Leggere Lolita a Teheran di Eran Riklis (2024) è un'opera che colpisce al cuore, un manifesto cinematografico della lotta per i diritti delle donne iraniane e, più in generale, per la libertà individuale. Tratto dal celebre libro autobiografico di Azar Nafisi, il film racconta la vita dell’autrice che, tornata in Iran dopo la Rivoluzione islamica del 1979, si ritrova a fare i conti con una società oppressiva, dove la censura e il patriarcato spogliano le donne dei diritti fondamentali.
La pellicola si apre con una Teheran degli anni Ottanta, ricostruita con grande maestria nonostante le riprese siano state effettuate a Roma. L’atmosfera è soffocante: le donne vivono sotto un regime che impone leggi discriminatorie, come l’obbligo del velo, il divieto di cantare o ballare, restrizioni sul lavoro, lo studio e persino sulla libertà di movimento. Nafisi, interpretata magistralmente da Golshifteh Farahani, è un simbolo di resistenza. Non potendo più insegnare letteratura occidentale all’università si reinventa con coraggio, creando un gruppo di lettura clandestino per le sue studentesse. In una stanza segreta, lontano dagli occhi vigili del regime, leggono Lolita di Nabokov, Orgoglio e pregiudizio di Austen e altre opere iconiche della letteratura mondiale. La letteratura diventa il filo conduttore per affrontare temi proibiti come l’amore, la libertà e l’autodeterminazione. Ogni incontro è una scintilla di libertà, una rivendicazione dell’identità personale e culturale.
Le parole della Nafisi alle sue studentesse sono potenti: “Può un libro renderci liberi?” La risposta è evidente nell’atto stesso della lettura clandestina, che diventa una forma di protesta contro la repressione. La regia di Riklis è essenziale ma efficace. La performance di Golshifteh Farahani cattura perfettamente il dolore e la determinazione della Nafisi. La sceneggiatura, basata sul testo originale, riesce a intrecciare la dimensione personale con quella politica e culturale, creando un racconto universale sulla resistenza alla repressione. La fotografia, con i suoi toni caldi e opprimenti, richiama visivamente l’isolamento delle protagoniste, mentre le musiche evocano un senso di nostalgia per un passato più libero e un desiderio di cambiamento.
Il film non si limita a raccontare una storia personale, ma dipinge un quadro storico più ampio. Con l’avvento del regime khomeinista l’Iran, un tempo Stato laico, si trasforma in una Repubblica islamica che priva le donne di diritti che erano stati conquistati con fatica. Le cronache storiche, come quelle del 7 marzo 1979, quando Khomeini impose l’hijab obbligatorio e le donne riempirono le piazze per protestare, trovano eco nelle vite delle protagoniste del film. Anche le immagini di repertorio, come quella del sorriso spensierato di Sima, una hostess in minigonna negli anni Settanta, amplificano il senso di perdita e repressione. Sima, come tante altre, non avrebbe mai potuto immaginare un futuro in cui vestirsi liberamente sarebbe stato un atto di sfida.
Dopo aver visto il film la domanda che tormenta di più è: le storie che tanto amiamo possono darci solo degli obiettivi da desiderare? Ebbene, la risposta è che il film è intriso di storie di resistenza silenziosa, come quella delle donne che scelgono di mostrare una ciocca di capelli fuori dal velo o che sfidano le leggi patriarcali viaggiando senza il permesso del marito. Nel settembre 2022, migliaia di giovani donne e uomini sono scesi in piazza in tutte le principali città dell’Iran al grido di “Jin, Jîyan, Azadî” (“Donna, vita, libertà”). Le proteste sono scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, una giovane curda arrestata dalla polizia morale a Teheran per non aver indossato correttamente il velo. La 22enne era in vacanza con la famiglia quando, fermata davanti alla metropolitana, è stata condotta al centro di detenzione di Vozara. Secondo le autorità, la ragazza avrebbe avuto un collasso a causa di una precedente operazione al cervello, ma una TAC pubblicata dall’Iran International mostra chiaramente una frattura al cranio, segno di percosse. Il padre di Mahsa ha confermato che la giovane era in perfetta salute e che le gravi lesioni sarebbero state causate sul furgone della polizia. La sua morte, avvenuta dopo tre giorni di coma, ha scatenato proteste in oltre 80 città, portando a una violenta repressione. Ma la repressione ha un prezzo altissimo. Gli scontri hanno provocato centinaia di morti: almeno 551 manifestanti secondo le Nazioni Unite, tra cui 49 donne e 68 minorenni. Tra le vittime si contano anche delle
giovanissime come Nika Shakarami, 16 anni, rapita e uccisa dopo essersi opposta a un tentativo di violenza; Sarina Esmailzadeh, colpita alla testa dalle forze di sicurezza; e anche Hasti Narouie, una bambina di soli 6 anni, colpita da un candelotto di gas lacrimogeno, a Zahedan. Le famiglie delle vittime sono spesso costrette al silenzio, minacciate dalle autorità, che impongono versioni ufficiali come il suicidio o incidenti. Amnesty International ha raccolto testimonianze strazianti sulle sorti di almeno 44 minori, vittime di un regime che non risparmia nemmeno i più piccoli.
Le proteste, tuttavia, non si sono fermate. Nonostante la dura repressione, le donne iraniane continuano a lottare. Figure come Hadis Najafi e Hananeh Kia, entrambe uccise brutalmente durante le proteste, sono diventate simboli della lotta per la libertà. Ogni manifestazione, ogni atto di ribellione, rappresenta una sfida coraggiosa a un regime che tenta di soffocare ogni forma di dissenso. E la ribellione passa anche per il mondo dello spettacolo. C’è chi ha voluto mostrare il proprio pensiero attraverso dei murales e chi, invece, sfruttando la propria notorietà, si è ribellato pubblicamente al sistema. E così la procura di Teheran, nel 2022, ha convocato chi ha scelto questo modus operandi, con l’accusa di aver diffuso sui social media “commenti falsi, non documentati e provocatori”, a favore delle proteste. Fra questi, anche le attrici Elnaz Shakerdoust, Mitra Hajjar, Baran Kowsari, Sima Tirandaz, Katayoun Riahi e Hengameh Ghaziani. In particolare Hengameh Ghaziani e Katayoun Riahi sono le prime ad essere state arrestate per aver protestato in pubblico senza velo. Le due attrici sono state accusate di “collusione e cospirazione” contro le autorità religiose iraniane. La Ghaziani aveva pubblicamente accusato il regime di aver “assassinato” oltre 50 minorenni, e ha ricevuto il proprio capo di accusa dopo aver pubblicato su Instagram video che la ritraeva mentre, dopo essersi sfilata il velo, girava le spalle alla telecamera e si legava i capelli. Un gesto che è diventato un simbolo di questa lotta, come dimostra una delle tante ragazze che, durante una manifestazione, è stata ripresa in tale atto poco prima di essere uccisa. Prima dell’arresto, l’attrice ha dichiarato di sua spontanea volontà di essere stata convocata dalla magistratura. “Forse questo sarà il mio ultimo post su Instagram”, ha dichiarato. “Da questo momento in poi, qualsiasi cosa mi accada, sappiate che come sempre sono con il popolo iraniano fino all’ultimo respiro”. La Riahi aveva invece rilasciato un’intervista all’Iran International Tv, in cui aveva espresso solidarietà per le donne iraniane, dichiarando che: “La strategia coraggiosa dei giovani e degli adolescenti nelle strade ricorda le tattiche storiche dei partiti. Da qui deriva la parola partigiano. Come i nostri antenati, lottiamo per la libertà dell’Iran. Lunga vita all’Iran libero”.
Un’altra forte ribellione, forse la più forte, era arrivata invece da un’intera squadra di basket femminile. Sono state 16 le donne (13 atlete e 3 allenatrici) della Canco Canada BC ritratte in una foto di gruppo senza hijab e, a seguire, in un video in cui cantano spensierate. La foto, postata su Instagram dalla head coach Farzaneh Jamami, era accompagnata da un messaggio. Un messaggio importante, che esorta tutte le donne a sentirsi libere e svincolate dalle differenze di genere. “Insegna a tua figlia che i ‘ruoli di genere’ non sono altro che sciocchezze”, scrive coach Jamami. “Sei preziosa e insostituibile. E se ti viene detto il contrario, non crederci. Non nasconderti. Alzati. Tieni alta la testa e mostra ciò che hai! Dì che sei forte e potente. Tu sei una donna libera”. E poi, come descrizione del video: “Una generazione coraggiosa, giusta, intelligente, libera. Ho imparato molte lezioni da voi. Siete voi, belle, coraggiose e potenti ragazze dell’Iran”. Più che un post, un atto di coraggio, più forte di mille parole. Ma che ha fatto anche tremare il regime. Così tanto che l’allenatrice è stata costretta a pubblicare un post “riparatore”, in cui ha dovuto affermare, e chiarire, di essere fedele alla Repubblica islamica e all’hijab. Ma la squadra è stata anche costretta a rifare la foto, stavolta con il capo coperto. Come vuole la tradizione. La società ha inoltre preso le distanze dall’accaduto, comunicando via Instagram che quella era una “foto privata, fatta prima di una partita ufficiale, e pubblicata senza permesso sulla pagina personale dell’allenatrice”. E del video? Nulla. Neanche l’ombra di una spiegazione. Ma la cosa più grave è che, qualche ora più tardi, sul profilo di coach Jamami era apparso un post in lingua farsi, cui è stata disattivata la possibilità di lasciare un commento. “In nome di Dio, della vita e della sapienza”, vediamo scritto “Saluto il popolo iraniano. Sono Farzaneh Jamami, allenatrice della squadra di basket Canco. Senza nessuno scopo e intenzione anti-hijab, vi dico che ho pubblicato una foto nella mia pagina privata. Alcuni media ne hanno approfittato per pubblicare questa foto senza chiedere il permesso. Presto un’azione legale”. Dunque la macchina del potere si era attivata, facendo sì che la società dicesse qualcosa che andasse bene al governo. E attenzione, è stato anche sottolineato che “le giocatrici e lo staff tecnico hanno giocato con l’hijab, indossato subito dopo aver scattato la foto. I media hanno scritto bugie”.
La repressione ai danni delle donne e delle ragazze non si è però esaurita ai mesi più caldi delle violenze. Migliaia di donne hanno bruciato l’hijab e si sono tagliate i capelli come simbolo di ribellione, affrontando arresti, torture e persino condanne a morte. Mahnaz, una giovane manifestante, è stata internata di forza in un ospedale psichiatrico dopo aver indossato un costume da bagno in pubblico. E la sua vicenda è solo uno dei molti esempi di come il regime utilizzi la violenza fisica e psicologica per reprimere il dissenso. Nel frattempo, le università sono diventate un nuovo epicentro della resistenza, come dimostra anche il film. Alla Sharif University of Technology di Teheran, la polizia antisommossa ha sparato sui manifestanti e lanciato gas lacrimogeni contro gli studenti che scandivano slogan come “Donna, vita, libertà. Gli studenti preferiscono la morte all’umiliazione”. Le autorità iraniane, da parte loro, attribuiscono le rivolte a interferenze straniere, con l’Ayatollah Ali Khamenei, che accusa Stati Uniti e Israele di fomentare il malcontento.
Nel corso del 2023 e nei primi mesi del 2024 le autorità hanno continuato a perseguire le donne che non rispettano le regole sull’abbigliamento, compiono perquisizioni nei locali e sui mezzi pubblici. “Nel bieco tentativo di fiaccare la resistenza all’obbligo del velo sulla scia della rivolta ‘Donna, vita, libertà’, le autorità iraniane stanno terrorizzando donne e ragazze sottoponendole a una costante sorveglianza e a controlli di polizia, sconvolgendo la loro vita quotidiana e causando loro un immenso disagio mentale”, ha sostenuto Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. "Le loro tattiche draconiane vanno dal fermare le donne che guidano per strada, alla confisca di massa dei loro veicoli, all’imposizione di fustigazioni e pene detentive disumane“.
Il cinema iraniano è da sempre stato un importante strumento di resistenza contro l’oppressione politica e sociale. Film come Leggere Lolita a Teheran non solo raccontano storie di coraggio e di resistenza, ma sono anche uno strumento di denuncia delle violazioni dei diritti umani che avvengono nel Paese. Il cinema permette di raccontare storie che altrimenti rimarrebbero nascoste, dando voce a chi vive sotto il giogo della censura e della repressione. Il film di Riklis, con la sua potente narrazione, riesce a portare sullo schermo le difficoltà quotidiane delle donne iraniane, che lottano per preservare la loro identità e la loro libertà. La scelta di raccontare una storia di lettura clandestina e resistenza culturale, in un contesto così oppressivo, diventa una metafora della resistenza delle donne iraniane, che nonostante le persecuzioni continuano a lottare per la propria libertà, per il diritto di autodeterminarsi e di esprimersi liberamente.
Le carceri iraniane sono tristemente note per le atrocità commesse contro le prigioniere, specialmente quelle politiche. Le donne che si oppongono al regime vengono arrestate, torturate e costrette a vivere in condizioni disumane. Le autorità iraniane non esitano a usare ospedali psichiatrici come luoghi di punizione, dove le prigioniere vengono “rieducate” attraverso trattamenti forzati e abusi psicologici. La detenzione di attiviste e di donne dissidenti è una pratica comune, e la brutalità a cui sono sottoposte è una delle forme più gravi di violazione dei diritti umani in Iran. Le prigioniere politiche non sono solo vittime di torture fisiche, ma sono anche soggette a gravi abusi psicologici. Molte donne subiscono trattamenti violenti per aver osato alzare la voce contro il regime, ma la loro lotta non è vana.
Dunque, no. Le storie che tanto amiamo non ci danno solo degli obiettivi da desiderare. Perché la determinazione di queste donne è un segno che, nonostante la brutale repressione, la speranza di un Iran più libero e giusto continua a vivere.
Ad oggi l’Iran è l’unico Paese, insieme all’Afghanistan, in cui l’utilizzo del velo è previsto per legge. Ma le donne non hanno paura di tenersi stretta la propria dignità, anche a costo di rischiare la vita. Andare allo stadio, sentire le carezze del vento nei capelli: per le donne iraniane questi semplici gesti sono ancora oggi utopia. Ma se le limitazioni alla libertà femminile non sono nuove nel Paese, sembra che tra le nuove generazioni di giovani e giovanissime stia maturando una consapevolezza che porta a un inevitabile scontro con il regime. La nuova generazione non è più disposta ad accettare compromessi sui diritti e sulla libertà. La nuova generazione vuole parlare, senza tentare vie traverse per farsi sentire. La nuova generazione non ha paura di rivendicare la propria dignità. È esattamente quello che stanno dimostrando le donne che protestano nelle strade della nazione, a Teheran e nelle periferie. La tragica morte di Mahsa Amini nel 2022 e le lunghe pene detentive inflitte ad attiviste come Nasrin Sotoudeh sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso, che ha scoperchiato il vaso di Pandora, il cui contenuto inizia con la guerra, continua con l’occidentalizzazione di Khomeini e arriva fino ad oggi.
Sono anni che si discute dell’obbligo del velo, che è rimasto lì, non si è mosso, nonostante la proposta del referendum del 2019 per l’abrogazione della norma. E questi eventi, nel film, trovano un’eco dolorosa. Le restrizioni sui diritti matrimoniali, sull’eredità, sulla libertà di scelta e sulla violenza
domestica disegnano un sistema che soffoca le donne, rendendo ogni atto di resistenza una lotta titanica. Ed è per questo che Leggere Lolita a Teheran è molto più di un film. È un grido d’allarme, una denuncia e una celebrazione della resilienza umana. La storia di Nafisi e delle sue studentesse dimostra che la cultura può diventare uno strumento di resistenza, una strada verso la libertà. Anche nei momenti più bui. È un invito a riflettere sul ruolo delle donne nella società e sul valore inestimabile della libertà. Non solo in Iran, ma ovunque nel mondo.
Quindi, in questa partita dobbiamo giocare tutte noi donne. Sia che siamo obbligate a portare il velo, sia che non lo siamo. La normativa statale sul tema è una violazione dei diritti delle donne iraniane, della loro libertà di espressione, culto e religione. E bisogna continuare ad essere presenti al loro fianco. Contro un sistema patriarcale ed oppressivo bisogna continuare a far sentire la propria voce, affinché ogni donna sia libera di professare la propria religione nelle modalità che ritiene più opportune, e affinché a nessuna sia negata la libertà di sentire il vento tra i capelli.
Carmen Apadula
La pellicola si apre con una Teheran degli anni Ottanta, ricostruita con grande maestria nonostante le riprese siano state effettuate a Roma. L’atmosfera è soffocante: le donne vivono sotto un regime che impone leggi discriminatorie, come l’obbligo del velo, il divieto di cantare o ballare, restrizioni sul lavoro, lo studio e persino sulla libertà di movimento. Nafisi, interpretata magistralmente da Golshifteh Farahani, è un simbolo di resistenza. Non potendo più insegnare letteratura occidentale all’università si reinventa con coraggio, creando un gruppo di lettura clandestino per le sue studentesse. In una stanza segreta, lontano dagli occhi vigili del regime, leggono Lolita di Nabokov, Orgoglio e pregiudizio di Austen e altre opere iconiche della letteratura mondiale. La letteratura diventa il filo conduttore per affrontare temi proibiti come l’amore, la libertà e l’autodeterminazione. Ogni incontro è una scintilla di libertà, una rivendicazione dell’identità personale e culturale.
Le parole della Nafisi alle sue studentesse sono potenti: “Può un libro renderci liberi?” La risposta è evidente nell’atto stesso della lettura clandestina, che diventa una forma di protesta contro la repressione. La regia di Riklis è essenziale ma efficace. La performance di Golshifteh Farahani cattura perfettamente il dolore e la determinazione della Nafisi. La sceneggiatura, basata sul testo originale, riesce a intrecciare la dimensione personale con quella politica e culturale, creando un racconto universale sulla resistenza alla repressione. La fotografia, con i suoi toni caldi e opprimenti, richiama visivamente l’isolamento delle protagoniste, mentre le musiche evocano un senso di nostalgia per un passato più libero e un desiderio di cambiamento.
Il film non si limita a raccontare una storia personale, ma dipinge un quadro storico più ampio. Con l’avvento del regime khomeinista l’Iran, un tempo Stato laico, si trasforma in una Repubblica islamica che priva le donne di diritti che erano stati conquistati con fatica. Le cronache storiche, come quelle del 7 marzo 1979, quando Khomeini impose l’hijab obbligatorio e le donne riempirono le piazze per protestare, trovano eco nelle vite delle protagoniste del film. Anche le immagini di repertorio, come quella del sorriso spensierato di Sima, una hostess in minigonna negli anni Settanta, amplificano il senso di perdita e repressione. Sima, come tante altre, non avrebbe mai potuto immaginare un futuro in cui vestirsi liberamente sarebbe stato un atto di sfida.
Dopo aver visto il film la domanda che tormenta di più è: le storie che tanto amiamo possono darci solo degli obiettivi da desiderare? Ebbene, la risposta è che il film è intriso di storie di resistenza silenziosa, come quella delle donne che scelgono di mostrare una ciocca di capelli fuori dal velo o che sfidano le leggi patriarcali viaggiando senza il permesso del marito. Nel settembre 2022, migliaia di giovani donne e uomini sono scesi in piazza in tutte le principali città dell’Iran al grido di “Jin, Jîyan, Azadî” (“Donna, vita, libertà”). Le proteste sono scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, una giovane curda arrestata dalla polizia morale a Teheran per non aver indossato correttamente il velo. La 22enne era in vacanza con la famiglia quando, fermata davanti alla metropolitana, è stata condotta al centro di detenzione di Vozara. Secondo le autorità, la ragazza avrebbe avuto un collasso a causa di una precedente operazione al cervello, ma una TAC pubblicata dall’Iran International mostra chiaramente una frattura al cranio, segno di percosse. Il padre di Mahsa ha confermato che la giovane era in perfetta salute e che le gravi lesioni sarebbero state causate sul furgone della polizia. La sua morte, avvenuta dopo tre giorni di coma, ha scatenato proteste in oltre 80 città, portando a una violenta repressione. Ma la repressione ha un prezzo altissimo. Gli scontri hanno provocato centinaia di morti: almeno 551 manifestanti secondo le Nazioni Unite, tra cui 49 donne e 68 minorenni. Tra le vittime si contano anche delle
giovanissime come Nika Shakarami, 16 anni, rapita e uccisa dopo essersi opposta a un tentativo di violenza; Sarina Esmailzadeh, colpita alla testa dalle forze di sicurezza; e anche Hasti Narouie, una bambina di soli 6 anni, colpita da un candelotto di gas lacrimogeno, a Zahedan. Le famiglie delle vittime sono spesso costrette al silenzio, minacciate dalle autorità, che impongono versioni ufficiali come il suicidio o incidenti. Amnesty International ha raccolto testimonianze strazianti sulle sorti di almeno 44 minori, vittime di un regime che non risparmia nemmeno i più piccoli.
Le proteste, tuttavia, non si sono fermate. Nonostante la dura repressione, le donne iraniane continuano a lottare. Figure come Hadis Najafi e Hananeh Kia, entrambe uccise brutalmente durante le proteste, sono diventate simboli della lotta per la libertà. Ogni manifestazione, ogni atto di ribellione, rappresenta una sfida coraggiosa a un regime che tenta di soffocare ogni forma di dissenso. E la ribellione passa anche per il mondo dello spettacolo. C’è chi ha voluto mostrare il proprio pensiero attraverso dei murales e chi, invece, sfruttando la propria notorietà, si è ribellato pubblicamente al sistema. E così la procura di Teheran, nel 2022, ha convocato chi ha scelto questo modus operandi, con l’accusa di aver diffuso sui social media “commenti falsi, non documentati e provocatori”, a favore delle proteste. Fra questi, anche le attrici Elnaz Shakerdoust, Mitra Hajjar, Baran Kowsari, Sima Tirandaz, Katayoun Riahi e Hengameh Ghaziani. In particolare Hengameh Ghaziani e Katayoun Riahi sono le prime ad essere state arrestate per aver protestato in pubblico senza velo. Le due attrici sono state accusate di “collusione e cospirazione” contro le autorità religiose iraniane. La Ghaziani aveva pubblicamente accusato il regime di aver “assassinato” oltre 50 minorenni, e ha ricevuto il proprio capo di accusa dopo aver pubblicato su Instagram video che la ritraeva mentre, dopo essersi sfilata il velo, girava le spalle alla telecamera e si legava i capelli. Un gesto che è diventato un simbolo di questa lotta, come dimostra una delle tante ragazze che, durante una manifestazione, è stata ripresa in tale atto poco prima di essere uccisa. Prima dell’arresto, l’attrice ha dichiarato di sua spontanea volontà di essere stata convocata dalla magistratura. “Forse questo sarà il mio ultimo post su Instagram”, ha dichiarato. “Da questo momento in poi, qualsiasi cosa mi accada, sappiate che come sempre sono con il popolo iraniano fino all’ultimo respiro”. La Riahi aveva invece rilasciato un’intervista all’Iran International Tv, in cui aveva espresso solidarietà per le donne iraniane, dichiarando che: “La strategia coraggiosa dei giovani e degli adolescenti nelle strade ricorda le tattiche storiche dei partiti. Da qui deriva la parola partigiano. Come i nostri antenati, lottiamo per la libertà dell’Iran. Lunga vita all’Iran libero”.
Un’altra forte ribellione, forse la più forte, era arrivata invece da un’intera squadra di basket femminile. Sono state 16 le donne (13 atlete e 3 allenatrici) della Canco Canada BC ritratte in una foto di gruppo senza hijab e, a seguire, in un video in cui cantano spensierate. La foto, postata su Instagram dalla head coach Farzaneh Jamami, era accompagnata da un messaggio. Un messaggio importante, che esorta tutte le donne a sentirsi libere e svincolate dalle differenze di genere. “Insegna a tua figlia che i ‘ruoli di genere’ non sono altro che sciocchezze”, scrive coach Jamami. “Sei preziosa e insostituibile. E se ti viene detto il contrario, non crederci. Non nasconderti. Alzati. Tieni alta la testa e mostra ciò che hai! Dì che sei forte e potente. Tu sei una donna libera”. E poi, come descrizione del video: “Una generazione coraggiosa, giusta, intelligente, libera. Ho imparato molte lezioni da voi. Siete voi, belle, coraggiose e potenti ragazze dell’Iran”. Più che un post, un atto di coraggio, più forte di mille parole. Ma che ha fatto anche tremare il regime. Così tanto che l’allenatrice è stata costretta a pubblicare un post “riparatore”, in cui ha dovuto affermare, e chiarire, di essere fedele alla Repubblica islamica e all’hijab. Ma la squadra è stata anche costretta a rifare la foto, stavolta con il capo coperto. Come vuole la tradizione. La società ha inoltre preso le distanze dall’accaduto, comunicando via Instagram che quella era una “foto privata, fatta prima di una partita ufficiale, e pubblicata senza permesso sulla pagina personale dell’allenatrice”. E del video? Nulla. Neanche l’ombra di una spiegazione. Ma la cosa più grave è che, qualche ora più tardi, sul profilo di coach Jamami era apparso un post in lingua farsi, cui è stata disattivata la possibilità di lasciare un commento. “In nome di Dio, della vita e della sapienza”, vediamo scritto “Saluto il popolo iraniano. Sono Farzaneh Jamami, allenatrice della squadra di basket Canco. Senza nessuno scopo e intenzione anti-hijab, vi dico che ho pubblicato una foto nella mia pagina privata. Alcuni media ne hanno approfittato per pubblicare questa foto senza chiedere il permesso. Presto un’azione legale”. Dunque la macchina del potere si era attivata, facendo sì che la società dicesse qualcosa che andasse bene al governo. E attenzione, è stato anche sottolineato che “le giocatrici e lo staff tecnico hanno giocato con l’hijab, indossato subito dopo aver scattato la foto. I media hanno scritto bugie”.
La repressione ai danni delle donne e delle ragazze non si è però esaurita ai mesi più caldi delle violenze. Migliaia di donne hanno bruciato l’hijab e si sono tagliate i capelli come simbolo di ribellione, affrontando arresti, torture e persino condanne a morte. Mahnaz, una giovane manifestante, è stata internata di forza in un ospedale psichiatrico dopo aver indossato un costume da bagno in pubblico. E la sua vicenda è solo uno dei molti esempi di come il regime utilizzi la violenza fisica e psicologica per reprimere il dissenso. Nel frattempo, le università sono diventate un nuovo epicentro della resistenza, come dimostra anche il film. Alla Sharif University of Technology di Teheran, la polizia antisommossa ha sparato sui manifestanti e lanciato gas lacrimogeni contro gli studenti che scandivano slogan come “Donna, vita, libertà. Gli studenti preferiscono la morte all’umiliazione”. Le autorità iraniane, da parte loro, attribuiscono le rivolte a interferenze straniere, con l’Ayatollah Ali Khamenei, che accusa Stati Uniti e Israele di fomentare il malcontento.
Nel corso del 2023 e nei primi mesi del 2024 le autorità hanno continuato a perseguire le donne che non rispettano le regole sull’abbigliamento, compiono perquisizioni nei locali e sui mezzi pubblici. “Nel bieco tentativo di fiaccare la resistenza all’obbligo del velo sulla scia della rivolta ‘Donna, vita, libertà’, le autorità iraniane stanno terrorizzando donne e ragazze sottoponendole a una costante sorveglianza e a controlli di polizia, sconvolgendo la loro vita quotidiana e causando loro un immenso disagio mentale”, ha sostenuto Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. "Le loro tattiche draconiane vanno dal fermare le donne che guidano per strada, alla confisca di massa dei loro veicoli, all’imposizione di fustigazioni e pene detentive disumane“.
Il cinema iraniano è da sempre stato un importante strumento di resistenza contro l’oppressione politica e sociale. Film come Leggere Lolita a Teheran non solo raccontano storie di coraggio e di resistenza, ma sono anche uno strumento di denuncia delle violazioni dei diritti umani che avvengono nel Paese. Il cinema permette di raccontare storie che altrimenti rimarrebbero nascoste, dando voce a chi vive sotto il giogo della censura e della repressione. Il film di Riklis, con la sua potente narrazione, riesce a portare sullo schermo le difficoltà quotidiane delle donne iraniane, che lottano per preservare la loro identità e la loro libertà. La scelta di raccontare una storia di lettura clandestina e resistenza culturale, in un contesto così oppressivo, diventa una metafora della resistenza delle donne iraniane, che nonostante le persecuzioni continuano a lottare per la propria libertà, per il diritto di autodeterminarsi e di esprimersi liberamente.
Le carceri iraniane sono tristemente note per le atrocità commesse contro le prigioniere, specialmente quelle politiche. Le donne che si oppongono al regime vengono arrestate, torturate e costrette a vivere in condizioni disumane. Le autorità iraniane non esitano a usare ospedali psichiatrici come luoghi di punizione, dove le prigioniere vengono “rieducate” attraverso trattamenti forzati e abusi psicologici. La detenzione di attiviste e di donne dissidenti è una pratica comune, e la brutalità a cui sono sottoposte è una delle forme più gravi di violazione dei diritti umani in Iran. Le prigioniere politiche non sono solo vittime di torture fisiche, ma sono anche soggette a gravi abusi psicologici. Molte donne subiscono trattamenti violenti per aver osato alzare la voce contro il regime, ma la loro lotta non è vana.
Dunque, no. Le storie che tanto amiamo non ci danno solo degli obiettivi da desiderare. Perché la determinazione di queste donne è un segno che, nonostante la brutale repressione, la speranza di un Iran più libero e giusto continua a vivere.
Ad oggi l’Iran è l’unico Paese, insieme all’Afghanistan, in cui l’utilizzo del velo è previsto per legge. Ma le donne non hanno paura di tenersi stretta la propria dignità, anche a costo di rischiare la vita. Andare allo stadio, sentire le carezze del vento nei capelli: per le donne iraniane questi semplici gesti sono ancora oggi utopia. Ma se le limitazioni alla libertà femminile non sono nuove nel Paese, sembra che tra le nuove generazioni di giovani e giovanissime stia maturando una consapevolezza che porta a un inevitabile scontro con il regime. La nuova generazione non è più disposta ad accettare compromessi sui diritti e sulla libertà. La nuova generazione vuole parlare, senza tentare vie traverse per farsi sentire. La nuova generazione non ha paura di rivendicare la propria dignità. È esattamente quello che stanno dimostrando le donne che protestano nelle strade della nazione, a Teheran e nelle periferie. La tragica morte di Mahsa Amini nel 2022 e le lunghe pene detentive inflitte ad attiviste come Nasrin Sotoudeh sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso, che ha scoperchiato il vaso di Pandora, il cui contenuto inizia con la guerra, continua con l’occidentalizzazione di Khomeini e arriva fino ad oggi.
Sono anni che si discute dell’obbligo del velo, che è rimasto lì, non si è mosso, nonostante la proposta del referendum del 2019 per l’abrogazione della norma. E questi eventi, nel film, trovano un’eco dolorosa. Le restrizioni sui diritti matrimoniali, sull’eredità, sulla libertà di scelta e sulla violenza
domestica disegnano un sistema che soffoca le donne, rendendo ogni atto di resistenza una lotta titanica. Ed è per questo che Leggere Lolita a Teheran è molto più di un film. È un grido d’allarme, una denuncia e una celebrazione della resilienza umana. La storia di Nafisi e delle sue studentesse dimostra che la cultura può diventare uno strumento di resistenza, una strada verso la libertà. Anche nei momenti più bui. È un invito a riflettere sul ruolo delle donne nella società e sul valore inestimabile della libertà. Non solo in Iran, ma ovunque nel mondo.
Quindi, in questa partita dobbiamo giocare tutte noi donne. Sia che siamo obbligate a portare il velo, sia che non lo siamo. La normativa statale sul tema è una violazione dei diritti delle donne iraniane, della loro libertà di espressione, culto e religione. E bisogna continuare ad essere presenti al loro fianco. Contro un sistema patriarcale ed oppressivo bisogna continuare a far sentire la propria voce, affinché ogni donna sia libera di professare la propria religione nelle modalità che ritiene più opportune, e affinché a nessuna sia negata la libertà di sentire il vento tra i capelli.
Carmen Apadula