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Il cinema di Ingmar Bergman: le vostre analisi!
Durante il workshop dedicato a Ingmar Bergman, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere una loro analisi sul cinema del maestro svedese: ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Ada Bacigalupo
Bergman, antesignano dei Beatles
‘’Living is easy with eyes closed misunderstanding all you see’’
Così cantavano i Beatles nel 1967 quando, ormai da tempo entrati nell’olimpo del rock, pubblicano uno degli inni psichedelici della loro generazione: ‘Strawberry fields forever’, una canzone nata per esprimere i propri turbamenti emotivi. Negli anni ’60 - come ancora oggi - quel pezzo sembrava innovativo sotto ogni punto di vista, per le musiche, i concetti e le parole; in pochi però ricordano che esattamente dieci anni prima, Ingmar Bergman decise di anticipare quelle suggestioni in uno dei suoi migliori lavori, cioè ‘’Il posto delle fragole’’. È così che due pilasti portanti dell’arte audiovisiva trovano un punto di congiunzione grazie ad un piccolo e semplice frutto, nel quale viene racchiuso un significato esistenziale con l’intenzione di far aprire quei famosi occhi chiusi al proprio pubblico. 
Nel film di Bergman si compie un viaggio fisico e mentale attraverso le coste svedesi ripercorrendo la vita del vecchio Isak, uomo che si ritrova a dover fare i conti con il proprio ego, la propria famiglia e le nuove generazioni. 
Per la prima volta un uomo, all’apparenza molto razionale, riesce a viaggiare non solo nello spazio, bensì anche nel tempo della sua memoria sia attraverso i ricordi, per tornare nel passato, sia attraverso i sogni, per giungere nel futuro, fino a diventare addirittura spettatore della propria morte.
Tutto si lega al posto delle fragole, che è un luogo reale ma anche un luogo dell’anima, un angolo di giardino dove Isak ha vissuto momenti di protezione e affetto ma dove si è anche lasciato scappare l’amore, e quindi la felicità, ed è da queste rinunce che si sviluppa una vita di grandi soddisfazioni professionali ma anche di altrettante delusioni sul piano umano. Infatti, il regista non lesina sul mostrare il dramma dell’esperienza coniugale e del rapporto algido che la madre di Isak prova nei confronti dei figli e dei nipoti tutti. 
Nonostante ciò, alcuni cambiamenti si compiono nell’interiorità del protagonista, rendendogli giustizia; una giustizia però amara e che seppur porti l’uomo ad una nuova consapevolezza, non riesce a rompere quell’incomunicabilità che egli ha alimentato negli anni e che tutto sommato è una proprietà intrinseca, ma involontaria, degli esseri umani. 
È così che, ormai vicino alla morte, Isak rimane nel limbo delle parole non dette e soprattutto non capite; anche quando la sorte sembra donargli una nuova occasione di dialogo con il figlio, casualmente rientrato presto a casa da una festa, l’anziano non riesce a trasmettere nel completo la sua redenzione. Una scena molto commovente in cui lo spettatore percepisce la fatica dell’uomo nel cercare le parole giuste senza riuscire a dirle, e in questo profondo momento di intimità si soffre insieme a lui per aver perso un’altra, forse un’ultima, buona occasione di riappacificazione. 
L’unica che davvero riesce a comprende Isak, e che permette un radicale mutamento del suo animo, è la nuora Marianne, incarnazione della sincerità. Una donna che con la sua trasparenza e benevolenza porterà un po’ di calore umano in quella che è stata un’esistenza fredda; non a caso sarà proprio lei ad accompagnare il protagonista nel luogo delle sue origini e degli affetti facendogli da supporto. Anche Marianne dopotutto terminerà il viaggio con dei mutamenti, a partire dal sentimento che prova verso Isak, questo a voler sottolineare ancora con maggiore forza la componente emotiva di cui si carica questo evento, che si conclude nel finale in un profondo abbraccio tra i due. 
Un vero road-movie in salsa svedese che oltre agli occhi, apre anche il cuore. 

Lia Bitetti

La dissolvenza dei dualismi in Persona di Ingmar Bergman
Il nero ed il bianco, l’adombramento e la luce, Elisabeth ed Alma, il corpo e l’anima, il volto e la maschera, il silenzio e la parola, essere ed apparire, presenza e rappresentazione. Dualismi, dicotomie, antinomie: Persona di Ingmar Bergman pare collocarsi lì dove risiede il doppio, sempre sul limes, nella continua scelta di spingersi oltre i quesiti, verso la ricerca del significato absolutus, libero da ogni vincolo. Percorso intrapreso da Elisabeth (Liv Ullmann) mediante il silenzio: lei, rinomata attrice che della parola e del corpo fa il suo mestiere, mette in scena, meta-cinematograficamente (ma allo stesso tempo letteralmente), il dramma dell’esistere, il dramma della quotidiana ed inesauribile incomunicabilità. Elisabeth sembra quindi risiedere lungo l’estremo del continuum che può scorgere la parola solo in lontananza: l’infermiera Alma (Bibi Anderson), al contrario, non smette mai di parlare, in un dialogo-monologo sempre più denso e stringente. A ben vedere, inoltre, Alma è un nome inevitabilmente parlante: “colei che dà la vita” nel latino classico, “anima” nel latino volgare, ci invita ancora una volta a immergerci in uno dei dualismi più vividi dell’occidente moderno, quello che contrappone l’anima al corpo. La crisi identitaria attribuita da tutti ad Elisabeth non viene, però, propriamente mostrata: il volto di Liv Ullmann emana una bellezza serena, le lunghe passeggiate in solitaria, letture sulla spiaggia, fotografie rubate di noi spettatori, intendi ad osservarla e conoscerla. Lei ha scelto. Ancora oggi inaccettabile si pone l’idea di rompere il muro di silenzio (o ancor di più accettare la sua stessa esistenza) sull’impossibilità di raggiungere l’acme dell’esistere: agogniamo la conoscenza di quel che siamo, della nostra vera essenza, la possibilità di congiungimento autentico con gli altri, la realizzazione a parole di quel supposto qualcosa dentro di noi che pare muoverci, senza riuscire a tollerare la certezza del dubbio inestinguibile che in tale pretesa risiede. Elisabeth viene effettivamente descritta come la donna della crisi, etimologicamente parlando (la donna della krisis, della scelta, della decisione): rivoluzionaria, considerando la sua estrazione borghese, nel suo completo nero di esistenzialiste memorie, abbraccia la necessità, con coraggio e intransigenza, dell’incomunicabilità interpersonale, dell’alienazione, del silenzio di Dio, della solitudine. Ma tale decisione porta inevitabilmente con sé l’allontanamento dal mondo presente (evocato dalle raccapriccianti immagini televisive di un vietnamita che si da fuoco), quanto dal mondo passato (la foto del figlio che avrebbe voluto “nascesse morto”) e, con probabilità, anche dal mondo futuro: allontanamento che, è da aggiungere, solo grazie alla sua estrazione borghese le è permesso attuare. Alma non è in grado di comprendere questa scelta, e le parole, che dovrebbero uscire dall’anima, sono invece sempre più cariche di identità corporee mancate e mancanti, di rabbia e violenza verso la sua nemesi: come in uno specchio, viene rappresentata e presentata l’instancabile doppia faccia della stessa medaglia. 
Bergman dissolve i confini, arde i dualismi: la notte, il bianco e il nero della pellicola sfumano e si annebbiano; Alma cerca strenuamente la relazione, nell’ingenua convinzione della realizzazione di un’intima comunanza, al punto da colpire con forza, verbalmente e fisicamente, il silenzio intollerabile ed egemonico di Elisabeth; i volti delle due donne divengono un unico volto, in un fotogramma che ci espone alla vertigine. Le due protagoniste diventano (o sono sempre state) un'unica persona, etimologicamente, un’unica maschera, un unico eidos. Siamo impossibilitati a raggiungere noi stessi così come siamo impossibilitati a raggiungere gli altri. La ricerca del senso di quel che siamo si traduce nell’inconsistenza della stessa: siamo abituati a pensare all’identità come a qualcosa di unico ed immutabile (dal latino idem, il medesimo), come un insieme di disposizioni personali che albergano in noi, stabili nel tempo. Ed ecco che proprio il fotogramma dei due volti sovrapposti, immagine angosciante di unione, polimorfa e polisemica, mette in scena la dissolvenza di tutti i rassicuranti dualismi su cui ancora ci ostiniamo ad poggiarci. Il volto diviene protagonista, proprio il volto, il luogo in cui siamo abituati a pensare risieda maggiormente il nostro senso d’identità: lo diventa tramite il primo piano, il mezzo che permette di “strappare l’immagine alle coordinate spazio-temporali, per far sorgere l’affetto puro in quanto espresso”, così come scrive Deleuze in Cinema 1. Immagine-movimento. Poiché, così come al volto possiamo accedere solo tramite maschere (e alla vita possiamo partecipare solo “interpretando una parte”, seguendo le teorizzazioni di Erving Goffman) e alla nostra identità possiamo tendere solo tramite lo sguardo interiorizzato degli altri su di noi, così come Elisabeth ed Alma che finiscono per divenire un unico moltiforme volto tramite il loro reciproco incontro-scontro, l’enigma e l’ambiguità di quel che siamo risiede proprio su quel volto. Come ricorda Lévinas, con mirabili parole, il volto è, difatti, da dove guardiamo e non possiamo vederci, è apertura irriducibile, è “l’apparizione d’altri”, è l’invisibile: il volto è nudo. Le immagini bruciano, nel proiettore la pellicola scorre febbrilmente: ecco, Persona.
Non torneremo più alle nostre tranquille vite borghesi dopo la vista di questo film, o forse ne torneremo ancora più intricatamente coinvolti.

Rachele Borsotti
LA SEQUENZA NOTTURNA DI SINFONIA D’AUTUNNO
Dopo una carriera in bianco e nero, Ingmar Bergman sposa il colore in un film che vanta la presenza dell’attrice omonima, Ingrid Bergman. Questa collaborazione porterà al compimento di una pellicola che tratta un tema molto caro al regista, il rapporto tra madre e figlia. 
Proprio come una sonata, il film è suddiviso in tre parti: il pomeriggio, la notte e la mattina. Non è un caso se si pensa al fatto che una delle protagoniste, Charlotte (Ingrid Bergman), è una famosa pianista sempre impegnata con le sue tournée in giro per il mondo. 
L’autunno può essere interpretato come sinonimo del tramonto di un legame, enfatizzato da colori caldi, giochi di ombre e lunghissime inquadrature fisse sugli ambienti in cui si snoda la vicenda, come a mostrare un palcoscenico che ospita, però, un dramma.  
Il punto di rottura dell’apparente equilibrio avviene quando la madre, durante la notte, viene svegliata da incubo dovuto forse a un senso di colpa, come lei stessa dice all’inizio del film. 
In questo frangente le due protagoniste hanno modo di avere un confronto intimo e profondo, che farà emergere i risentimenti e la rabbia che Eva (Liv Ullmann) ha covato per tutta la vita nei confronti della madre, ricorrendo a falsi sorrisi e gesti affettuosi. 
Figura austera e apparentemente sicura di sé, Charlotte nasconde una smisurata fragilità che cerca di controllare con gesti reiterati: accende compulsivamente le sigarette e racconta, al limite della logorrea, aneddoti sulla sua carriera. Già utilizzato in Sussurri e grida, forte è l’accostamento di questo personaggio al colore rosso. Simbolo di morte, incarna probabilmente la rabbia e la frustrazione della donna nei confronti della sua stessa vita, fatta di autocelebrazione e presunzione. 
La macchina da presa osserva i loro volti quasi come a scovarne ogni pensiero intrinseco e la più intima emozione. Il marito, occulto spettatore del dramma familiare, assiste impotente alle loro sofferenze. 
"Il mio cuore adesso si fermerà, ora morirò, il dolore è troppo forte". Sono queste le parole che Eva rivolge alla madre raccontando di quando, durante la sua infanzia, veniva lasciata sola con il padre per lunghi mesi. L’ammirazione si trasforma lentamente in odio che, covato per anni, esplode quando capisce che nulla è cambiato. 
Inerme di fronte alle confessioni della figlia, Charlotte sprofonda in uno sconforto emotivo, forse a conferma della sua consapevolezza di non essere abbastanza. 
"Non mi è mai piaciuta la gente che sfugge alle situazioni difficili", dice lei stessa all’inizio del film. Eppure, non reggendo il confronto, decide di scappare, abbandonando ancora una volta la figlia, fingendo una superiorità fatta solo di rancori. 

Lucia Cirillo
Il volto. L’inganno come custode di verità.
“Un mago altro non è che un attore che interpreta il ruolo di un mago” (Orson Welles).
Basterebbe anche soltanto questa lineare e compiuta definizione di attore  -  offerta da un regista  di pari caratura  -  come testimone e custode di illusioni, per sintetizzare le intenzioni di Bergman ne “Il volto” (“The magicians” nel più intuitivo titolo inglese), del 1958. Film misticheggiante ed enigmatico nel quale convivono con impareggiabile equilibrio austerità drammatica e leggerezza comica, riprende alcune delle ossessioni tipicamente bergmaniane, quali l’indagine del  soprannaturale (sebbene stavolta ad essere privilegiato sia il territorio dell’inconscio,  piuttosto che quello della religione) e il richiamo all’essenza del teatro e al potere dell’illusione di sortire effetti  sulla mente e sul modo di guardare il mondo. 
Vogler è un personaggio ambiguo, affascinante, carismatico, ossessionato dalla morte e dal bisogno di dare in ogni modo una  spiegazione al dolore, anche attraverso l’artificio e l’inganno, se si rivelano gli unici sentieri alternativi ai limiti del conoscibile che si pone la scienza. È’ consapevole di non avere poteri effettivi  ma di possedere  un talento nella loro “spettacolarizzazione”:  la finzione è una forma di suggestione capace di offrire chiavi di lettura della realtà precluse alla scienza. La fede (stavolta) è nell’arte, nell’inganno (il “magnetismo animale” che si oppone al razionalismo positivista. Siamo nell’Europa di fine ‘800, ma Bergman sta pensando anche alla sua Svezia, austera e borghese, di fine anni cinquanta) che si celano verità –  o semplicemente delle intime percezioni  -  di cui abbiamo necessità per andare avanti. 
“Se solo una volta potessi dire che cosa è vero”. Nel dialogo tra la moglie di Vogler, appena “smascherata” nel suo essere una donna dallo scettico dottor Vergerus, si preannuncia il “duello psicologico” con Vogler, tutto svolto in un luogo costruito come uno spazio scenico tipicamente teatrale, quasi a ricordare una sorta di gabbia mentale insidiata da trappole (dita minacciose che fuoriescono dagli assi di legno) e incidenti simbolici  (occhiali, orologi e specchi che si frantumano).  Sarà proprio nel momento di massima finzione, nell’inganno sapientemente architettato in ogni suo dettaglio,  che Vogler  riuscirà ad imporre la sua “verità”: l’illusione  è un’ ”esperienza unica”  e, in quanto tale, generatrice (anche) di realtà. 
Questo unico passaggio grottesco ed inquietante lascerà però  spazio  ad un lieto fine, luminoso e pacificante, che evoca quasi un felliniano elogio alla bellezza della vita che, nell’arte più che nella scienza, pare aver ritrovato tutto il suo senso.

Maria Serena Pasinetti
Il Posto delle Fragole di Bergman e Youth di Sorrentino
L’accostamento forse un po’ audace  dei due film mi è venuto, rivedendo Il Posto delle Fragole, da un’osservazione di Andrea Chimento su quanto Bergman sia stato capace di parlare di vecchiaia, in questo film, pur avendolo girato da “giovane”. Sorrentino con Youth ha toccato  “la questione” anche lui poco più che quarantenne.
Non è facile parlare di “vecchiaia “da giovani, a meno che non si sia dei maestri, e non è sempre facile capire questo periodo della vita, a meno che non si sia avanti con gli anni. 
Innanzi tutto, sfaterei molti dei luoghi comuni per cui essere avanti con gli anni è bello, si è saggi, appagati, pieni di esperienze da versare sugli altri. Essere non più giovani è spesso volersi rinchiudere in solitudini respingenti, provare nostalgia inacidita per la gioventù, avere mancanza di progettualità per il futuro:  il metro che si accorcia di morettiana memoria. Per non parlare degli acciacchi, di cui i vecchi sono maestri nel farli diventare argomenti di conversazione.
Sia Bergman sia Sorrentino hanno, a mio parere, colto in pieno  “la questione”. 
Isak ne Il Posto delle Fragole dice da subito di vivere in solitudine, “senza troppe emozioni”, “sono un vecchio cocciuto e pedante”. La nuora lo accusa di essere egoista. Il figlio, dice la nuora, lo odia. 
Fred, l’ex direttore d’orchestra in Youth, si definisce apatico e indifferente; con l’amico regista più di una volta dice che le emozioni sono sopravvalutate. Argomento principe è parlare di prostata e dintorni.
Le emozioni spesso i “vecchi” non le sentono più, dicono di non emozionarsi più, guardano con una certa lontananza le emozioni dei giovani. Isak deve tornare al suo Posto delle Fragole per emozionarsi, Fred deve tornare al suo posto delle fragole, da sua moglie per risentirsi vivo.
Il ricordo è un’altra interessante tematica comune; Isak torna nel suo Posto delle Fragole e ricorda Sara, una cugina da lui amata, ma tra sogni e incubi durante il viaggio c’è anche un severo insegnante che lo conduce in una classe per un surreale esame universitario: lo interroga contestandogli le risposte e dandogli dell'incompetente 
Fred sogna con angoscia, racconta all’ amico la tristezza di non ricordare più i volti dei genitori o momenti passati con la figlia che avrebbe voluto rimanessero impressi nella memoria. 
I ricordi per ambedue non sono ricordi sempre felici; i ricordi quando si è avanti con gli anni sono difficili da discernere, a volte lo stupore ci assale nel non ricordare, e ci si pone domande … “ma come è possibile non ricordare quel nome, quel luogo, quel momento?”
E infine, e per fortuna,  in entrambi i casi sia Isak sia Fred si riconciliano.
Isak con il figlio e il proprio passato e l’altro attraverso un nuovo rincontro con la moglie a cui egli parla senza essere capito, forse, essendo la donna persa in un mondo senza memoria. E anche lui si riconcilia con il tempo passato, dirigendo un concerto che si era categoricamente rifiutato di condurre.
Da dove viene la riconciliazione?
Dall’aver ritrovato il proprio Posto delle Fragole e averlo accettato, senza acrimonia.
E poi anche i Beatles ce lo hanno insegnato: “ Strawberry fields forever”. John  Lennon lontano da casa, forse per consolarsi, cominciò a pensare alla leggerezza di quando era bambino, quando nei pomeriggi dell’infanzia a Liverpool andava a giocare vicino alle cave di rena rossa in Beaconsfield Road, in quel posto chiamato Strawberry Fields.
E allora ho pensato a lungo al mio posto delle fragole, e l’ho trovato e ho pensato che il ritornarci forse mi aiuterà ad essere più conciliante con me stessa e a riprovare le emozioni che oggi, a volte, sono un po’ sopite ma che per fortuna tornano e mi permettono di commuovermi ancora, ora che sono, “diversamente giovane. “

Gaia Pinotti
Ingmar e Maya, così lontani, così vicini.
Le famose sequenze sperimentali del film Persona (1966) sono un viaggio dentro il film e il cinema, un gioco visivo che disvela il cinema per quello che è nella sua essenza, ovvero magia e materia, luci di un proiettore e pellicola in proiezione. 
La sequenza in cui i fotogrammi perdono il loro normale ritmo e velocità di riproduzione e la pellicola si distrugge davanti agli occhi dello spettatore, mettono in risalto la materialità del cinema, la sua consistenza e natura fittizia, fragile, capace di incendiarsi e di sparire nel buio insieme ai sogni, alle visioni, alle finzioni e al voyeurismo del suo autore e spettatore.
Con queste sequenze Bergman esalta il cinema in sé stesso e ne valorizza l’elemento che lo rende arte, il montaggio, il mezzo potentissimo grazie al quale l’amato gioco di luci e di ombre passa dalla dimensione della magia a quella di linguaggio d’arte dalle infinite possibilità espressive.
Nel montaggio della sequenza iniziale, il regista propone una carrellata di immagini minimaliste, oniriche e simboliche e ricorda a chi guarda che non sta guardando solo un film, ma sta guardando proprio un suo film. Il ragno è un animale oscuro che ritorna nelle pellicole di Bergman, il bambino silenzioso che osserva qualcuno e qualcosa al di là di sé lo possiamo incontrare in più film del regista, mentre la crocifissione ricorda l’importanza del tema teologico e religioso nella colta cinematografia del Maestro.
Questo montaggio evoca altro cinema, l’occhio del povero agnello sgozzato fa ritornare alla mente un occhio molto celebre e importante per la storia della settima arte, quello tagliato nel 1929 da Luis Buñuel nel surreale Un chien andalou.
La sequenza della distruzione della pellicola e il montaggio sperimentale e surrealista di Persona, fanno entrare di diritto Bergman nella storia del cinema sperimentale, una storia parallela che comprende i grandi autori delle avanguardie storiche di inizio Novecento, il New American Cinema degli anni ’60 di Jonas Mekas e la sua Film-Makers’ Coop., ma prima di tutto, fa pensare ad un'artista
dello sperimentalismo americano che aveva rotto gli schemi del cinema classico durante la Seconda Guerra Mondiale.
Questa artista di origine ucraina ha fatto del montaggio onirico e surreale il suo marchio di fabbrica.
Maya Deren, con Meshes of the Afternoon (1943) e At Land (1944), ha segnato la storia, ha mischiato sogno, subconscio e reale, amore e morte, specchi e doppi, tematiche che si possono ritrovare nella cinematografia bergmaniana.
Nei due cortometraggi compaiono elementi che possono richiamare alcune immagini iconiche regalateci in seguito dal cineasta svedese.
La figura oscura e minacciosa vestita di nero, con uno specchio al posto del volto che ritorna più volte nel noir surrealista Meshes of the Afternoon e la sequenza onirica della partita a scacchi tra due donne su una spiaggia in At Land, con una sorta di link mentale degno di un montaggio surrealista, possono evocare alcune celebri immagini create da Bergman ed entrate nella storia del cinema e nell’immaginario collettivo (la morte e la partita a scacchi de Il settimo sigillo).
Quelle di Bergman e di Deren sono visioni in bianco e nero, create da un uomo e da una donna, due artisti totalmente diversi e capaci entrambi di trasportare chi guarda in racconti enigmatici e di magica energia, fatti di materia e di luce di un proiettore, di tensione e di mistero, non completamente decifrabili e afferrabili, ma totalmente liberi.

Filippo Sala
IL POSTO DELLE FRAGOLE, FOREVER. Cortocircuito tra Bergman e i Beatles
Se i Beatles e Ingmar Bergman si fossero incontrati nel 1967, probabilmente si sarebbero piaciuti. Di sicuro, il regista svedese avrebbe attirato l’attenzione di John Lennon, sicuramente in quel momento il beatle più in crisi con se stesso.
Il successo e la fama planetaria si stavano trasformando per lui, Paul, George e Ringo in una prigione neanche poi così dorata e forse è proprio in quel momento che Lennon avverte uno straziante desiderio di leggerezza e dolcezza, calda reminiscenza dei pomeriggi d’infanzia passati a giocare con gli amici vicino alle cave di sabbia rossa di Beaconsfield Road, in quel posto chiamato Strawberry Fields, il parco dell’orfanotrofio non troppo lontano dalla casa della zia Mimi.
Nasce tra queste dolci e melanconiche inquietudini Strawberry Fields Forever, la canzone che potrebbe essere la colonna sonora involontaria e perfetta de Il Posto delle fragole, il film capolavoro di Bergman che già dieci anni prima (1957) è una autoanalisi sospesa tra ricordo e bilancio esistenziale, temi dominanti e condivisi con l’immortale brano beatlesiano.
Due opere d’arte assolute del Novecento in cui si sublima la tematica del sogno.
La memoria del passato aggredisce lo stato emotivo di John Lennon e del professor Isak Borg, il protagonista del film magistralmente interpretato da Victor Sjöström che non solo è attore, ma anche regista e maestro di Bergman.
Il posto delle fragole è un road movie, un viaggio però in cui si torna indietro.
Orologi senza lancette. Il tempo sospeso, interrotto. Spazio, tempo, metanarrazione.
Il trasferimento in auto da Stoccolma a Lund per la celebrazione del suo giubileo all’Università, coronamento della carriera di medico e ricercatore, diventa per l’anziano e misantropo professor Borg un viaggio della mente verso la verità della sua essenza più profonda, in risposta ai suoi incubi, vuoti della solitudine e fallimenti personali.
Un pellegrinaggio, in cui la realtà si intreccia con i sogni e gli incontri con la madre o la coppia in eterno tormento sono nient’altro che tappe di un percorso catartico all’interno di se stesso.
L’analisi del rapporto intergenerazionale tra l’uomo, sua nuora Marianne (Ingrid Thulin), la freschezza di tre ragazzi diretti in Italia a cui viene offerto un passaggio (Victor e Anders con i loro litigi su Dio, e Sara - la magnifica Bibi Andersson - così solare, piena di voglia di vivere, così simile all’amata cugina Sara che ricompare nei suoi sogni), gli aprono la via verso la riconciliazione con se stesso. Sapersi perdonare, per provare a tornare a vivere.
Mai come nel 1967 anche i Beatles sono alla ricerca di se stessi.
Espropriati della loro anima nelle copertine dei magazine per adolescenti, sommersi dalle grida del pubblico durante i concerti, messi al rogo nei pubblici falò dei loro dischi, aggrediti da gendarmi di discutibili dittatori asiatici e minacciati di morte per le travisate dichiarazioni su Gesù Cristo. 
Vedersi attraverso gli occhi degli altri è un pò come morire e la frase del professor Borg:
“Sono morto. Anche se sono vivo” l’avrebbe potuta tranquillamente pronunciare John
Lennon in quella tormentata fase di passaggio esistenziale ed artistico.
Let me take you down. (Strawberry Fields forever)
Ti voglio mostrare una cosa. (il posto delle fragole)
I Beatles e Bergman si specchiano ancora, in una distorsione spazio temporale che però non altera il senso ultimo della loro ricerca, anelito straziante alla ricerca di un abbraccio consolatorio e protettivo che possa riappacificare per sempre passato e presente, realtà e finzione in un gioco di riflessi emozionali tra anima e ragione.
“Forse avrei dovuto rimanere qui” è il pensiero del professor Borg arrivato ancora una volta a Lund. Non è poi così casuale che quando i Beatles decidano di lavorare a un nuovo disco pensando a un concept album dedicato alla loro per sempre cara Liverpool.
La consapevolezza della fine di un’epoca, abbinata alla ricerca e al rimembrare nuove e antiche meraviglie ci suggestiona con immagini e suoni di mondi che si mescolano, una veglia che non vuole separare nella sua essenza spirituale il sogno dalla realtà.
Il bianco e nero anni Cinquanta de Il posto delle fragole trasfigura nel colore deciso e psichedelico tipico della metà degli anni Sessanta che pervade il video di Strawberry Fields forever. E così mentre alla fine del film il professor Borg cerca di prendere pacificamente sonno dopo aver salutato dolcemente Marianne, nel video la voce di Lennon prende vita e poco importa se sia casuale che il rosso, per Bergman il colore di Dio, appaia e scompaia in un’intermittenza trascendente sulle giacche dei quattro Beatles e che il pianoforte sia legato ad una albero con dei filamenti che sembrano quasi la tela di un ragno, altro simbolo divino per il regista svedese.
La vecchiaia, l’infanzia, la giovinezza, l’esistenza di Dio, le occasioni perdute, la nostalgia, l’amore. Saremo per sempre tutti orfani dell’infanzia. Gli occhi segnati dal tempo del professor Borg si sovrappongono idealmente con i visi stanchi dei Beatles che sembrano quasi essere una sola persona, unita dalla voce dolcemente allucinata di Lennon.
Memorie che diventano suono di pianoforte, mellotron, cimbali e swarmdaal indiani.
Le fragole selvatiche non crescono dappertutto ma ognuno di noi sa dove coltivare le proprie, fosse anche solo in una parte recondita e segreta dello spirito.
Colore, calore. Luce, tenebra. Presenza ed assenza.
Sta per chiudere gli occhi il professor Borg e i Beatles, vicini l’uno all’altro come quattro fratelli, si perdono di spalle nel rosso del tramonto delle fredde pianure del Kent.
Anche loro, un pò come tutti noi, sembra quasi vogliano ritornare al loro posto delle fragole. Forever.
 

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