La terza stagione de La fantastica signora Maisel, approdata su Amazon Prime Video lo scorso 6 dicembre, ribadisce il primato della creatura di Amy Sherman-Palladino, già autrice di Una mamma per amica, come uno dei prodotti seriali più sofisticati e ficcanti degli ultimi anni, corroborato da una risonanza della scrittura in grado di fare della protagonista Miriam Maisel, interpretata da una sempre eccellente Rachel Brosnahan, un archetipo di brillantezza tra i più iconici, sferzanti e magnetici dei nostri tempi.
Dopo aver accettato un importante tour accanto al cantante Shy Baldwin, che la porterà a cimentarsi in ben diciotto tappe, e alla vigilia di uno snodo centrale per la sua carriera nella stand-up comedy, ritroviamo Midge alle prese con una serie di passaggi chiave che investiranno tanto il suo personaggio quanto l’evoluzione della sua arte umoristica. Forte di questo punto, La fantastica signora Maisel alza la posta in gioco delle sue ambizioni, tornando a riflettere sulle radici della comicità e della femminilità odierne e allargando il proprio sguardo alla quasi totalità dell’America, a partire da Las Vegas (ma l’apice di questa terza stagione si consuma probabilmente in quel di Miami).

La minuziosa attenzione ai dettagli, in questo senso, continua a lasciare di stucco per qualità e quantità, a cominciare da quelle scene corali e di ampio respiro con una vocazione smaccata per piani sequenza e coreografie a effetto. Ogni passaggio è pronto a far saltare il banco e a declinare la verbosità di fondo del concept verso un rutilante e travolgente spettacolo concertistico a tutto tondo, foriero di scenografie e costumi sfavillanti e di una sontuosità sgargiante ma non per questo non tagliente, che gioca d’accumulo per fare il pieno, a sua volta, di sfarzosa auto-ironia.
Il cabaret, dal canto suo, torna a essere il campo di battaglia più propulsivo possibile ora come ora, in un momento storico in cui è più che mai necessario interrogarsi sui confini del politicamente corretto, della liceità di certe stoccate, dei meccanismi alla base delle rappresentazioni e delle minoranze, siano esse sessuali e di genere, sociali o più banalmente identitarie. Il barocchismo intrinseco ai dialoghi, al servizio di ciò, è perfettamente funzionale al disegno complessivo: un po’ di stupore, giocoforza, si perde, in rapporto alle prime due stagioni della serie di Amazon Studios (con annessa una dose di frammentarietà nel carburare), ma le sue prerogative riaffermano un’inalienabile potenza.

Al confronto con la Midge newyorkese del Gaslight, il terzo segmento seriale de La fantastica signora Maisel propone al contempo una netta continuità rispetto a quanto esplorato nelle due precedenti stagioni, ma anche delle prospettive più a largo raggio che rimpolpano la storyline sia sul fronte dei singoli personaggi (la Susie di Alex Borstein, puntualmente strepitosa, i genitori Abe e Rose, l’ex Joel, ma anche i nuovi innesti come il Reggie di Sterling K. Brown e la Mei di Stephanie Hsu) sia su quello puramente psicologico.
Un versante, quest’ultimo, mai approfondito con pedanteria, ma sovreccitato da una generosità che tracima di continuo nell’affresco di costume, nello svolazzante spaccato d’epoca, in un andirivieni forsennato che rimane uno dei più stimolanti e decisivi ritratti di donna rintracciabili nel panorama audiovisivo globale: per il portato di sfaccettature, per la densità briosa ma senza compromessi e per la capacità di seppellirci di risate con una pregnanza caustica, intelligente e liberatoria che di questi tempi sul piccolo schermo si è vista solo in Fleabag di Phoebe Waller-Bridge, in maniera opposta ma forse, a pensarci bene, spaventosamente complementare.

Davide Stanzione