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La belva: il lavoro sul corpo e la recitazione di Fabrizio Gifuni

Non parla quasi mai Leonida Riva, il protagonista del nuovo film di Ludovico Di Martino (disponibile su Netflix dal 27 novembre) prodotto dalla Groenlandia di Matteo Rovere e da Warner Bros Italia: piuttosto, scruta, tende le orecchie e emette versi. Si aggira nei quartieri notturni di una metropoli indefinita fatta di grattacieli vetrati e diner come una belva ferita alla ricerca implacabile della figlia che è stata rapita.



Fabrizio Gifuni, attore principalmente noto al pubblico nei panni dell’uomo ordinato e ordinario (si pensi a Il capitale umano), smantella tutte le stratificazioni interpretative precedenti e dà vita a un personaggio inedito nel cinema italiano: Leonida, che condivide il proprio nome con l’eroe spartano, è un reduce di guerra tatuato, rasato e cicatrizzato che assume psicofarmaci per arginare l’irruzione fantasmatica dei traumi del passato. Si copre il volto con il cappuccio e si mostra poco, come se volesse dimenticare, insieme alla propria stessa vita, anche il ricordo di una missione suicida che si ricompone in flashback memoriali sempre più opprimenti. È un corpo sofferente e solitario dentro cui scorrono ancora l’instabilità e l’adrenalina generate dalla violenza della guerra, ma anche un marito e un padre riservato che fatica a mantenere i rapporti con la famiglia. Non appena la figlia Teresa scompare, però, l’uomo si risveglia, si mette al centro dell’inquadratura e agisce secondo le stesse logiche belliche che lo hanno annichilito: fiuta e insegue i responsabili, anticipa le indagini della polizia senza rispettare i tempi e i principi della legge, cade, si rialza, insegue, bracca, picchia e uccide con freddo autocontrollo. 




Se l’idea drammatica alla base di La belva rappresenta una novità nel panorama cinematografico italiano, i titoli internazionali a cui il film si ispira sono molteplici. Il genere dell’action-thriller-revenge ricorda la trama e le atmosfere di Io vi troverò di Pierre Morel e la caratterizzazione fisica e psicologica del protagonista è costellata di riferimenti a altri eroi vendicatori: Leonida reca le tracce di Ryan Gosling in Drive di N.W. Refn (entrambi indossano un giubbotto con la stampa di animali che li rappresentano, il primo un orso e un’aquila, il secondo uno scorpione), di Joaquin Phoenix in A beautiful Day – You Were Never Really Here di Lynne Ramsay (lo stress post-traumatico vissuto con lunghi silenzi intervallati da esplosioni efferate di violenza, il volto nascosto dalla barba incolta e dal cappuccio-cappellino), di Denzel Washington in The Equalizer di Antoine Fuqua (il ritorno improvviso all’azione, anche se con minore placidità e precisione rispetto all’ex agente della Dia), ma anche del Joker di Todd Phillips (la richiesta dell’aumento del dosaggio farmacologico nel campo-controcampo dialogico con la psicologa e l’impiego musicale di basse frequenze che intensificano la suspense). 


 


Nonostante non sia un film tecnicamente perfetto, se La belva è diventato in 4 giorni il film più visto al mondo su Netflix (lo ha annunciato ieri Fabrizio Gifuni sul proprio profilo Instagram) è perché ha avuto la capacità e la visionarietà – anche produttiva – di muoversi in territori narrativi e visivi inconsueti e di esplorare un genere nuovo in una cinematografia ultimamente abituata a limitare il proprio sguardo entro i confini nazionali e poco fantasiosa nel (re)inventare le proprie trame, i propri modelli e le proprie forme.

 

Sara Colombini

Maximal Interjector
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