Il potere del cane: un'analisi del film di Jane Campion
14/02/2022
Riceviamo e con grande piacere pubblichiamo la recensione di Claudia Ronchi su Il potere del cane di Jane Campion.


Lento. Sorprendente. Diabolico. Con questi tre aggettivi si può sintetizzare l’ultimo lavoro di Jane Campion: se da un lato, infatti, è innegabile che il prologo faccia fatica a decollare e a coinvolgere, la seconda parte stimola l’attenzione e, soprattutto, la curiosità degli spettatori fino alla fine. Film che chiede parecchio impegno da parte del pubblico a partire dalla comprensione del titolo che è mutuato dal libro originale di Thomas Savage da cui è tratta la storia. E’ necessario ricorrere al libro dei Salmi dell’Antico Testamento della Bibbia per leggere il versetto completo: “Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”. Ed è di salvezza che si parla in questo film: salvezza dal dolore di fondo che attraversa l’anima dei quattro protagonisti, salvezza da un finto rimedio (alcol); salvezza da una fine che pare segnata (suicidio). Ulteriore impegno è richiesto anche per il doppio salto temporale: siamo nel Montana del 1925 ma il romanzo da cui è stato tratto il film è stato scritto nel 1967. L’epoca dello scrittore si avvicina all’anno delle rivoluzioni, delle contestazioni, della liberazione sessuale che avrebbe svelato senza più pudori ogni sfumatura delle relazioni interpersonali. All’epoca dei fatti del film aspetti così privati, soprattutto se non allineati alle convenzioni sociali dell’epoca, non potevano essere messi in mostra. Quindi è tutto un soffocare emozioni, sentimenti, affetti, a volte anche quelli più ortodossi (pochissimi baci tra marito e moglie; lezioni di ballo lontani dagli occhi della comunità). Per questo ha gioco facile il primo protagonista, Phil Burbank (Benedict Cumberbatch), che si presenta senza mezzi termini come l’uomo virile e tutto d’un pezzo, impermeabile a qualsiasi forma di affetto, tranne che per il compianto amico Bronco Henry. Vittime della sua prepotenza la cognata Rose Gordon (Kirsten Dunst) e il di lei figlio, Peter (Kodi Smith-McPhee). Ma se Rose soccombe sfogando tutta la sua frustrazione nella bottiglia, Peter, in modo del tutto sorprendente, decide di passare all’azione (sarebbe più corretto “all’inazione”) per salvare sé stesso e, possibilmente, anche la madre. Dopo una prima parte dove la regista, con eccessiva lentezza e lunghezza, insiste con i paesaggi da cartolina -- sua cifra stilistica in cui indubbiamente eccelle -- per chiarire in modo inequivocabile il momento storico, in quale contesto si muovono i personaggi e quali sono le costrizioni sociali che spingono determinati comportamenti, assistiamo poi ad una accelerazione (benché impercettibile durante la visione) dove vengono rivelati indizi che serviranno di lì a breve per ricostruire il finale rivelatore di un diabolico piano per eliminare una fonte di dolore, o quella che si crede tale. Premio per la miglior regia alla mostra di Venezia 2021, è candidato a 12 nomination agli Oscar 2022.

Claudia Ronchi

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