente sensibile e allo stesso tempo cela dentro di sé delle oscure perversioni. Il giovane soffre di agorafobia [malattia psicologica che genera disturbi in funzione di spazi aperti e non conosciuti], il ragazzo non può uscire di casa, soltanto il pensiero lo manda in panico. Potrebbe essere un vincolo imposto dal regista, in modo da metterlo in condizione da non cambiare il corso degli eventi dato che è in possesso del diario di Laura Palmer e di altre ragazze.
La Loggia Nera, vera rosa dei venti culturale di questo universo è il concetto spaziale portante di quest’opera. La loggia si pone come un’intercapedine tra il mondo di Twin Peaks, dove è incentrata la vicenda e altre infinite dimensioni. Una perfetta sintesi tra il tempo e lo spazio [di fatto Mike lo chiama un “negozio conveniente”, ovvero un modo per descrivere il loro habitat, una dimensione che collega più dimensioni. Di fatto queste entità vanno e vengono attraverso queste pareti dimensionali, distorcendo in alcuni casi il tempo e lo spazio di alcuni ambienti, come accade al Bang Bang Bar durante l’assassinio di Maddy].
La prima volta che la loggia compare è all’inizio della prima stagione, ma la vediamo all’interno di un sogno di Cooper, che a sua è un’altra dimensione in qualche modo connessa alla loggia. Soltanto con il progredire della vicenda e dopo una serie di accurate indagini, si scoprirà l’esistenza della loggia. Sarà proprio Hawk a dare definizione di questo ambiente, specificando che oltre alla loggia nera esiste anche la loggia bianca. Secondo il poliziotto di origini indiane, “la Loggia Nera è quel posto che viene definito il limite estremo e dove si può incontrare “l’ombra” che ti appartiene”, mentre la “loggia bianca è quel luogo dove dimorano gli spiriti che governano l’uomo e la natura”.
Alla fine della seconda stagione Cooper nel tentativo di salvare Enny dopo un inseguimento nei boschi varcherà la soglia della Loggia Nera. Con un gesto molto intenso Cooper apre le tende rosse che si pongono di fronte a lui, un movimento estremamente cauto ma intenso che ricorda un po’ Lucio Fontana nel ciclo de “le attese” del ‘1958. Ricorda Ugo Mulas che durante i suoi scatti, l’artista argentino impiegava moltissimo tempo per trovare il punto d’origine del taglio, il tempo impiegato per trovare questo punto rientra nell’analisi dell’artista argentino. Una volta eseguita l’opera il taglio definisce il limite tra pittura e scultura, fondendo le due concezioni in unico campo. Il nero del taglio rappresenta il limite estremo del concetto dimensionale [Fontana nel ’59 aveva realizzato una serie di opere legate al mondo dell’energia chiamate i Quanta. L’energia funge da elemento conduttore nell’opera di Lynch].
L’interno della Loggia Nera è un ambiente metafisico, costituito da pochi elementi, subito all’occhio spicca il pavimento a zig-zag che vuole simboleggiare il tema del doppio [luce – oscurità / bene – male / giorno – notte], elemento ricorrente in tutta l’opera. Seguono delle tende rosse che imperano in tutto l’ambiente e dividono il corridoio dalle varie “sale d’attesa” che tendono a ripetersi all’infinito. Infine pochi elementi d’arredo che servono a giustificare l’identità della loggia [seppur in modo approssimativo]. L’occhio viene catturato immediatamente da una statua classica che sembra raffigurare una Venere, delle poltrone e delle lampade [ricordano la lampada Sanremo] in stile kitsch-afro concorrono a delineare questa sala d’attesa.
La Loggia rappresentata attraverso delle tende è un modello già presente in alcuni allestimenti degli anni sessanta. Alcuni studi d’architettura [ricordo Archizoom – Archigram – Superstudio] utilizzavano questo espediente per creare dei luoghi dimensionali, in modo da coinvolgere il fruitore all’interno delle proprie creazioni e poterlo isolare totalmente dal mondo esterno [posso citare in particolare il Padiglione per Meditazione del ’67 - Poltronova Agliana]. Sempre in campo espositivo il Padiglione di Barcellona (1929) di Ludwig Mies van der Rohe ne è un grande esempio ospita al suo interno una statua femminile in bronzo (Der Morgen – Il Mattino) di Georg Kolbe. Questo spazio espositivo è ricoperto da lastre di marmo, lastre di opalina e da una grossa lastra di vetro smerigliato. Interviene una tenda di seta rossa che aiuta ad accentuare l’alchimia dello spazio e la sua funzione.
Nella loggia Cooper incontrerà personaggi bizzarri come un nano e un gigante, fino ad incontrare alcuni protagonisti della vicenda come Leland, Laura, Maddy e Annie. Particolare molto interessante è il biancore sugli occhi presente in Laura e Leland, questo colore denota una percezione spaziale molto diversa rispetto a quella dei normali protagonisti. Questi sono gli occhi di chi vede lontano, questo particolare è un prestito che deriva dal cinema italiano in particolare da Lucio Fulci ne (...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà – 1981). In questo film i guardiani dell’eterno e i condannati subiscono questa metamorfosi oculare a seguito della rottura tra la dimensione reale e quella infernale. In questo film abbiamo situazioni che richiamano alcuni concetti legati al mondo della loggia e a tutto quello che vi ruota attorno. Di fatto lo spettatore è coinvolto in più realtà, si passa da una realtà lineare a una realtà passata fino a giungere a una dimensione infernale, non è la prima volta che Lynch guarda al cinema di Fulci. Un articolo del Times [New York Times – David Lynch Weaves Film History Into ‘Twin Peaks: The Return’ - Glenn Kenny – 13/07/2017] riporta all’attenzione la violenza dello spappolamento del cranio [nella famosa puntata n. 8] e alla conseguente fuoriuscita di quella “massa informe”, questi elementi sono canonici del repertorio fulciano [vedi Paura nella città dei morti viventi – 1980]. La massa rappresenta in toto la scrittura della violenza in senso artistico, attraverso la pittura i materici dell’informale francese [Es. Jean Fautrier] davano sfogo al proprio repertorio in maniera analoga.
La Loggia è anche un confine naturale, e per la legge degli opposti esiste anche un accesso artificiale [che io definisco ipercubo – ovvero un postulato teorico della fisica quantistica]. Quest’ ultimo compare all’inizio della terza stagione, ed è ubicato all’interno di un appartamento ed è sorvegliato da un giovane ragazzo che deve solo osservare cosa accade al suo interno. Non è specificato chi abbia costruito questa tecnologia né chi sia il proprietario, il tutto rimane un’incognita ma è chiaro che funga da vaso comunicante con la loggia e le sue dimensioni. Il cubo lo ritroviamo [in dimensioni più ridotte] anche in “Mulholland Drive” (David Lynch – 2002) seppur abbia una funzione simbolica per il passaggio dalla dimensione del sogno a quello della realtà. Il concetto dei vasi comunicanti culturali è una delle prerogative del movimento informale, così come la bomba atomica presente nella puntata n. 8 è uno dei simboli-manifesto di questo movimento, segue il micromondo visibile al microscopio elettronico, sono tutti elementi che cambiano la concezione dello spazio sia in termine di grandezza che piccolezza. Lo stesso micromondo visibile dopo l’esplosione di Alamogordo (16/07/1942) che illustra il genoma di Bob e la sua nascita.
L’universo narrato in Twin Peaks occupa uno spazio ben preciso, esiste anche il “non raccontato”. Ovvero quel confine che separa l’elemento visivo/narrativo da tutto ciò che non è narrato. Questa situazione la vediamo nella terza stagione quando il Bob-Cooper (o Cooper-Villain) è in cerca di alcune coordinate GPS che conducono a uno degli accessi “dimensionali”. Il Bob-Cooper porta con sé Richard e lo usa come cavia, e soltanto dopo averlo spinto a raggiungere la sommità di una roccia Richard sarà folgorato e disintegrato. Oltre c’è solo il nulla, ciò che il regista non racconta c’è solo l’inaccessibile. Quel limite di cui Omar Calabrese tratta nei suoi saggi sulla fotografia.
Caso analogo lo vediamo nel finale, quando Cooper e Diane oltrepasseranno quel limite, solo che le coordinate saranno quelle giuste e sarà così che li ritroveremo in una nuova realtà [la nostra realtà, una realtà passata televisiva]. Soltanto che Cooper si chiamerà Richard e Diane sarà Linda. Questo ci mostra il DNA della serie, ovvero quell’enzima quantistico che non appartiene solo a questa serie ma all’intero mondo del cinema, poiché è la sua natura. Questa peculiarità è ben evidente poco prima del passaggio di Dougie Jones (dopelanger) a Dale Cooper. Dougie-Cooper sta guardando “Viale del Tramonto” (Billy Wilder – 1950) sente il nome di Gordon Cole e proprio in quel momento scatta l’illuminazione che lo porta a prendere la scossa in modo da potersi ridestare [questo ci insegna che possono esistere infinite possibilità di Gordon Cole]. Inizialmente Dougie era proprio un possibile opposto di Cooper, nei pochi minuti in cui lo vediamo scopriamo un uomo sovrappeso, dedito al gioco e al sesso facile. In sostanza è tutto l’opposto di Cooper, così come il duo Laura Palmer – Maddy Ferguson, due personaggi molto opposti e interpretati dalla stessa attrice (Sheryl Lee).
Straordinario è il caso dei coniugi Ed e Nadine (Everett McGill - Wendy Robie). Nella serie sono due bravissime persone di provincia, che praticano una vita onesta seppur Nadine sia una persona apparentemente folle e dotata di una forza straordinaria, inoltre a seguito di un trauma la sua personalità si sdoppierà ancora [Nadine era una persona normale prima dell’incidente che ha subito]. Nel film “La Casa Nera” di Wes Craven (1991) Ed e Nadine impersonano una coppia di psicopatici dediti alla violenza e alla ricchezza, l’esatto opposto di quello che vediamo in Twin Peaks. Questo esempio mette ben in evidenzia la pluralità che il cinema riversa sugli attori.
Lynch ci insegna che i corpi sono dei ricettacoli vuoti che vanno riempiti con l’anima dei protagonisti che vi vogliamo inserire, Dougie Jones è sicuramente il caso più importante dell’intera vicenda. Dougie Jones mutua da Doug Jones, attore statunitense noto per aver interpretato numerosi personaggi realizzati in Computer Graphic grazie alla tecnica CGI, quest’ultima permette di occultare totalmente l’attore e generare una forma completamente nuova [Doug Jones non lo vediamo mai, al suo posto abbiamo forme umanoidi fantastiche]. Dougie è stato creato per permettere a Cooper di ritornare e compiere la sua missione.
La spazialità dell’attore mette in luce anche altri linguaggi a dir poco straordinari. Uno dei più importanti è il concetto di divismo che vediamo esaltato nelle figure di Laura Palmer e del suo opposto Audrey Horn, due ragazze estremamente belle ma molto diverse sotto ogni aspetto. Queste due ragazze molto distanti tra loro rappresentano due poli estremi della sensualità femminile all’interno di quest’opera, di fatto tutte e due le ragazze hanno avuto dei trascorsi all’One Eyed Jacks casa da gioco e di piacere oltreconfine. L’immagine di Laura Palmer sembra quasi una proiezione di Marilyn Monroe, di fatto era la ragazza più desiderata dai giovani e meno giovani di tutta la contea e la sua morte ricca di misteri ha qualche similitudine con quella dell’attrice statunitense divenuta sex symbol tra gli anni ‘50 e gli anni ’60.
David Lynch è un regista straordinario, utilizza scritture differenti su più livelli narrativi. Lo spazio cinematografico con i suoi limiti, sono gli elementi ricorrenti della sua ricerca. In modo analogo si è mosso in questi ultimi anni Hideo Kojima [uno dei più grandi sviluppatori di videogames di questo tempo, noto per il suo saper fondere cinema e mondo videoludico], con Death Stranding l’autore giapponese introduce la spiaggia, che ha una funzione molto simile a quella della loggia. Egli ripercorre le orme di Lynch ma con nuovi mezzi.
David Lynch è come Luis Barragan, è poeta di silenzi!
Paola Sangiovanni
MULHOLLAND DRIVE TRA DESTINO (1) E LIBERO ARBITRIO (2)
“Mulholland Drive” è forse l’unico film di Lynch in cui semplicità e complessità sono in perfetto equilibrio. Lo spettatore può decidere se attenersi ad una trama in cui tutti i pezzi del puzzle tornano - sebbene tra flashback e sogni lucidi - o se andare a scavare scena per scena ogni singolo fotogramma alla ricerca di interpretazioni nuove. Questo ha scatenato una vera e propria gara e fiumi di pagine di analisi alla ricerca della chiave per entrare nella mente del regista.
Aggiungiamo anche che Lynch, per fomentare ancora di più questo gioco e forse con un pizzico di ironia, ha persino fornito nella versione DVD americana e inglese 10 indizi su cui lavorare.
C’è una scena che cita spesso nelle sue interviste e, confesso, sono stata anch’io al suo gioco. La protagonista Betty/Diane arriva a LA dopo aver vinto una gara di jitterbug e, prima dei titoli di testa, un gruppo di ballerini si muove proprio a ritmo di swing: questa scena, secondo Lynch, fornisce al pubblico una guida importante per interpretare il film (3)
https://www.youtube.com/watch?v=_s6vFmk7fkE
L’origine del nome Jitterbug - lo swing ballato dai bianchi che si distingue dal Lindy Hop ballato dalla popolazione afro-americana - fa riferimento alle movenze sobbalzanti da alcolizzati che lo caratterizzano (jitter in slang vuole dire proprio alcolizzati).
Non può essere un caso che questa frenetica danza venga scatenata dalla strega dell’Ovest grazie a un insetto che punge Dorothy e i suoi amici in una scena tagliata del film “Il mago di Oz” del 1939.
https://www.youtube.com/watch?v=UB9BdxPDCwQ
“Who's that hiding in the tree top? It's that rascal The Jitterbug” canticchiano i protagonisti.
Le citazioni esplicite al mago di Oz non si fermano qui (anche su questo ci sono fiumi di inchiostro in rete). Il diner in cui si nascondono gli incubi di uno dei personaggi (e forse anche della protagonista) si chiama Winkie’s, come la terra dell’Ovest (la west coast?) del mondo di Oz. E sempre Diane si rifugia in un sogno per ricostruire una realtà che le faccia giustizia, un po’ come la piccola Dorothy. E via di questo passo…
Tornando alla scena di apertura del film, lo stimolo di Diane a coltivare il sogno di Hollywood sembra scatenato da una presenza superiore - quel mascalzone Jitterbug - che porta la protagonista a sbarcare a LA carica di aspettative e a iniziare questo ballo da alcolizzati senza senso che - non lo dimentichiamo - precede i titoli di testa e quindi l’inizio dell’illusione.
Ed è forse proprio questa presenza, questo “motore immobile” che la macchina da presa sottintende quando sembra mostrarci in soggettiva un osservatore esterno che guarda, senza manipolarla, la realtà come durante la cena a casa di Adam o prima dell’entrata al Club Silencio.
https://www.youtube.com/watch?v=s7APm2sh4Ao
A questa “presenza” se ne contrappone un’altra - frutto della mente di Diane - personificata da due figure: il cowboy interpretato dal produttore Monty Montgomery e il nano già protagonista di Twin Peaks Michael J Anderson che ordinano al regista Adam di preferire la meno talentuosa - secondo la versione di Diane - Camille per la parte da protagonista del film “Sylvia North Story” (4).
Ci sono due differenze concettuali importanti da sottolineare: il ballo scatenato della scena che precede l’inizio del film non ha nessuno schema, non ha un raziocinio e il Jitterbug o la strega dell’Ovest ne sono solo causa scatenante, mentre il cowboy così come il nano che sembrano tessere le fila della disfatta di Diane impartiscono ai loro scagnozzi precise istruzioni. Hanno una volontà precisa le cui motivazioni noi non conosciamo.
Chiusa nella sua stanza, Diane sembra aver ripercorso in modo ossessivo il suo passato e le motivazioni del suo fallimento andando a nascondersi dietro la spiegazione che una mente superiore sia la causa di tutto. La stroncatura della sua carriera, ai suoi occhi, non è un caso: lei è vittima di un destino preordinato.
Ma Lynch sembra dirci chiaramente chi è “la causa di tutto”:
https://www.youtube.com/watch?v=UozhOo0Dt4o
È il barbone dietro a Winkie’s - il Bob di Twin Peaks che vive nelle strade di Los Angeles - e cioè le ossessioni, le invidie, le gelosie, le paure, i sensi di colpa di Diane stessa.
Anche perché, come ci rivela il cowboy Deus Ex-Machina, “Gli atteggiamenti di un uomo determinano in qualche modo la sua vita”. Non è la sua buona fortuna a determinarne il suo percorso terreno, ma come si pone nei confronti del mondo. La sua attitude.
https://www.youtube.com/watch?v=Fd5HEJdcBwM.
La felicità, di un uomo nel mondo sembra quindi passare secondo il regista dalla capacità di liberarsi dalle ambizioni contingenti e dalla ricerca di un equilibrio.
“Mulholland Drive” si trasforma così in un monito per tutti coloro che non ce l’hanno fatta (quanti ne deve aver conosciuto che servivano ai tavoli, si prostituivano, erano diventati barboni dopo aver coltivato sogni di star), uno stimolo a guardare oltre la superficie delle cose e a non affidare la propria vita all’idea del successo coltivando intanto mostri dentro di sé.
Nella loggia di Twin Peaks probabilmente non entreremo mai e non scopriremo le ragioni di ciò che ci accade (così come nessuno scoprirà la soluzione del rompicapo di Mulholland Drive!). La vita è imprevedibile, come le movenze di un ballo di ubriachi: non possiamo far altro che perderci in essa.
Anche perché perdersi, ci ricorda sempre Lynch, “perdersi è meraviglioso”.
1) L'insieme imponderabile delle cause che si pensa abbiano determinato (o siano per determinare) gli eventi della vita. Il 1 succedersi degli eventi ritenuto come preordinato e necessario, al disopra dell’umana capacità di volere e di potere.
2) Ogni persona ha la facoltà di scegliere gli scopi del proprio agire e pensare, tipicamente perseguiti tramite volontà, nel senso che la sua possibilità di scelta ha origine nella persona stessa e non in forze esterne.
3) Mulholland Drive, I sogni e la lotta ai recinti di Hollywood, Intervista di Richard A. Barney a D. Lynch.
4) Probabilmente riferimento al film Sylvia del 1965, storia a lieto finedi una poetessa dal passato torbido che sta per sposarsi con un milionario e che secondo i canoni occidentali raggiungerà i suoi obiettivi di amore e soddisfazione personale.
Pietro Scotti
HO L’IMPRESSIONE CHE NON SIAMO PIÙ A LUMBERTON…
Ormai è noto l’amore di Lynch verso il film “Il mago di Oz”, e lui lo ha citato diverse volte nella sua filmografia. Il caso più esplicito è sicuramente “Cuore selvaggio”, dove elementi ispirati a quella storia costituiscono uno dei veicoli del film. Anche nella pellicola precedente, “Velluto blu”, c’è una citazione sotto gli occhi di tutti; Dorothy è il nome della protagonista femminile, interpretata da Isabella Rossellini, la quale, tra l’altro, viene vista quasi sempre indossare scarpe rosse, che spiccano sul suo abbigliamento scuro. Ci sono però in “Velluto blu” alcuni elementi che si possono forse ricondurre ad un’altra figura del film di Fleming, ovvero il tornado: quel tornado che trasporta Dorothy (Gale) dalla fattoria nel Kansas al colorato mondo di Oz; un passaggio, dunque, quasi una porta fra due mondi diversi.
Nel film di Lynch il tornado non trasporta Dorothy (Vallens); lei è già entrata da tempo a “OZ”: in una scena vediamo la sua vestaglia, il lembo tagliato via da Frank poco prima, accanto a lei ci sono le sue scarpe rosse abbandonate sul pavimento. Non hanno funzionato, stavolta non sono bastate a riportarla a casa, e allora lei deve aggrapparsi a Jeffrey.
“Aiutami”. Ripetuto più volte, quasi sottovoce eppure quasi un grido.
È Jeffrey (e noi che guardiamo con lui) a fare il passaggio, da “questo” a “quell’altro” mondo, il mondo di sotto, il mondo degli insetti.
Jeffrey si addentrerà in quel mondo sempre di più, quasi ossessivamente giocando a fare il detective, ma anche quando il gioco si rivela per quello che è, non riuscirà a starvi lontano, è risucchiato dal tornado.
Si pensi alla forma di un tornado: è una spirale, che per sua natura guida verso il suo centro, vi guida l’occhio di chi la guarda, e quanti giochi di sguardi compaiono in questo film.
Ecco, quindi che Jeffrey trova l’orecchio: ecco il ciclone, il vortice, la telecamera entra nel foro scuro come si entra nell’occhio di un tornado.
Ma l’orecchio è solo l’inizio, Jeffrey è ben lontano dal centro, il tornado ritorna: ritorna allo Slow Club (antenato del “Silencio”), quando vediamo per la prima volta Dorothy cantare, Jeffrey è lì con Sandy, ma lei poi sparisce, per lui c’è solo la donna sul palco e nient’altro, anche i musicisti poi spariscono, rimangono loro due, avvicinati dal tornado, siamo sprofondati un altro po’.
Poi c’è l’ingresso di Frank. Frank è l’ultimo pezzo del tornado, siamo arrivati al centro: perché solo allora Jeffrey comprende il quadro degli eventi, ma capisce soprattutto chi ha di fronte, capisce di trovarsi nel buio.
“Frank è un uomo molto pericolosco”.
Per lui Frank è quanto di più malvagio esista a questo mondo, come una malvagia strega dell’ovest; strega rappresentata in “Cuore selvaggio” dal personaggio di Diane Ledd, e guarda caso sia lei che Frank fanno un uso particolare di un rossetto.
Ormai siamo in balia del vento, vento che ci viene anche mostrato, che smuove le tende rosse dell’appartamento di Dorothy, al suo secondo incontro con Jeffrey, e pure al terzo, che è anche l’incontro del ragazzo con Frank (e quante volte vediamo salire le scale per quell’appartamento, che non sono le scale dritte di un vialetto ben curato, sono un’altra spirale, un altro tornado). Il vento continua a turbinare.
Poi Jeffrey scopre che nessun posto è bello come casa, e allora sceglie Sandy, non Dorothy, ed esce dall’orecchio, esce dal tornado, tutto finisce nell’appartamento, dentro c’è un uomo con una giacca sgargiante come un uccellino dal bel piumaggio, e il petto coperto di sangue.
“Sono arrivati i pettirossi”.
E allora magari non c’era stato alcun passaggio, e non c’era bisogno di tornare a casa, Jeffrey c’è sempre rimasto, era sempre il suo mondo, quello che vede tutti i giorni guardando fuori dalla finestra.
Simona Bassano
“PHILADELPHIA IS PERCOLATING IN ME”: UNA PASSEGGIATA SBILENCA PER LE STRADE DI DAVID LYNCH
Philadelphia è, secondo quanto dichiara Lynch, la città che ha influenzato più di ogni altra il suo cinema e, più in generale, la sua arte - quadri, disegni e animazioni. Questo luogo, se da una parte ha alimentato in lui inquietudini e paure, dall’altro ha evidentemente esercitato una dirompete e irresistibile forza attrattiva.
Come accade, dunque, che la città dell’amore fraterno possa trasformarsi in un incubo tanto duraturo e tanto fertile?
Come molte delle grandi città americane, il tessuto urbano di Philadelphia si compone in un complesso patchwork fatto di salti che potremmo definire psicogeografici e che, se ci si abbandonasse a una ipotetica e ciondolante deriva debordiana, ne rivelerebbero le molte incongruenze e contraddizioni.
“Philadelphia is percolating in me”. Questa è l’espressione utilizzata da Lynch per definire il suo rapporto con la città.
Capisco esattamente cosa intenda, perché dopo averci soggiornato, anche se per un tempo limitato, non sono mai riuscita a scrostarmela di dosso. Diversamente dal regista americano, però, Philadelphia è per me la città del desiderio, la mia Los Angeles, l’altro-dove in cui spesso ho fantasticato di reiventarmi, un po’, appunto, come in un film.
Una vita bo-bo, ambizioni vagamente anarcoidi che incontrano e sposano il proprio feticcio nella gestione della Wooden Shoe Library & Records, il fervore ipercinetico delle comunità artistiche di South Street che vivono tutto attraverso la lente (marginale) della riappropriazione. Degli spazi, della vita, della libertà dai processi di sussunzione esistenziale. Se fossi un protagonista di un film di Lynch, il senso di colpa per il tradimento che infliggo ogni giorno a me stessa nei compromessi che accetto, si trasformerebbe in un altro io che probabilmente avrebbe terrorizzato lo stesso Lynch ai tempi in cui ha vissuto in quella città.
Eppure, il rapporto che Lynch ha con Philadelphia, seppure mai didascalico, nella sua dinamica attrattivo-repulsiva, non ha mai avuto la necessità di sublimarsi. Trasfigurarsi certo, ma piuttosto in maniera simbolica.
Philadelphia è la città delle piaghe, che disgustano perché esposte, eppure, come lui stesso sostiene, se le guardi da vicino, persino il pus perde la sua carica orrorifica, perché ne capisci la natura e ne apprezzi, restandone sedotto, la materia organica.
Di questo è fatta la città per Lynch: muri scuri, coperti di fumi industriali, strade desolate, edifici diroccati, grandi fabbriche minacciose quanto imponenti, finestre da cui i visi appaiono come fantasmi (come la Mary di “Eraserhead”) e case di mattoni, che per Lynch non davano protezione dal mondo esterno più di un foglio di carta.
Questo è forse allora il modo in cui prendono vita quelle “idee” di cui Lynch dice comporsi il suo cinema e, insieme a quelle, i suoi protagonisti. Essi si generano nell’intercapedine di questo doppio strato.
La città è immobile e spaventosa, ma, se ti avvicini abbastanza, brulica di vita. Questa potenza creativa potrebbe essere allora quella che feconda i suoi soggetti, che con incomprensibile naturalezza proseguono a zig zag, spinti da pulsioni sensuali, a colori, erotiche e fibrillanti, cui si contrappongono pulsioni distruttive, che si depositano e si stratificano in una ragnatela che incastona ogni sorta di bruttura.
Questo processo mi pare si replichi con costanza e similitudini non trascurabili da film a film, sia quando si tratti di personaggi che nascondono un segreto che li divorerà dal di dentro (Fred/Pete, Betty/Diane), sia quando il doppio fondo che hanno cercato di celare sarà loro fatale (Renée/Alice, Nikki/Sue). Persino, forse, quando restano in qualche modo coerenti con i propri desideri di vita e di morte (Henry e Mary, i quali non tradendo i propri istinti, ma appagandoli nonostante tutto, non hanno bisogno di un esplicito doppio trasfigurativo). Per tutti loro (noi?) avanzare è una battaglia perpetua tra luce e ombra, tra il colore e il nero, un percorso interstiziale tra la caligine e i muri.
In questa lotta circolare che crea infiniti cortocircuiti, si potrebbero collocare i sorrounding di Aspen Street - strada che ospitava la casa di Lynch, probabilmente ora del tutto gentrificata - e gli enormi coloratissimi murales dei quartieri a sud est della città di Philadelphia. Poche miglia di distanza e il brulicante che fa orrore si è trasformato in un luogo che reinterpreta la materia, creando colore dal nero, luce dal buio.
Mi chiedo ancora, allora, se non sia un ritorno circolare perfetto anche quello che collega le atmosfere angoscianti, piombate nel nero e nel grigio asfissiante, di “Eraserhead” - suo primo lungometraggio - e le pareti scrostate di verde di Lodz - dove ha scelto di girare parte di “Inland Empire”, suo ultimo film - i suoi edifici scalcinati e tetri, che si aprono come quinte di un infinito backstage che conduce sempre su un altro-dove, matrioska-matriarca di paure e aspirazioni.
Chissà se Lynch ci ha mai pensato, però, che a Ludz, come a Philadelphia, c’è un intero isolato brillante di luce, composto di edifici le cui mura esterne (ancora un doppio strato!) sono per intero ricoperte da un mosaico fittissimo di specchi, che non poco ricorda il magico intrico di tasselli che riveste l’inatteso mondo nascosto dei Magic Garden di South Street...
Diletta Bisio
UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO: LA TEMATICA DELLO SGUARDO IN VELLUTO BLU
Entrare nei pertugi. Spiare, guardare, osservare di nascosto. Chi è dalla parte del torto? Chi commette orrori nel buio della notte, o chi osserva in silenzio?
Davanti a tale quesito siamo posti noi spettatori, guardando “Velluto blu”. Un film dove il calare del crepuscolo dà inizio a spettacoli tragici, che mettono a nudo le menti umane più contorte.
È dalla scena iniziale che il regista mette in chiaro la sua tesi: nulla è realmente ciò che sembra.
La musica è spensierata, il cielo è azzurro e la comunità di paese si rilassa dedicandosi alle tipiche attività quotidiane. Dietro alla facciata, di per sé ordinaria e tranquilla, l’occhio coglie i primi elementi dissonanti, e di colpo, l’uomo che annaffia il prato ha un attacco di cuore. La macchina da presa si insinua poi tra l’erba, e va nel terreno sottostante dove degli insetti lottano tra loro. Viene mostrata la violenza, il ripugnante, ciò che non trova spazio alla luce del sole. Sin dai primi minuti lo spettatore si è reso testimone di qualcosa di altamente disturbante.
A essere testimone di scene disturbanti è anche lo stesso protagonista, Jeffrey Beaumont.
La storia inizia quando Jeffrey scova tra l’erba un orecchio mozzato. Con la macchina da presa siamo guidati all’interno di essa, fino a vedere il buio totale. Tramite l’orecchio si crea un portale, con cui accediamo alla fase successiva del film, quella più oscura.
Dall’armadio dove si nasconde il protagonista, nella casa della cantante Dorothy, il suo sguardo ci svela le perversioni a cui sono sottoposti i personaggi di Dorothy e Frank, il cattivo del film, colui che incarna, tra tutte le pulsioni freudiane rappresentate da Lynch, il complesso di Edipo.
Lo sguardo celato di Jeffrey, condiviso con noi spettatori attraverso la macchina da presa, opera una sorta di rivelazione del noumeno, in termini kantiani. Di ciò che è, senza filtri. Così, la violenza e le inquietudini, nascoste da un’ovattata e ipocrita perfezione possono venire allo scoperto.
Lo spettatore in "Velluto blu" è complice. Complice di chi ha il potere, e di chi, alla resa dei conti, vince. Lo vediamo nella scena finale, Jeffrey è ancora nell’armadio e ha il potere dello sguardo sul nemico.
Frank, che al contrario non può vedere Jeffrey, si aggira armato per le stanze cercandolo, minaccioso, ma impotente. È questione di attimi, di trattenere il respiro per un paio di secondi, poi improvvisamente un proiettile attraversa la fronte di Frank, e il duello si conclude.
Per una notte gli esseri umani hanno agito come gli insetti che vediamo quando la macchina da presa si insinua sotto l’erba, lottando nel buio, facendo emergere il loro lato più selvaggio.
“Velluto blu” si conclude com’è iniziato, con una circolarità che appare come un risveglio da ciò che si potrebbe reputare un incubo. Il padre di Jeffrey, l’uomo che all’inizio del film è vittima di un attacco di cuore, torna nel suo cortile, ed esordisce con: “Mi sento molto meglio.”
Il primo piano stringe sul viso di Jeffrey, portando alla luce un’ultima volta il suo sguardo, ciò con cui è iniziato tutto. Ciò che l’ha coinvolto in situazioni spinose, e ciò che, alla fine dei conti, l’ha salvato.
Giuseppe De Santis
DAVID LYNCH E .... MICROCOSMO
David Lynch ha sempre dichiarato che senza la meditazione trascendentale, oggi probabilmente non esisterebbe nemmeno il suo esordio cinematografico, “Eraserhead” (1977). La meditazione lo ha accompagnato dentro la sua anima e gli ha fatto trovare la sorgente da cui sono emerse le sue migliori idee. Una fonte inesauribile di energia positiva e di creatività.
Esistono dei princìpi che si ripetono con diverse affinità in molte delle religioni, filosofie e discipline orientali, come quello del collegamento fra macrocosmo e microcosmo, quello della non dualità di vita e ambiente circostante e quella dell’inscindibilità di Bene e Male.
Essi affermano quanto la nostra vita personale sia indissolubilmente collegata all’universo che ci circonda e come, attraverso la pratica della meditazione e della preghiera, l’una possa influenzare l’altro a seconda del nostro stato vitale.
Basandosi su questo breve assunto, ci si potrebbe domandare quanto il cinema di David Lynch possa aver beneficiato di questa concezione della vita e quanto essa sia stata incanalata nei suoi personaggi e nelle sue storie.
Probabilmente la risposta è: molto più di quanto sembri.
Personaggi, decisioni, spirali, alter ego.
Gli esempi lynchani affrontabili a partire da questo chiasmo sarebbero molti, ma in questo breve spazio possiamo limitarci a pensare agli esempi più evidenti.
Per assonanza con la logica buddista cui spesso fa riferimento, il più lampante è ovviamente l’agente Dale Cooper, protagonista di “Twin Peaks”. Cooper spesso ricorre ad un istinto irrazionale sopito dentro di sé per avvicinarsi all’assassino di Laura Palmer e questo istinto tende a colmarne la lacuna razionale attraverso lo spazio del sogno. Ecco quindi che le conseguenze delle sue riflessioni e conseguenti azioni si manifestano sia con nuovi incontri nel suo inconscio, sia nell’ambiente a lui circostante. La concretizzazione di maggior impatto di questo concetto è nella rivelazione del colpevole su cui tutti, sia cittadini di Twin Peaks, sia spettatori dello show, si stavano interrogando da diverse puntate.
Come arriva Cooper all’Illuminazione? Radunando intorno a sé (il microcosmo) tutti i principali attori della tragedia in atto, sia dalla parte dei buoni, sia da quella dei sospettati (il macrocosmo). Andando a riunire quei puntini che generano quella non dualità di cui abbiamo accennato, può finalmente manifestarsi di nuovo la vita nella sua interezza: Laura Palmer gli sussurra all’orecchio il nome dell’assassino, il gigante gli restituisce l’anello (metaforicamente e fisicamente mancante) sottratto in sogno, la sua razionalità e astuzia completano il quadro che porta all’incarcerazione del colpevole. Dal profondo verso la superficie, dal piccolo verso il grande, dal nano/demiurgo che balla nella loggia al gigante/rivelatore che rimane immobile come un faro.
Il percorso del nostro protagonista, tuttavia, dimostra anche come le decisioni influenzino gli universi nei modi che meno vorremmo. La sua reclusione nella loggia nera, infatti, dà luogo al cortocircuito necessario a bilanciare il Bene e il Male: il Cooper-Bene che è riuscito a sconfiggere l’entità maligna di Twin Peaks viene sostituito dal Cooper-Male che, come scopriamo nella terza parte della serie, vaga insospettato per il mondo come a voler riequilibrare la troppa Luce creatasi gettando le Ombre necessarie.
Lo sviluppo della terza stagione ci dà modo di ragionare ulteriormente sul concetto di microcosmo e macrocosmo, anche uscendo dal solo universo dei protagonisti della serie.
Nani, giganti, Laura, Bob.
Ancora un chiasmo, un anello le cui estremità si fondono indissolubilmente. La figura del nano ci risulta la mente dietro la loggia nera, un luogo sepolto nella profondità di un bosco in cui impera il demiurgo di quella parte di mondo dove, ogni tanto, appare una televisione.
Al contrario, il gigante che aiuta Cooper vive in un faro, un luogo rialzato e fonte di luce in cui troviamo lo schermo di un cinema. È individuabile l’allegoria meta-narrativa del rapporto tra piccolo e grande schermo che David Lynch ha sempre portato avanti segnalandoci qui, tra le righe, la sua evidente preferenza e, in qualche modo, un’ennesima visione di micro e macrocosmo.
Il gigante, dal suo punto di osservazione, assiste alla creazione del Male, incarnato in Bob che nasce dallo scoppio di una bomba atomica. Per reazione, egli decide di creare il Bene assoluto, Laura Palmer, “incubata” una sfera d’oro che viene mandata nel mondo. Di nuovo, l’equilibrio può ristabilirsi, ma le forze sono sempre in collisione tra loro nei modi più sottili e subdoli, nel cinema di Lynch.
L’essere umano aspira al Bene assoluto e, nel corso di “Twin Peaks”, ancora una volta l’agente Cooper deve cercare di risolvere un mistero del tutto diverso, muovendosi tra mondi diversi che altro non sono che menti diverse. È tutto un sogno, ma “chi è il sognatore?”
Forse siamo noi spettatori che, come l’amato protagonista, condividiamo quell’aspirazione al Bene e forse è proprio per questo che, nella Parte 17, ci emozioniamo così tanto nel vedere i colori tornare e nel sentire quelle due linee di dialogo tanto semplici, quanto indimenticabili:
Laura: “Dove stiamo andando?”
Cooper: “Andiamo a casa”.
Il cortocircuito, tuttavia, è già in atto da qualche tempo. Bob è stato sconfitto, ma la sua dipartita ha portato uno squilibrio nell’universo, o negli universi.
Proprio nell’ultima scena, Cooper probabilmente pronuncia la sua unica frase sbagliata. Egli infatti domanda a Laura: “In che anno siamo?”. Probabilmente, il giusto dubbio da porsi sarebbe stato: “In che mondo siamo?”. Nichiren Daishonin, monaco buddista del XIII secolo, in una delle sue lettere più importanti scrisse ad un fedele: “Considera allo stesso modo sofferenza e gioia”. Utilizzando questo punto di partenza potremmo provare a rispondere all’agente speciale dicendogli che si trova in un mondo in cui il Male supremo è stato sconfitto. Tuttavia, se uno degli estremi non esiste, non può esistere nemmeno l’altro, poiché l’universo deve avere un equilibrio perfetto.
Forse è proprio per questo che Laura grida disperata, che le luci della casa si spengono e, con esse, anche lo schermo della nostra tv diventa nero. Lei, Bene supremo, deve pur fare da contrappeso all’assenza di Bob e tornare a vagare nell’oceano infinito che è la coscienza dell’uomo, dell’universo, di David Lynch, di noi spettatori attoniti e atterriti.
Alberto Martelli
TWIN PEAKS: “CONCETTI SPAZIALI”
David Lynch nasce il 20 gennaio 1946 a Missoula; a causa della professione del padre il giovane visionario è costretto a spostarsi in tutto il paese, in particolare verso est. La Virginia rappresenterà una tappa fondamentale della sua vita, proprio in questo stato conoscerà Toby Keeler [figlio di Bushnell Keeler di professione pittore]. Sarà proprio in questo clima che David comincerà a catalizzare la sua propensione verso l’arte, in particolare la pittura.
Gli interessi per l’arte pittorica lo portano a frequentare la Corcoran School of Arts, e in seguito School of the Museum of Fine Arts di Boston, ma vi rimase solo un anno. Segue un suo viaggio in Europa per studiare il pittore espressionista Oskar Kokoschka.
David Lynch matura in un contesto molto importante, sono gli anni della diffusione della corrente del movimento informale che si sta diffondendo in tutto il globo, e darà via a tutta una serie di interpretazioni a seconda di ogni paese. Questa corrente durerà circa un trentennio.
Nell’informale lo “spazio” diventa uno degli elementi cardini della ricerca di molti artisti contemporanei. Il viaggio rappresenta una delle esperienze portanti per la formazione intellettuale dei maggiori protagonisti dell’informale internazionale. L’esperienza di Pollock matura con i suoi viaggi nell’Arizona e in California, Burri dal suo periodo di prigionia in Tunisia fino alle distese del Texas infine Lucio Fontana con il suo viaggio a New York nel ’58 [rimase impressionato dalla città e soprattutto dai grattacieli che li comparò a delle cascate di cristallo].
La vocazione per l’arte e i suoi viaggi saranno sicuramente una componente fondamentale per il suo sviluppo artistico [la giovinezza passata a contatto con i boschi], come la pratica della meditazione trascendentale che richiama alcuni aspetti della scrittura automatica di André Breton [manifesto surrealista del 1924].
L’intera opera di “Twin Peaks” si basa sul concetto di “spazio”, questo termine viene espresso attraverso linguaggi differenti.
A partire dall’inizio con la prima puntata, possiamo assistere a uno spazio tipo “giurisdizionale”. A seguito della morte di Laura Palmer, l’FBI manda il suo agente Dale Cooper a indagare sulla morte della giovane. Il dialogo che avviene tra lo sceriffo Harry Truman e Cooper è semplice e chiaro. In sintesi dal momento in cui l’FBI interviene prende il controllo di tutto e subordina la polizia locale al suo comando. Dopo pochi istanti lo spazio formale lascia il posto a quello informale, l’agente Cooper cambia tono di voce, diventa meno austero, più poetico e più sensitivo, chiede al poliziotto come si chiamano gli alberi grandi e maestosi che si trovano all’ingresso della cittadina. Questo sarà solo il preambolo di una splendida amicizia che sta nascendo.
A seguito della morte di Leland Palmer si susseguono tutta una serie di fatti che portano a dei veri e propri conflitti giurisdizionali. L’agente Cooper diventa vittima di un complotto ordito contro di lui su un presunto traffico di droga, i fatti si svolgono al confine della cittadina con il Canada, le autorità canadesi cercano di far valere i propri diritti.
L’amena cittadina di Twin Peaks è un concetto spaziale, non solo perché è il luogo cardine in cui si narrano i fatti di questa vicenda ma poiché essa ci offre un repertorio straordinario che ci aiuta a comprendere al meglio la poetica “Lynchiana”.
Twin Peaks è la classica cittadina di provincia, molto distante dai grandi poli urbanistici che saranno presenti nella terza stagione, come New York e Las Vegas. Ne consegue che questo distacco dal mondo contemporaneo, porta con sé tutta una serie di fattori molto importanti che aiuteranno ad analizzare questi concetti.
In primo luogo, i personaggi che ruotano attorno alla vicenda sono quasi tutte persone tipiche della provincia che si contrappongono in maniera molto marcata rispetto a quelle che vivono in città. La massima espressione di questo distacco la notiamo nella persona di Albert Rosenfield, il patologo della squadra di Gordon Cole. Non appena Albert arriva a Twin Peaks tratta con disprezzo chiunque sia coinvolto nel caso e non solo, poiché egli vede in tutti i cittadini dei “primitivi”. In questo caso la mentalità della città cerca di prevaricare quella della provincia montana, per cui si assiste a una vera invasione di campo. Lo scontro giunge al culmine con il Dr. Will Eward, poiché i due uomini di scienza si scontrano sul medesimo terreno di lavoro, ne deferisce che Albert è specializzato proprio in questo campo scientifico, mentre il Dr. Eward pratica autopsie di rito e non è abituato a fare ricerca in casi così complessi. Inoltre Albert è decisamente più aggiornato sulle più moderne tecniche d’indagine e gode del pieno supporto del dipartimento centrale dell’FBI. Saranno proprio questi poli contrapposti a generare ripudio in Albert nei confronti del Dr. Eward e della sua comunità.
Esistono anche degli spazi imposti dalla mente, Harold Smith ne è un caso particolare. Harold è un ragazzo estremamente sensibile e allo stesso tempo cela dentro di sé delle oscure perversioni. Il giovane soffre di agorafobia [malattia psicologica che genera disturbi in funzione di spazi aperti e non conosciuti], il ragazzo non può uscire di casa, soltanto il pensiero lo manda in panico. Potrebbe essere un vincolo imposto dal regista, in modo da metterlo in condizione da non cambiare il corso degli eventi dato che è in possesso del diario di Laura Palmer e di altre ragazze.
La Loggia Nera, vera rosa dei venti culturale di questo universo è il concetto spaziale portante di quest’opera. La loggia si pone come un’intercapedine tra il mondo di Twin Peaks, dove è incentrata la vicenda e altre infinite dimensioni. Una perfetta sintesi tra il tempo e lo spazio [di fatto Mike lo chiama un “negozio conveniente”, ovvero un modo per descrivere il loro habitat, una dimensione che collega più dimensioni. Di fatto queste entità vanno e vengono attraverso queste pareti dimensionali, distorcendo in alcuni casi il tempo e lo spazio di alcuni ambienti, come accade al Bang Bang Bar durante l’assassinio di Maddy].
La prima volta che la loggia compare è all’inizio della prima stagione, ma la vediamo all’interno di un sogno di Cooper, che a sua è un’altra dimensione in qualche modo connessa alla loggia. Soltanto con il progredire della vicenda e dopo una serie di accurate indagini, si scoprirà l’esistenza della loggia. Sarà proprio Hawk a dare definizione di questo ambiente, specificando che oltre alla loggia nera esiste anche la loggia bianca. Secondo il poliziotto di origini indiane, “la Loggia Nera è quel posto che viene definito il limite estremo e dove si può incontrare “l’ombra” che ti appartiene”, mentre la “loggia bianca è quel luogo dove dimorano gli spiriti che governano l’uomo e la natura”.
Alla fine della seconda stagione Cooper nel tentativo di salvare Enny dopo un inseguimento nei boschi varcherà la soglia della Loggia Nera. Con un gesto molto intenso Cooper apre le tende rosse che si pongono di fronte a lui, un movimento estremamente cauto ma intenso che ricorda un po’ Lucio Fontana nel ciclo de “le attese” del ‘1958. Ricorda Ugo Mulas che durante i suoi scatti, l’artista argentino impiegava moltissimo tempo per trovare il punto d’origine del taglio, il tempo impiegato per trovare questo punto rientra nell’analisi dell’artista argentino. Una volta eseguita l’opera il taglio definisce il limite tra pittura e scultura, fondendo le due concezioni in unico campo. Il nero del taglio rappresenta il limite estremo del concetto dimensionale [Fontana nel ’59 aveva realizzato una serie di opere legate al mondo dell’energia chiamate i Quanta. L’energia funge da elemento conduttore nell’opera di Lynch].
L’interno della Loggia Nera è un ambiente metafisico, costituito da pochi elementi, subito all’occhio spicca il pavimento a zig-zag che vuole simboleggiare il tema del doppio [luce – oscurità / bene – male / giorno – notte], elemento ricorrente in tutta l’opera. Seguono delle tende rosse che imperano in tutto l’ambiente e dividono il corridoio dalle varie “sale d’attesa” che tendono a ripetersi all’infinito. Infine pochi elementi d’arredo che servono a giustificare l’identità della loggia [seppur in modo approssimativo]. L’occhio viene catturato immediatamente da una statua classica che sembra raffigurare una Venere, delle poltrone e delle lampade [ricordano la lampada Sanremo] in stile kitsch-afro concorrono a delineare questa sala d’attesa.
La Loggia rappresentata attraverso delle tende è un modello già presente in alcuni allestimenti degli anni sessanta. Alcuni studi d’architettura [ricordo Archizoom – Archigram – Superstudio] utilizzavano questo espediente per creare dei luoghi dimensionali, in modo da coinvolgere il fruitore all’interno delle proprie creazioni e poterlo isolare totalmente dal mondo esterno [posso citare in particolare il Padiglione per Meditazione del ’67 - Poltronova Agliana]. Sempre in campo espositivo il Padiglione di Barcellona (1929) di Ludwig Mies van der Rohe ne è un grande esempio ospita al suo interno una statua femminile in bronzo (Der Morgen – Il Mattino) di Georg Kolbe. Questo spazio espositivo è ricoperto da lastre di marmo, lastre di opalina e da una grossa lastra di vetro smerigliato. Interviene una tenda di seta rossa che aiuta ad accentuare l’alchimia dello spazio e la sua funzione.
Nella loggia Cooper incontrerà personaggi bizzarri come un nano e un gigante, fino ad incontrare alcuni protagonisti della vicenda come Leland, Laura, Maddy e Annie. Particolare molto interessante è il biancore sugli occhi presente in Laura e Leland, questo colore denota una percezione spaziale molto diversa rispetto a quella dei normali protagonisti. Questi sono gli occhi di chi vede lontano, questo particolare è un prestito che deriva dal cinema italiano in particolare da Lucio Fulci ne (...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà – 1981). In questo film i guardiani dell’eterno e i condannati subiscono questa metamorfosi oculare a seguito della rottura tra la dimensione reale e quella infernale. In questo film abbiamo situazioni che richiamano alcuni concetti legati al mondo della loggia e a tutto quello che vi ruota attorno. Di fatto lo spettatore è coinvolto in più realtà, si passa da una realtà lineare a una realtà passata fino a giungere a una dimensione infernale, non è la prima volta che Lynch guarda al cinema di Fulci. Un articolo del Times [New York Times – David Lynch Weaves Film History Into ‘Twin Peaks: The Return’ - Glenn Kenny – 13/07/2017] riporta all’attenzione la violenza dello spappolamento del cranio [nella famosa puntata n. 8] e alla conseguente fuoriuscita di quella “massa informe”, questi elementi sono canonici del repertorio fulciano [vedi Paura nella città dei morti viventi – 1980]. La massa rappresenta in toto la scrittura della violenza in senso artistico, attraverso la pittura i materici dell’informale francese [Es. Jean Fautrier] davano sfogo al proprio repertorio in maniera analoga.
La Loggia è anche un confine naturale, e per la legge degli opposti esiste anche un accesso artificiale [che io definisco ipercubo – ovvero un postulato teorico della fisica quantistica]. Quest’ ultimo compare all’inizio della terza stagione, ed è ubicato all’interno di un appartamento ed è sorvegliato da un giovane ragazzo che deve solo osservare cosa accade al suo interno. Non è specificato chi abbia costruito questa tecnologia né chi sia il proprietario, il tutto rimane un’incognita ma è chiaro che funga da vaso comunicante con la loggia e le sue dimensioni. Il cubo lo ritroviamo [in dimensioni più ridotte] anche in “Mulholland Drive” (David Lynch – 2002) seppur abbia una funzione simbolica per il passaggio dalla dimensione del sogno a quello della realtà. Il concetto dei vasi comunicanti culturali è una delle prerogative del movimento informale, così come la bomba atomica presente nella puntata n. 8 è uno dei simboli-manifesto di questo movimento, segue il micromondo visibile al microscopio elettronico, sono tutti elementi che cambiano la concezione dello spazio sia in termine di grandezza che piccolezza. Lo stesso micromondo visibile dopo l’esplosione di Alamogordo (16/07/1942) che illustra il genoma di Bob e la sua nascita.
L’universo narrato in Twin Peaks occupa uno spazio ben preciso, esiste anche il “non raccontato”. Ovvero quel confine che separa l’elemento visivo/narrativo da tutto ciò che non è narrato. Questa situazione la vediamo nella terza stagione quando il Bob-Cooper (o Cooper-Villain) è in cerca di alcune coordinate GPS che conducono a uno degli accessi “dimensionali”. Il Bob-Cooper porta con sé Richard e lo usa come cavia, e soltanto dopo averlo spinto a raggiungere la sommità di una roccia Richard sarà folgorato e disintegrato. Oltre c’è solo il nulla, ciò che il regista non racconta c’è solo l’inaccessibile. Quel limite di cui Omar Calabrese tratta nei suoi saggi sulla fotografia.
Caso analogo lo vediamo nel finale, quando Cooper e Diane oltrepasseranno quel limite, solo che le coordinate saranno quelle giuste e sarà così che li ritroveremo in una nuova realtà [la nostra realtà, una realtà passata televisiva]. Soltanto che Cooper si chiamerà Richard e Diane sarà Linda. Questo ci mostra il DNA della serie, ovvero quell’enzima quantistico che non appartiene solo a questa serie ma all’intero mondo del cinema, poiché è la sua natura. Questa peculiarità è ben evidente poco prima del passaggio di Dougie Jones (dopelanger) a Dale Cooper. Dougie-Cooper sta guardando “Viale del Tramonto” (Billy Wilder – 1950) sente il nome di Gordon Cole e proprio in quel momento scatta l’illuminazione che lo porta a prendere la scossa in modo da potersi ridestare [questo ci insegna che possono esistere infinite possibilità di Gordon Cole]. Inizialmente Dougie era proprio un possibile opposto di Cooper, nei pochi minuti in cui lo vediamo scopriamo un uomo sovrappeso, dedito al gioco e al sesso facile. In sostanza è tutto l’opposto di Cooper, così come il duo Laura Palmer – Maddy Ferguson, due personaggi molto opposti e interpretati dalla stessa attrice (Sheryl Lee).
Straordinario è il caso dei coniugi Ed e Nadine (Everett McGill - Wendy Robie). Nella serie sono due bravissime persone di provincia, che praticano una vita onesta seppur Nadine sia una persona apparentemente folle e dotata di una forza straordinaria, inoltre a seguito di un trauma la sua personalità si sdoppierà ancora [Nadine era una persona normale prima dell’incidente che ha subito]. Nel film “La Casa Nera” di Wes Craven (1991) Ed e Nadine impersonano una coppia di psicopatici dediti alla violenza e alla ricchezza, l’esatto opposto di quello che vediamo in Twin Peaks. Questo esempio mette ben in evidenzia la pluralità che il cinema riversa sugli attori.
Lynch ci insegna che i corpi sono dei ricettacoli vuoti che vanno riempiti con l’anima dei protagonisti che vi vogliamo inserire, Dougie Jones è sicuramente il caso più importante dell’intera vicenda. Dougie Jones mutua da Doug Jones, attore statunitense noto per aver interpretato numerosi personaggi realizzati in Computer Graphic grazie alla tecnica CGI, quest’ultima permette di occultare totalmente l’attore e generare una forma completamente nuova [Doug Jones non lo vediamo mai, al suo posto abbiamo forme umanoidi fantastiche]. Dougie è stato creato per permettere a Cooper di ritornare e compiere la sua missione.
La spazialità dell’attore mette in luce anche altri linguaggi a dir poco straordinari. Uno dei più importanti è il concetto di divismo che vediamo esaltato nelle figure di Laura Palmer e del suo opposto Audrey Horn, due ragazze estremamente belle ma molto diverse sotto ogni aspetto. Queste due ragazze molto distanti tra loro rappresentano due poli estremi della sensualità femminile all’interno di quest’opera, di fatto tutte e due le ragazze hanno avuto dei trascorsi all’One Eyed Jacks casa da gioco e di piacere oltreconfine. L’immagine di Laura Palmer sembra quasi una proiezione di Marilyn Monroe, di fatto era la ragazza più desiderata dai giovani e meno giovani di tutta la contea e la sua morte ricca di misteri ha qualche similitudine con quella dell’attrice statunitense divenuta sex symbol tra gli anni ‘50 e gli anni ’60.
David Lynch è un regista straordinario, utilizza scritture differenti su più livelli narrativi. Lo spazio cinematografico con i suoi limiti, sono gli elementi ricorrenti della sua ricerca. In modo analogo si è mosso in questi ultimi anni Hideo Kojima [uno dei più grandi sviluppatori di videogames di questo tempo, noto per il suo saper fondere cinema e mondo videoludico], con Death Stranding l’autore giapponese introduce la spiaggia, che ha una funzione molto simile a quella della loggia. Egli ripercorre le orme di Lynch ma con nuovi mezzi.
David Lynch è come Luis Barragan, è poeta di silenzi!
Paola Sangiovanni
MULHOLLAND DRIVE TRA DESTINO (1) E LIBERO ARBITRIO (2)
“Mulholland Drive” è forse l’unico film di Lynch in cui semplicità e complessità sono in perfetto equilibrio. Lo spettatore può decidere se attenersi ad una trama in cui tutti i pezzi del puzzle tornano - sebbene tra flashback e sogni lucidi - o se andare a scavare scena per scena ogni singolo fotogramma alla ricerca di interpretazioni nuove. Questo ha scatenato una vera e propria gara e fiumi di pagine di analisi alla ricerca della chiave per entrare nella mente del regista.
Aggiungiamo anche che Lynch, per fomentare ancora di più questo gioco e forse con un pizzico di ironia, ha persino fornito nella versione DVD americana e inglese 10 indizi su cui lavorare.
C’è una scena che cita spesso nelle sue interviste e, confesso, sono stata anch’io al suo gioco. La protagonista Betty/Diane arriva a LA dopo aver vinto una gara di jitterbug e, prima dei titoli di testa, un gruppo di ballerini si muove proprio a ritmo di swing: questa scena, secondo Lynch, fornisce al pubblico una guida importante per interpretare il film (3)
https://www.youtube.com/watch?v=_s6vFmk7fkE
L’origine del nome Jitterbug - lo swing ballato dai bianchi che si distingue dal Lindy Hop ballato dalla popolazione afro-americana - fa riferimento alle movenze sobbalzanti da alcolizzati che lo caratterizzano (jitter in slang vuole dire proprio alcolizzati).
Non può essere un caso che questa frenetica danza venga scatenata dalla strega dell’Ovest grazie a un insetto che punge Dorothy e i suoi amici in una scena tagliata del film “Il mago di Oz” del 1939.
https://www.youtube.com/watch?v=UB9BdxPDCwQ
“Who's that hiding in the tree top? It's that rascal The Jitterbug” canticchiano i protagonisti.
Le citazioni esplicite al mago di Oz non si fermano qui (anche su questo ci sono fiumi di inchiostro in rete). Il diner in cui si nascondono gli incubi di uno dei personaggi (e forse anche della protagonista) si chiama Winkie’s, come la terra dell’Ovest (la west coast?) del mondo di Oz. E sempre Diane si rifugia in un sogno per ricostruire una realtà che le faccia giustizia, un po’ come la piccola Dorothy. E via di questo passo…
Tornando alla scena di apertura del film, lo stimolo di Diane a coltivare il sogno di Hollywood sembra scatenato da una presenza superiore - quel mascalzone Jitterbug - che porta la protagonista a sbarcare a LA carica di aspettative e a iniziare questo ballo da alcolizzati senza senso che - non lo dimentichiamo - precede i titoli di testa e quindi l’inizio dell’illusione.
Ed è forse proprio questa presenza, questo “motore immobile” che la macchina da presa sottintende quando sembra mostrarci in soggettiva un osservatore esterno che guarda, senza manipolarla, la realtà come durante la cena a casa di Adam o prima dell’entrata al Club Silencio.
https://www.youtube.com/watch?v=s7APm2sh4Ao
A questa “presenza” se ne contrappone un’altra - frutto della mente di Diane - personificata da due figure: il cowboy interpretato dal produttore Monty Montgomery e il nano già protagonista di Twin Peaks Michael J Anderson che ordinano al regista Adam di preferire la meno talentuosa - secondo la versione di Diane - Camille per la parte da protagonista del film “Sylvia North Story” (4).
Ci sono due differenze concettuali importanti da sottolineare: il ballo scatenato della scena che precede l’inizio del film non ha nessuno schema, non ha un raziocinio e il Jitterbug o la strega dell’Ovest ne sono solo causa scatenante, mentre il cowboy così come il nano che sembrano tessere le fila della disfatta di Diane impartiscono ai loro scagnozzi precise istruzioni. Hanno una volontà precisa le cui motivazioni noi non conosciamo.
Chiusa nella sua stanza, Diane sembra aver ripercorso in modo ossessivo il suo passato e le motivazioni del suo fallimento andando a nascondersi dietro la spiegazione che una mente superiore sia la causa di tutto. La stroncatura della sua carriera, ai suoi occhi, non è un caso: lei è vittima di un destino preordinato.
Ma Lynch sembra dirci chiaramente chi è “la causa di tutto”:
https://www.youtube.com/watch?v=UozhOo0Dt4o
È il barbone dietro a Winkie’s - il Bob di Twin Peaks che vive nelle strade di Los Angeles - e cioè le ossessioni, le invidie, le gelosie, le paure, i sensi di colpa di Diane stessa.
Anche perché, come ci rivela il cowboy Deus Ex-Machina, “Gli atteggiamenti di un uomo determinano in qualche modo la sua vita”. Non è la sua buona fortuna a determinarne il suo percorso terreno, ma come si pone nei confronti del mondo. La sua attitude.
https://www.youtube.com/watch?v=Fd5HEJdcBwM.
La felicità, di un uomo nel mondo sembra quindi passare secondo il regista dalla capacità di liberarsi dalle ambizioni contingenti e dalla ricerca di un equilibrio.
“Mulholland Drive” si trasforma così in un monito per tutti coloro che non ce l’hanno fatta (quanti ne deve aver conosciuto che servivano ai tavoli, si prostituivano, erano diventati barboni dopo aver coltivato sogni di star), uno stimolo a guardare oltre la superficie delle cose e a non affidare la propria vita all’idea del successo coltivando intanto mostri dentro di sé.
Nella loggia di Twin Peaks probabilmente non entreremo mai e non scopriremo le ragioni di ciò che ci accade (così come nessuno scoprirà la soluzione del rompicapo di Mulholland Drive!). La vita è imprevedibile, come le movenze di un ballo di ubriachi: non possiamo far altro che perderci in essa.
Anche perché perdersi, ci ricorda sempre Lynch, “perdersi è meraviglioso”.
1) L'insieme imponderabile delle cause che si pensa abbiano determinato (o siano per determinare) gli eventi della vita. Il 1 succedersi degli eventi ritenuto come preordinato e necessario, al disopra dell’umana capacità di volere e di potere.
2) Ogni persona ha la facoltà di scegliere gli scopi del proprio agire e pensare, tipicamente perseguiti tramite volontà, nel senso che la sua possibilità di scelta ha origine nella persona stessa e non in forze esterne.
3) Mulholland Drive, I sogni e la lotta ai recinti di Hollywood, Intervista di Richard A. Barney a D. Lynch.
4) Probabilmente riferimento al film Sylvia del 1965, storia a lieto finedi una poetessa dal passato torbido che sta per sposarsi con un milionario e che secondo i canoni occidentali raggiungerà i suoi obiettivi di amore e soddisfazione personale.
Pietro Scotti
HO L’IMPRESSIONE CHE NON SIAMO PIÙ A LUMBERTON…
Ormai è noto l’amore di Lynch verso il film “Il mago di Oz”, e lui lo ha citato diverse volte nella sua filmografia. Il caso più esplicito è sicuramente “Cuore selvaggio”, dove elementi ispirati a quella storia costituiscono uno dei veicoli del film. Anche nella pellicola precedente, “Velluto blu”, c’è una citazione sotto gli occhi di tutti; Dorothy è il nome della protagonista femminile, interpretata da Isabella Rossellini, la quale, tra l’altro, viene vista quasi sempre indossare scarpe rosse, che spiccano sul suo abbigliamento scuro. Ci sono però in “Velluto blu” alcuni elementi che si possono forse ricondurre ad un’altra figura del film di Fleming, ovvero il tornado: quel tornado che trasporta Dorothy (Gale) dalla fattoria nel Kansas al colorato mondo di Oz; un passaggio, dunque, quasi una porta fra due mondi diversi.
Nel film di Lynch il tornado non trasporta Dorothy (Vallens); lei è già entrata da tempo a “OZ”: in una scena vediamo la sua vestaglia, il lembo tagliato via da Frank poco prima, accanto a lei ci sono le sue scarpe rosse abbandonate sul pavimento. Non hanno funzionato, stavolta non sono bastate a riportarla a casa, e allora lei deve aggrapparsi a Jeffrey.
“Aiutami”. Ripetuto più volte, quasi sottovoce eppure quasi un grido.
È Jeffrey (e noi che guardiamo con lui) a fare il passaggio, da “questo” a “quell’altro” mondo, il mondo di sotto, il mondo degli insetti.
Jeffrey si addentrerà in quel mondo sempre di più, quasi ossessivamente giocando a fare il detective, ma anche quando il gioco si rivela per quello che è, non riuscirà a starvi lontano, è risucchiato dal tornado.
Si pensi alla forma di un tornado: è una spirale, che per sua natura guida verso il suo centro, vi guida l’occhio di chi la guarda, e quanti giochi di sguardi compaiono in questo film.
Ecco, quindi che Jeffrey trova l’orecchio: ecco il ciclone, il vortice, la telecamera entra nel foro scuro come si entra nell’occhio di un tornado.
Ma l’orecchio è solo l’inizio, Jeffrey è ben lontano dal centro, il tornado ritorna: ritorna allo Slow Club (antenato del “Silencio”), quando vediamo per la prima volta Dorothy cantare, Jeffrey è lì con Sandy, ma lei poi sparisce, per lui c’è solo la donna sul palco e nient’altro, anche i musicisti poi spariscono, rimangono loro due, avvicinati dal tornado, siamo sprofondati un altro po’.
Poi c’è l’ingresso di Frank. Frank è l’ultimo pezzo del tornado, siamo arrivati al centro: perché solo allora Jeffrey comprende il quadro degli eventi, ma capisce soprattutto chi ha di fronte, capisce di trovarsi nel buio.
“Frank è un uomo molto pericolosco”.
Per lui Frank è quanto di più malvagio esista a questo mondo, come una malvagia strega dell’ovest; strega rappresentata in “Cuore selvaggio” dal personaggio di Diane Ledd, e guarda caso sia lei che Frank fanno un uso particolare di un rossetto.
Ormai siamo in balia del vento, vento che ci viene anche mostrato, che smuove le tende rosse dell’appartamento di Dorothy, al suo secondo incontro con Jeffrey, e pure al terzo, che è anche l’incontro del ragazzo con Frank (e quante volte vediamo salire le scale per quell’appartamento, che non sono le scale dritte di un vialetto ben curato, sono un’altra spirale, un altro tornado). Il vento continua a turbinare.
Poi Jeffrey scopre che nessun posto è bello come casa, e allora sceglie Sandy, non Dorothy, ed esce dall’orecchio, esce dal tornado, tutto finisce nell’appartamento, dentro c’è un uomo con una giacca sgargiante come un uccellino dal bel piumaggio, e il petto coperto di sangue.
“Sono arrivati i pettirossi”.
E allora magari non c’era stato alcun passaggio, e non c’era bisogno di tornare a casa, Jeffrey c’è sempre rimasto, era sempre il suo mondo, quello che vede tutti i giorni guardando fuori dalla finestra.