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In the Mood for Love: le vostre analisi!

Durante il workshop dedicato all'analisi di In the Mood for Love, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un loro pezzo sul film di culto del regista Wong Kar-wai: ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Anna De Rosa
Se dovessi dare un titolo alla mia riflessione su In the Mood for Love sarebbe: Follow the food!

Perché per i primi tre quarti della pellicola si assiste a un intreccio di relazioni, rifuggite o ricercate, che si snodano attorno alle consumazioni di pasti. Non a caso le prime parole intradiegetiche sono “Eat up!” nella versione inglese, “Non fate complimenti, servitevi pure” in quella italiana. 
Quindi, subito dopo il prologo, si comincia con la signora Suen, che è indaffarata a preparare una cena per conterranei di Shangai in terra straniera. In questo frangente l’alimentarsi è memoria, collante e balsamo per la nostalgia delle proprie origini. Da qui procede una lunga successione di scene in cui il cibo è in un modo o nell’altro presente.
I primi alimenti che vediamo sono frutti rosso-arancio (mele, arance, pomodori?!), in una significativa giocata di palleggiamenti tra realtà e finzione, arte che riproduce la realtà, o realtà che imita l’arte. Nel mezzo una lampada direzionata - che sia un’indicazione di sguardo? - tra la natura morta appesa alla parete e un cesto poggiato su un ripiano.
Si susseguono diversi inviti declinati, come quello della signora Chan che si trincera nel suo riserbo per preservarsi dall’invadenza dell’affittacamere, consumando le sue cene a loro volta chiuse ermeticamente in un termos verde menta. Un altro invito rifiutato è quello subito dal signor Chow, a cui la moglie mente causa tradimento; la scoperta della menzogna è seguita da un boccone solitario come una pietra, assente, un wanton intero che l’uomo angustiato si forza in bocca.
Poi ci sono inviti accettati, come quelli tra la signora Chan e il signor Chow, o tra le immagini dei loro coniugi, che i due provano ad incarnare (davanti a della carne vera e propria, così satura di colore da sembrare essa stessa una finzione) in un gioco di ruolo in cui specchiano i partner assenti. Ma, come dice la signora Chan nella sequenza iniziale “State attenti allo specchio, mi raccomando!”.
Infatti, tra un pasto e l’altro, tra lavori di segreteria che comprendono schemi di pranzi e cene e torte tra moglie e amante, tra oggetti da cibo -pentola elettrica- e desideri di cibo -zuppa di sesamo- che si susseguono in una routine riman(eg)giata, la situazione relazionale tra i protagonisti sembra sfuggire di mano. Fino a quando un pasto saltato, quello del capo fedifrago della signora Chan (“Oggi non va a pranzo signor Ho?” “No”), mi pare essere l’ultimo momento di quella parte della narrazione che potrebbe corrispondere a un unico lungo respiro a ritmo di valzer, che inizia e termina con un trasloco.
Nel mezzo un Hong Kong di Kar-wai, quella in cui se vuoi conoscere le intersezioni (per rubare il titolo originale del libro a cui il film si rifa) della vita, devi seguire le vie del cibo.
Dopodiché il ritmo si trasforma, nella successione di enjambements accompagnati dal magistrale ralenti, in cui i giorni sono tanti, e tante le ellissi sottolineate quasi solo dai cambi d’abito della signora Chan, ma sembrano tutti pochi e tutti più o meno uguali, qualcosa cambia.
C’è un evento che fa da spartiacque tra il tempo che era prima e quello che è dopo: il passaggio in radio della canzone che dà il titolo al film, L’età della fioritura (d’altronde la signora Chan durante il trasloco iniziale lo aveva detto: “...attenti alla radio!”). Ecco, il valzer tra i due finisce, le loro intimità di cibo anche, Hong Kong passa al passato o al massimo al futuro, ma non è più presente. La fioritura per il signor Chow e la signora Chan avviene a distanza, peraltro in due direzioni diverse, come suggerisce l’inquadratura che li vede fronteggiarsi di spalle, separati da uno spesso muro, mentre la radio trasmette il brano.
La loro relazione non è sbocciata, per timidezza di uno o per il compostissimo rigore dell’altra (lei, con la testa sulle spalle, come le dice la signora Suen, una testa che con quegli alti colli dei suoi abiti, ben in vista nelle numerose inquadrature di spalle o di traverso così frequenti – all’Antonioni de L’avventura -, non avrebbe modo di sfuggirle), ma le loro vite sì, fioriscono comunque, seppure in modi diversi.
Li scopriamo nel finale: lui durante un’intima confessione a cena con Ping, il Ping di Hong Kong (e dove c’è Hong Kong, anche solo attraverso un personaggio intravisto, c’è cibo) sembra suggerire un’apertura al mistero della tradizione, uno sbocciare in una maestosta spiritualità. Lei, sempre nel solco della tradizione, fiorisce nel modo più materiale in cui si può pensare un femminile fiorisca, con un figlio.

Giulia Pugliese
“IN THE MOOD FOR LOVE” 2000 WONG KAR-WAI

“Fumare è indispensabile se non si ha nulla da baciare”, Sigmund Freud

In the Mood for Love è un’isola felice per i cinefili e per i romantici. Un film perfetto è un film molto personale, con uno stile unico sia di regia che di narrazione, ogni scena è costruita con una tale attenzione maniacale, tableu vivant pieni di colori, dettagli e luci artificiali. 
Bisogna andare oltre alla bellezza formale del film per capirlo davvero e per farlo è importante ripercorrere la biografia del regista stesso e la storia di Hong Kong: Wong Kar-wai nasce a Shangai nel 1958, era solo un bambino negli anni ’60, anni difficili per la Cina, di grande cambiamento, violenza e radicalizzazione.  Wong Kar-wai è un esule di Shangai come i protagonisti del film, vi si trasferisce nel 1963 (il film è ambientato tra il 1960 e il 1966 ). La famiglia di Wong Kar-wai rimane a lungo divisa per la chiusura dei confini tra Shangai e Hong Kong, le differenze culturali tra le due città e il diverso dialetto rendono difficoltosa la loro integrazione. Le difficoltà della sua infanzia portano Wong Kar-wai ad appassionarsi al cinema e alla letteratura. Il film recupera aspetti della sua infanzia, la malinconia che si respira è forse quella che il regista ha provato durante quel periodo della vita. 
Le circostanze posso portare due persone ad amarsi? I due protagonisti sono legati da un destino che li porta a cercare casa lo stesso giorno ed è come se mancassero sempre per pochissimo; in seguito, si trasferiranno l’uno accanto all’altra lo stesso giorno. Intrecciano un rapporto formale di vicinanza, ma anche solo la passione dei romanzi a puntate è una scusa per un avvicinarsi in quanto entrambi sono soli e trascurati dai loro rispettivi partner (lui confida a lei che in passato ne voleva scrivere uno ed è un po’ come se le confidasse un segreto). Il vero avvicinamento e poi il successivo innamoramento arriverà dalle circostanze esterne e dal destino che li unisce. La vera storia d’ amore, quella tra due coniugi dei protagonisti è esterna e noi non la vediamo neanche.
I protagonisti che sembrano due divi anni ’50 (una Sofia Loren e un Marcello Mastroianni asiatici) spesso ripetono le stesse azioni e si ritrovano negli stessi luoghi, come a indicare una ripetizione e una routine, anche la colonna sonora aiuta a creare questa idea di ripetizione. Il regista si concentra sui primi piani e su dettagli ( le mani, la sigaretta, il fumo e i vestiti ), quasi tutto il film è girato come se all’ interno delle scene ci fosse un ulteriore rimpicciolimento in una cornice dove all’interno ci sono gli attori e questo ci dà una percezione molto netta di quello che ci vuole far vedere il regista e crea un senso di claustrofobia. Gli ambienti sono piccoli sembrano dei cunicoli e lo spettatore rimane sempre sull’uscio senza entrare come se sbirciassimo dall’ esterno.  Nel film è chiaro che c’è una parte (che probabilmente coincide coi sentimenti dei protagonisti) in cui allo spettatore non è permesso entrare.  
Ritornano anche dei simboli: il mappamondo, i fiori, la pioggia, il fumo e gli orologi. Il film dura anni ma paradossalmente potrebbe durare un mese o un giorno, il tempo che scorre non è indicato chiaramente, lo capiamo dal cambio dei vestiti della protagonista. Pensiamo alla teoria del tempo M, in una prospettiva quadri-lineare e multidimensionale il tempo non esiste, per questo i protagonisti del film possono ripetere le scene che recitano diverse volte; se il tempo non esiste, il nostro intero procedere è solo un riproporre ciò che facciamo, rifaremmo all’ infinito. Questo spiegherebbe anche l’immobilismo dei nostri protagonisti, in un mondo senza tempo non si può cambiare il proprio destino. 
I protagonisti si dicono di non essere come i loro partner (“noi non dobbiamo essere come loro” ), ma per una forma di masochismo ne recitano la parte, un'ossessione che li lacera dentro creando una strana dicotomia tra essere, poter essere, osservare ed essere osservati. Spesso di questo film si dice che la storia d’ amore è a quattro, in quanto il marito della signora Chan e la moglie del signor Chow sono sempre presenti nella storia anche se non li vediamo: in realtà vediamo una reinterpretazione di loro fatta dai i rispettivi coniugi. La relazione è molto più ampia: vi entrano i vicini che li guardano e li giudicano, la società e i valori dei protagonisti. Per questo spesso li vediamo dentro le sbarre, è la rappresentazione dell’essere ingabbiati e bloccati, andare oltre sarebbe diventare come i loro partner. Tuttavia, in due scene riescono a liberarsi: nella scena in cui lei corre disperata nella stanza d’ albergo di lui e quando lui ammette di essere innamorato di lei dicendole “credevo che non saremmo mai stati come loro” “adesso so come è cominciata tra di loro, le cose succedono così”. 
Angkor Wat invece è un luogo in divenire: nato come tempio per venera Vishnu (divinità hindù ), diventerà poi tempio buddista e giocherà un ruolo importante nei negoziati internazionali per l’indipendenza della Cambogia, diventa un simbolo nazionale ma allo stesso tempo il tempio acquisisce importanza proprio durante il periodo coloniale francese. Per questo Chow consegna il suo segreto ad un luogo così, facendo questo percorso si libera dal suo fardello, quando torna nella sua vecchia casa, è sereno.  Mentre Sun Li-shen al suo ritorno sembra avere dei rimpianti e decide di rimanere lì forse ad aspettarlo. 
Wong Kar-wai dice questo sulla Hong Kong del 1966 e sulla scena del cinegiornale sull’arrivo di De Gaulle in Cambogia: «Il 1966 segnò una svolta nella storia di Hong Kong. La Rivoluzione Culturale sul continente aveva avuto molte ripercussioni e aveva costretto la gente di Hong Kong a pensare seriamente al proprio futuro. Molti di loro erano arrivati dalla Cina alla fine degli anni '40, avevano avuto circa vent'anni di relativa tranquillità, si erano fatti una nuova vita, e all'improvviso cominciavano a sentire di doversi muovere di nuovo. Così, il 1966 è la fine di qualcosa e l'inizio di qualcos'altro. Quanto alla Cambogia, avevamo bisogno di qualcosa che fosse in contrasto visivo con il resto del film, che lo controbilanciasse, qualcosa sulla natura, qualcosa sulla storia. E, quando ho scoperto che de Gaulle era stato in visita in Cambogia proprio quell'anno, ho voluto che nel film ci fosse anche questo. De Gaulle è parte della storia coloniale che sta per dissolversi»
Wor Kar-wai ci racconta un tempo che non torna in un film dove il tempo non c’è, dove l’incompiuto diventa più importante del compiuto, dove il detto si mescola con il non detto. Il passato è una fotografia sbiadita lasciata in un cassetto dimenticato.

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