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Il conformista – Le ombre della psiche e il peso della Storia secondo Bernardo Bertolucci
«Il fascismo storico è morto, però la borghesia è sempre lì, salda al suo posto». Queste poche ma lucidissime parole dello stesso Bernardo Bertolucci permettono di afferrare il cuore pulsante attorno a cui è costruito Il conformista (1970), opera cardine del grande regista e sceneggiatore parmense, il quale, a soli 28 anni, ha dato vita al suo capolavoro più limpido e cristallino. Un film sul passato che aderisce tragicamente anche alla contemporaneità, in senso assoluto, non solo a quella del '69, quando Bertolucci, in un solo mese, scrisse la sceneggiatura.

Stravolgendo la struttura classica dell'omonimo romanzo (1951) di Alberto Moravia che costituisce il soggetto del film, Bertolucci modella sulla base della propra sensibilità un racconto estremamente complesso sia nella forma, sia nel contenuto. Dopo le intuizioni teoriche di Partner (1968), incentrato su un doppio dalla forte valenza psicanalitica, e le sperimentazioni tra cinema e avanguardia teatrale del Living Theatre di Julian Beck messe in scena nel segmento Agonia del film collettivo Amore e rabbia (1969), Bertolucci innalza qui la psicanalisi a elemento centrale della vicenda, fondamentale per comprendere le azioni del protagonista. La ricerca di normalità, stabilità e sicurezza di Marcello Clerici (Jean-Louis Trintignant), il quale nella Roma del '38 si offre volontario per una missione omicida a Parigi per conto dell'Ovra (la polizia politica fascista), non è altro che una sua risposta ai traumi del passato. La perdita dell'innocenza di Clerici, uomo meschino privo di volontà propria, è causata da una costrizione fisica, rappresentata dal tentato abuso sessuale subito da bambino, origine del trauma, e morale, esemplificata nel momento della raggelante adesione a un compito (e a un regime) mostruoso. Luci e ombre della psiche si manifestano in un sottotesto freudiano che affiora costantemente, assumendo i tratti di un'agghiacciante beffa nel finale. Se per Moravia l'epilogo della vicenda è segnato dal destino, per Bertolucci gioca un ruolo cruciale l'inconscio del protagonista: il senso di sconfitta viene così moltiplicato all'infinito.



Il film è una feroce critica alla borghesia italiana cieca davanti agli orrori del fascismo, idealmente rappresentata da Italo, personaggio non vedente creato ad hoc dal regista e non presente nel testo di partenza. Il desiderio di ordine di Clerici proviene da un'esperienza sessuale dell'infanzia da rimuovere. Il conflitto costante tra pulsioni primordiali e razionalità, da sempre centrale in Bertolucci, fa emergere tutto lo squallore e la tragica meschinità di un protagonista deciso ad annullarsi rifugiandosi nel conformismo, omologandosi alla massa sia nella dimensione pubblica (l'iscrizione al partito), sia in quella privata (il matrimonio). Un uomo che, pronto a eludere ogni forma di impeto rivoluzionario e a rinnegare qualsiasi ideale o sentimento, ricerca una normalità di facciata sotto cui nascondere colpe e paure inconfessabili, provando repulsione per qualsiasi anomalia e debolezza personale (la propria latente omosessualità) o collettiva (la malattia del padre, l'intelligenza acuta del professor Quadri posta al servizio dell'antifascismo, la cecità dell'amico Italo, la disinibizione della madre). «È strano però, sai? Tutti vorrebbero sembrare diversi dagli altri e tu invece vuoi somigliare a tutti».

Sulla base di una potente riflessione politica che condanna l'adesione al regime fascista e la colpevole indifferenza, individuale ancor prima che collettiva, di una intera nazione, Bertolucci ha messo in scena la conflittualità insita nell'uomo, tema cardine di tutta la sua poetica. Due anni prima della regressione allo stato primitivo consumata nell'appartamento-utero in Rue Jules Verne a Parigi (Rue de l'Alboni nella realtà), con la coppia Brando/Schneider consapevole del tragico epilogo da affrontare dopo l'ultimo tango, nel complesso itinerario del cinema bertolucciano appare un protagonista costretto a rapportarsi con una diversità da annullare in funzione del costesto storico e sociale che lo circonda. Il conflitto non abbraccia le istanze della filosofia esistenziale, ma si radica nelle buie pagine della Storia, gli interni, lontani dalla spoglia deformazione che si riflette sui corpi secondo la lezione di Francis Bacon, guardano all'architettura art déco, alla metafisica di De Chirico e alle linee tese del Futurismo, gli esterni, messi in quadro con cura maniacale, riflettono un alienante ordine precostituito.



Bertolucci porta sullo schermo il suo ricordo degli anni '30 filtrato dalla memoria dei film di Jean Renoir, von Sternberg e Ophüls, suoi grandi amori cinematografici, con padronanza espressiva totale, dando alla pellicola un respiro profondamente internazionale. Lo stile barocco e avvolgente si riflette nella narrazione che interseca diversi piani temporali e nelle variazioni delle tecniche di ripresa. Se nella prima parte, quando si dà forma alla complessa personalità di Clerici, prevale l'uso del flashback e a dominare sono i piani (da primissimo piano a figura intera) in modo da sottolineare la centralità del protagonista, nella seconda parte l'andamento narrativo è lineare e a ricoprire un ruolo centrale sono i campi (medi, lunghi e lunghissimi), poiché è l'ambiente a prevalere sul personaggio. Il risultato è un'opera vibrante, di abbagliante bellezza figurativa, esemplare nella composizione dell'inquadratura, nella modernità degli angoli di ripresa e nella disposizione degli attori in funzione dello spazio scenico, dove la maestria di Bertolucci nel muovere la macchina da presa piega i codici del cinema classico senza forzare la mano verso una traumatica frattura con la tradizione. Il senso plastico della mise en scène diventa autentico splendore visivo tanto in una panoramica sulle foglie autunnali mosse dal vento, quanto nella ripresa di una elegante sequenza di ballo in interni. Una sensazione di perfezione assoluta impossibile da raggiungere senza il fondamentale contributo della fotografia di Vittorio Storaro, del montaggio di Franco Arcalli, della scenografia di Ferdinando Scarfiotti, della colonna sonora di Georges Delerue e dei costumi di Gitt Magrini.

Cinema come forma d'arte sublime e, purtroppo, irripetibile.

Davide Dubinelli
Maximal Interjector
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