I VOSTRI ELABORATI: WORKSHOP LIVE “Il cinema di Xavier dolanâ€!
06/05/2020
Durante il workshop live dedicato al cinema di Xavier Dolan, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico del cinema di questo giovane talento. Tra questi segnaliamo anche questo ottimo pezzo di Matteo Gamannossi.
Ecco gli altri lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Chiara D’Alessandro
ANALISI SEQUENZE FINALI DE “LES AMOURS IMAGINAIRES”

“Les amours imaginaires” è un film del 2010 scritto e diretto da Xavier Dolan, presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes.
Un film sull’amore idealizzato che i due protagonisti, Francis e Marie, amici di lunga data, condividono per Nicolas, nuovo arrivato in città.
Affascinante e irriverente, conscio del suo potere seduttivo, Nicolas causerà una profonda crisi nel rapporto d’amicizia tra i due protagonisti.
Il gioco della seduzione è il filo conduttore del film, come scelta consapevole e strategica. Gesti e sguardi sono i messaggi codificati, semplici e ripetuti in successione e in modo ritmico.
Dolan è capace di farci leggere queste sensazioni attraverso primi piani e colonne sonore che accompagnano il pensiero.
I due amici dopo un anno si ritrovano spensierati ad una festa.
Il rallentamento della ripresa (slow motion) mette in risalto nei primi piani lo stato d’animo gioioso dei due ragazzi, e con un raccordo per stacco, la colonna sonora apre la scena ad un’inquadratura fissa e frontale, che mantiene lo slow motion, fino a quando non arriva Nicolas, che cattura l’attenzione di tutte le ragazze e non solo.
Adone magnetico avanza sotto lo sguardo di Marie, postura e gesti voluti per mantenere superiorità e distanza: l’indice della mano sostiene il mento in alto per imporre il suo sguardo dall’alto.
E come per la volpe che non arriva all’uva, la stessa Marie finisce per disprezzare ciò che aveva desiderato, definendo Nicolas mangia feti (nella versione originale) e vampiro (nel doppiaggio italiano), sottolineando così l’innocenza del loro sentimento.
Francis, a sua volta, risponde alla provocazione con un conato di vomito, ribaltandone l’idealizzazione che accompagna tutta la durata del film ed è amplificata nella sequenza del ballo a luci intermittenti, più indietro.
In questa scena, infatti, Nicolas viene associato ad una statua greca tra le intermittenze tra primi piani che lo raffigurano e richiami artistici; ed è interessante notare come la figura della madre (tema caro a Dolan) viene riproposta in un racconto in cui non ne era necessaria la presenza, inserendola in un contesto di seduzione tra madre e figlio che lascia ipnotizzati e basiti addirittura gli stessi protagonisti.
La loro frustrazione è sottolineata da “3ème” degli Indochine in sottofondo (J'ai pas envie de le voir nu et j'aime cette fille aux cheveux longs - E non voglio vederlo nudo e amo quella ragazza/o con i capelli lunghi).
Quando Nicolas si avvicina, Francis, si lascia andare ad un urlo/sfogo incontrollabile rendendo visibile la sua violenta liberazione.
I due amici si ritrovano nella comprensione e nella consapevolezza dello stesso sentimento, la carezza e l’abbraccio di Marie ha la voce necessaria per non “sentirsi soli”, accentuata da un piano sequenza.
La musica riprende, la festa riprende, nei primi piani la voglia di divertirsi, di vivere. Tutto ricomincia, e tutto si ripete, attraverso rimandi di sguardi con un nuovo adone (Cameo di Louis Garrel).
L’effetto brama sottolinea il nuovo gioco di seduzione rallentando le riprese sui primi piani di nuovo: sorrisi maliziosi, sguardi languidi, ammiccamenti.
Non a caso Bang Bang (Dalida), ritorna la sfida, dimenticando l’abbraccio della condivisione. Si ritorna da soli uno contro l’altro. Obbiettivo: arrivare al cuore del seduttore. BANG BANG.

Emma Diana D’Attanasio 
ANALISI DI “LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN”

Dopo un film come “Just la fin du monde” Dolan torna a confessarsi, a confessarci e a spogliarsi non solo come essere umano ma anche come bambino (prendendosi anche un po’ in giro) e come uomo di spettacolo. Il film, l’ultimo di Dolan uscito in Italia, è considerato un film “maledetto” a causa delle vicissitudini legate alla sua distribuzione e ai ripetuti montaggi che, a parer mio e di altri, hanno eccessivamente stravolto un film con un’idea iniziale ben delineata. Ad ogni modo il giudizio di tecnicismi e difetti formali di questo film li lascio all’analisi di chi è più grande ed esperto di me. Questa è una semplice lettera d’amore per il film di Dolan, che si è messo così a nudo da far sentire meno sole molte persone in tutto il mondo, come me. Questo film parla di due ragazzi, divisi da un oceano e da molti anni di età, che però sembrano avere più cose in comune di quanto si immagini. Rupert Turner è un bambino di 11 anni che, trasferitosi dall’America all’Inghilterra per motivi familiari, deve fare i conti con i bulli della sua scuola ma soprattutto con una madre che lo costringe ad essere più grande di quanto sia. John F. Donovan è un ragazzo che, trasferitosi dalla città natale a New York, comincia a recitare in fiction di basso livello che lo portano ad un’importante popolarità. I due protagonisti sono accomunati da questo senso di solitudine incolmabile, da un segreto inconfessabile (la corrispondenza con l’attore per Rupert e l’omosessualità per John), ma soprattutto da un’improbabile corrispondenza nata per caso. Empatizzare con Donovan è molto semplice, forse perché è molto più bambino di quanto si possa vedere. Se penso a Donovan penso ad un animo buono e ingenuo che, quasi senza accorgersene, viene catapultato nella fossa dei leoni dello spettacolo che prima lo cullano e dopo lo scacciano, ritrovandosi intrappolato in una gabbia che gli altri, senza chiedergli il permesso, gli avevano costruito attorno. La gabbia del teen idol che, certamente e soprattutto a quei tempi, non poteva essere omosessuale, e allora piuttosto che non essere se stesso, John Donovan ha preferito non essere. “Un giorno ritornerò, per ora voglio solo dormire” queste sono le ultime parole che scrive al piccolo Rupert. Si può quasi dire che John F. Donovan si sia sacrificato perché Rupert Turner, e molti altri come loro, potessero essere liberi di essere loro stessi senza paura, come ci mostra l’ultima scena del film nella quale Rupert, ormai cresciuto, sale sulla sella della motocicletta accompagnato dal suo ragazzo, senza casco, senza paura, con i capelli al vento. È questo il “ritorno” di cui John parlava nell’ultima lettera e come Rupert lo deve ringraziare per avergli permesso di diventare ciò che è, tutti abbiamo il nostro Donovan da ringraziare. Donovan ha salvato Rupert da ragazzo ma non ha fatto di meno quando Rupert era un bambino, lo trascinava via da una realtà difficile: un padre assente, una madre indaffarata, dei ragazzini cattivi. Rupert si rifugiava nella sua corrispondenza con Donovan, nelle sue puntate. Dolan lancia un messaggio a chi, come lui, da piccolo voleva estraniarsi, staccare i piedi da terra, ci fa sentire tutti uniti. Dicendo che Rupert trova rifugio in Donovan fa sentire meno soli chi come lui si attacca ai film per staccarsi dalla realtà, ci fa sentire parte di qualcosa. È un film che parla a noi, ai ragazzi, a coloro che amano il cinema e si sentono presi in giro se provano a dirlo ad alta voce di fronte ai compagni di classe, come Rupert. Parla a coloro che vogliono raggiungere quel mondo e a coloro che nei momenti più bui si rifugiano nell’arte di persone che, senza saperlo, hanno insegnato loro un sacco di cose e li accompagnano nei momenti più bui. Questo non sarà il film migliore di Xavier Dolan per un sacco di motivi, ma certamente non ci fa sentire soli ed è questo che deve fare il cinema, quindi grazie Xavier per questi 123 minuti carichi di amore.
 

Massimo Guastella
HOME IS WHERE IT HURTS (HEARTS)

“Ça souffre, ça parle”. Là dove qualcosa soffre qualcosa parla. Se dovessi sintetizzare il film È solo la fine del mondo di Xavier Dolan in poche parole userei quelle in francese in apertura di Jacques Lacan. Sì, perché c’è un nesso inestricabile tra la sofferenza e la parola che questo lungometraggio mette in scena. Ma parlare alle volte è anche tacere. Non perché non si ha nulla da dire ma perché si vuole proteggere qualcuno (gli altri o se stessi?). Quella locuzione iniziale fa anche riferimento all’inevitabilità della parola; quando però il dolore è al di dà da venire, come nel caso del film in cui Louis rimanda il momento per annunciare la propria morte, allora, nel contempo, si può decidere di non parlare o aspettare il momento giusto per farlo.
Ma c’è un momento veramente giusto? Nel film scopriremo di no, o meglio, in realtà c’è. È sempre lì, ma sfugge continuamente alla presa. Infatti, qualsiasi momento sarebbe quello giusto per farlo, sembra che ci sia tutto il tempo, tutte le situazioni di intimità per dichiararsi ma è meglio scappare, è meglio non vedere? Perché dire, se chi è dall’altra parte sa già cosa diremo? Questo non vedere è il momento già di apertura del film: un bambino in aereo copre gli occhi di Louis; il gioco, per antonomasia, che qualcuno fa sorprendendoti alle spalle e chiedendoti: chi sono? O meglio, nel silenzio uno, almeno inizialmente, non dice: saprai riconoscermi, però, prima di tutto solo dal tatto, dal tocco, dalle mie mani posate sui tuoi occhi prima che io parli?
Nel workshop abbiamo visto come la centralità del vedere ricorra spesso nei film di Dolan, o ad esempio, come questa capacità venga meno nel videoclip College boy degli Indochine diretto dallo stesso Dolan. Qui molti che non vogliono vedere sono bendati ma la benda sugli occhi potrebbe simboleggiare non solo il non voler vedere, il far finta di non vedere (come le lacrime di alcuni dimostrano) ma anche che guardare farebbe perdere l’innocenza dello sguardo? Che il dolore, la violenza non richiamerebbero se non altro dolore, altra violenza?
Potremmo estendere quella domanda che ponevamo prima “chi sono?” dicendo: chi sei? Chi sei diventato? Louis non potrà più vedere le cose con innocenza, quelle mani fragili del bambino è proprio lo sguardo che gli è precluso. Non potrà nemmeno in questo momento godere della nostalgia di vedere la vecchia casa. Eppure tutto il film ruota intorno al passato (in fondo cos’hanno in comune se non queste sbiadite cose avvenute?). Il lungometraggio è completamente schiacciato sul passato, sui ricordi (i continui flashback: le domeniche, la vecchia casa, la storia d’amore con Pier, etc.). Non ci può essere il presente, non ci può essere futuro. Tutto è sospeso. Come nell’esergo del film: da qualche parte, qualche tempo fa. È vero, il tempo corre comunque, gli orologi ai polsi, l’orologio a cucù continuano a far scendere la sabbia nella clessidra del tempo; ma questo tempo che scorre non ha niente a che vedere col flusso della coscienza, con l’affastellarsi nella mente dei pensieri, dei ricordi, della vita passata. Proprio come quando Louis sembra sognare ad occhi aperti ricordando Pier e poi Catherine gli chiederà: quanto tempo? E Louis risponderà: quanto tempo cosa? In queste due piccole battute c’è tutta l’ambiguità di ciò che si vorrebbe dire apertamente e invece va tenuto celato, nascosto, lasciato solo all’intesa, alle affinità elettive? (Come sul divano all’inizio del film in cui il vociare di sottofondo mette invece in risalto, nel silenzio, gli sguardi di Louis e Catherine che si parlano, si confessano? Cosa? Lui l’avvicinarsi della morte? Lei la violenza - subìta? - di Antoine? Non vediamo, quasi alla fine del film, le nocche sbucciate di quest’ultimo?).
Prima di tirare le fila di questa piccolissima riflessione porrei l’accento sulla casa. È interessante come il tutto avvenga principalmente nell’ambiente domestico. Il ritorno a casa, al luogo d’origine dovrebbe rappresentare una gioia ed in parte lo è. Soprattutto perché ritrovare un figlio, un fratello dopo dodici anni non può che portare gioia. Ma porta con sé anche il dolore del tempo perso, del tempo perduto, del tempo sprecato. Soprattutto se la casa è in campagna che, come abbiamo ribadito più volte nel workshop, nel cinema di Dolan ha sfumature insidiose. La casa, come nel titolo della canzone di Camille: “Home is where it hurts”, come tutto il testo d’altronde, dice: questa casa non ha soffitto, non ha maniglie, non ha nulla che possa essere rubato. È una casa vuota che ruota attorno all’assenza. La vita è andata avanti (come nei libri?) anche senza Louis ma lui è rimasto il centro. Proprio la sua assenza non ha fatto altro che catalizzare l’attenzione su di lui. Non volendo lui è diventato il fulcro. Come la mamma in un certo modo gli riferisce nel colloquio a due. La scena finale dà un senso forte di questa circolarità in cui Louis resta al centro di questa geometria delle passioni. Sapranno andare avanti senza di lui? Non è quasi un’uscita dal sepolcro tutta quella luce? Non è il suo corpo, non sono le sue spoglie inerti quelle dell’uccellino che vediamo nell’ultimo fotogramma del film? In fondo morire non è la fine del mondo, non è la fine del senso? Se hai vissuto intensamente, è così importante la morte? Uscito di scena, Louis chiede inconsciamente: saprete ancora recitare le vostre parti, le vostre vite? Non è un caso che la luce presente negli ultimi minuti del film sia la stessa presente nel flashback di quando Louis da ragazzo ha avuto la sua relazione con Pier. Si comincia a vivere proprio quando sfidi la morte fino all’ultimo, quando trasgredisci. Vediamo Pier uscire dalla finestra quasi come un ladro. In quel momento rubato, in quella trasgressione c’è la vita, ci può essere la vita. 
Sì, “la casa è dove fa male”, appunto come canta Camille, ma possiamo immaginare, giocando con le parole, in questa quasi omofonia tra hurt e heart che la casa è dove c’è il dolore, ma lì dove c’è anche il cuore. I cuori pulsanti. Come il cuore dell’uccellino che batte in quell’ultimo respiro… Finalmente Louis può andarsene, lasciare simbolicamente il proprio corpo lì, e immergersi nella luce… Solo adesso potrà veramente andarsene da casa come nelle parole iniziali in aereo di Louis: una serie di motivazioni che appartengono solo a noi ci spingono ad andarcene e allo stesso modo una serie di svariate altre ci spingono a tornare.
Così possiamo capire il gesto del silenzio, ponendosi l’indice sulle labbra, che Louis rivolge a Catherine. Però dobbiamo prima tornare, ancora una volta, a quel flashback in cui Louis ricorda Pier, non a caso appoggiandosi al suo vecchio materasso, la scena si conclude con un fuori fuoco su un’immagine di un quadro. Il quadro in questione è Sogno ad occhi aperti di Dante Rossetti. La modella che posa per il pittore è Jane che aveva posato diverse volte per lui e, quando quel quadro viene dipinto, stanno avendo una relazione amorosa illecita. Ce lo comunica anche il rametto di caprifoglio, che Jane stringe tra le mani, che nell’età vittoriana simboleggiava le relazioni amorose. Ma la posa cosa ci dice? Lasciamo dire allo stesso Rossetti che ha composto un poema con lo stesso nome del quadro e che si conclude così: “lei sogna; fino ad ora sul suo libro dimenticato / Lascia cadere il fiore dimenticato dalla sua mano”. L’immagine sfocata su Jane in una continuità di senso tra sogno e realtà mette a fuoco Catherine che sorprendentemente sembra uscire dal quadro paradossalmente svegliando dal sogno Louis, riportandolo alla realtà (alla vita?). Quel gesto di silenzio fatto da Louis adesso possiamo fino in fondo capirlo: lasciali (lasciami) continuare a sognare ad occhi aperti. Vogliamo veramente liberare dalla sua prigione il sintomo? Che in questo caso è una metafora dell’incomunicabilità? Come afferma Lacan il sintomo è un simbolo scritto sulla sabbia della carne. Ma cosa intende Lacan con queste parole? La carne è la carne del soggetto che soffre e che, laddove soffre, in realtà parla. Il riferimento alla sabbia è l’inconsistenza, la superficie, il significante sul quale il sintomo si iscrive e che allude alla provvisorietà di questa scrittura e al fatto che il lavoro analitico - non abbiamo detto nel workshop che in un certo qual modo la filmografia di Dolan è una continua confessione, un’analisi? - come lavoro di interpretazione avrebbe il potere di cancellare la scrittura del sintomo liberando il senso dalla sua prigione. Ma alla fine non ci rendiamo conto che non possiamo essere, anche se ci illudiamo di esserlo, padroni della nostra vita?

 Sara Pavia
XAVIER DOLAN E IL RAGGIUNGIMENTO DELLA LIBERTÀ

Dopo aver seguito il workshop dedicato a Xavier Dolan e attraverso alcune nuove nozioni acquisite grazie ad esso, ho potuto notare meglio alcune sfumature della sua poetica cinematografica e soffermarmi su qualcosa che a prima visione, durante gli anni, mi è sfuggita e che trovo interessante portare in evidenza. Attraverso alcuni dei suoi film, in particolare quelli scritti da lui, Dolan sembra fare spesso riferimento alla morte intesa come raggiungimento della libertà del personaggio. Libertà da un peso o da una situazione, dai pregiudizi o dal sentirsi incompatibile con il mondo che lo circonda. Andando in ordine cronologico, inizierò con il nominare “J' ai tue' ma mere” come primo esempio. In una delle scene finali del film, il preside della scuola telefona alla madre di Hubert per comunicarle che il figlio è scappato dall'edificio e non riescono a trovarlo. Inoltre, le comunica che hanno trovato un foglio in camera sua, proprio indirizzato a lei, che dice “Se vuoi parlare sarò nel mio regno”. La parola Regno ci rimanda facilmente a “regno dei cieli”, infatti il preside sembra preoccupato che il ragazzo possa essere in una situazione di pericolo. Quindi Hubert, per evadere da quella situazione di “prigionia” in cui era stato posto di forza, decide di scappare, andarsene lontano, nel suo “regno”, facendo pensare brevemente al suicidio, come volesse raggiungere “Il regno del Padre”. Un altro lavoro, sempre andando in ordine cronologico, in cui ho notato un esempio di questa associazione è il video “College Boy” del gruppo Indochine. Nel finale del video, il ragazzo protagonista, evidentemente preso di mira e “bullizzato” durante tutta la durata della clip, viene crocifisso dai suoi compagni e lasciato lì a morire. L'ultima sua parola è “merci”, cioè grazie. Come se il protagonista ringraziasse il pubblico, o il regista stesso, per avergli dato la possibilità di morire, quindi di liberarsi dalla sofferenza che provava quotidianamente, per l'incapacità di comunicare o farsi capire o accettare dagli altri. Un altro esempio a sostegno di questa teoria possiamo vederlo, forse più chiaramente, in “Mommy”. Steve, il protagonista, è stato portato contro la sua volontà, possiamo anche dire con la forza, in un istituto per ragazzi con problemi comportamentali/mentali. Nella scena finale, il ragazzo è nel centro correttivo e alcuni infermieri gli stanno, distrattamente, togliendo la camicia di forza per riportarlo nella sua stanza. Steve approfitta della loro noncuranza e di quella frazione di secondo nella quale non è legato e inizia a correre veloce verso la vetrata dell'edificio, che è proprio in fondo al corridoio, cercando una via di fuga, un modo per scappare da quel luogo. Il film poi si conclude e non ci mostra se gli infermieri riescono a fermarlo in tempo o se effettivamente Steve riesce a raggiungere la fine del corridoio e buttarsi dall'edificio, ma è comunque un chiaro collegamento stretto tra morte e libertà. Il protagonista corre verso la sua libertà', nonostante, probabilmente, incontrerà' la morte, ma non la teme, ne è felice, ne è grato. Anche nel suo più recente film “E' solo la fine del mondo”, possiamo notare una simile connessione tra morte e libertà. Anche in questo caso nella scena finale, vediamo il protagonista, Luis, in piedi nell'anticamera del salotto, di fronte all'uscita, si guarda intorno. Improvvisamente l'orologio a cucù segna l'ora e un reale uccellino fuoriesce da esso. Vola intorno alla stanza, come per cercare una via d'uscita e poi non lo vediamo più volare, e l'orologio suona un'altra volta. Alla fine, quando il protagonista esce dalla casa, vediamo l'uccello morto per terra. Quindi nel momento in cui Luis riesce finalmente a lasciare quella casa in cui si sente di non appartenere, in cui prova un senso di claustrofobia, vediamo subito un'immagine che ci rimanda alla morte, anche se non sua. Questo caso è un po' più metaforico rispetto ai precedenti perché non è il personaggio che viene direttamente associato alla morte (nonostante sia comunque destinato ad essa a causa della malattia terminale della quale non è riuscito a parlare alla famiglia), ma lo è attraverso un altro essere vivente, l'uccellino, che esce dall'orologio (non a caso a forma di casa), per poter finalmente essere libero, e morire.

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