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Master MICA - Analisi de "La strada dei Samouni"

Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

Caterina Sangalli - La strada dei Samouni (2018) di Stefano Savona


La strada dei Samouni è un documentario girato nel 2009-2010, intervallato nella narrazione da parti di animazione, diretto da Stefano Savona e scritto insieme a Penelope Bortoluzzi e Léa My- sius. Le animazioni del film, ultimate nel 2018, sono state curate dal disegnatore e illustratore Si- mone Massi. Il film ha vinto il Premio della Giuria “Oeil d’Or" come miglior film documentario al Festival di Cannes 2018.
L’autore, Stefano Savona, ha realizzato, nel corso degli ultimi dieci anni, documentari in zone di conflitto, testimoniando guerre e rivoluzioni. Il suo cinema-documentario descrive il presente, pro- ponendosi di stimolare una riflessione, attraverso racconti il più fedele possibile alla realtà delle si- tuazioni. I suoi lavori focalizzati sul Medio Oriente, con argomenti potenzialmente molto simili, tuttavia si differenziano per le modalità di racconto, sempre diverse.

Savona, mentre era a Gaza per girare Piombo Fuso, un documentario che racconta della vita nei ter- ritori palestinesi durante gli ultimi drammatici giorni dell’omonima operazione, ebbe l’occasione di conoscere la famiglia Samouni, la quale era rimasta vittima di un evento inenarrabile. Fu proprio per questo motivo che Savona decise che la storia dei Samouni non poteva non essere raccontata. Il mondo avrebbe dovuto conoscere la loro storia, affinché la storia non si ripeta, e affinché nessun’al- tra famiglia debba più subire i soprusi, e le pene, che quotidianamente vengono riservate ai più de- boli, che non hanno la forza, e i mezzi, per denunciarli.
ll regista ha così deciso di vivere per un intero mese con la famiglia Samouni, la quale era stata de- cimata da un violento attacco sferrato dall’esercito israeliano, senza apparenti giustificazioni.
Il film in questione racconta, allora, una storia di resistenza, narrata tanto allo scopo di rendere giu- stizia a questa famiglia, quanto per stimolare una profonda riflessione su una situazione che non sembra, oggi, avere soluzioni.
I Samouni diventano così il simbolo di un intero popolo, dipinto come un popolo criminale, costret- to a pagare un prezzo spesso troppo alto, per il semplice fatto di non volere abbandonare la propria terra.
Con La strada dei Samouni Savona ci offre la possibilità di conoscere, attraverso riprese senza in- terferenza di telecamera e interviste, un popolo fatto di persone per bene, che niente hanno a che fare con il terrorismo, ma che si trovano, quotidianamente, a subirne l’ombra.
Ne La Strada dei Samouni, il regista fa dell’immagine delle zone colpite il luogo dello smarrimento e della solitudine. Vagando per le rovine della città fantasma, Savona, da un lato, restituisce il rumo- re della morte nei silenzi, dall’altro, la confusione delle persone scampate all’offesa di un nemico letale: si tratta, dunque, di cinema del reale, in grado di rappresentare la realtà, semplicemente ri- portandola. Ci viene, quindi, mostrata la quotidianità del quartiere di Al-Zeitoun, un piccolo villag- gio agricolo che diventò un mucchio informe di macerie. Qui abita la famiglia Samouni.
I Samouni sono l’esempio di resistenza e resilienza, dimostrando come, dopo la guerra, sia possibile ricostruire quanto distrutto, aiutandosi reciprocamente, ripartendo da zero; dai mattoni per ricostrui- re le case, ai tubi per l’acqua corrente.
Non c’è una sceneggiatura, o una ricostruzione della scenografia, non ci sono attori che impersona- no le vittime; lo spettatore entra direttamente a far parte della tragedia. A raccontarla, per la maggior parte, sono i bambini che l’hanno vissuta.
Nessuno di loro chiede aiuto, o pietà, e a emergere sono, piuttosto, la forte determinazione a volersi rimettere in piedi, sempre e sopratutto grazie alla fede in Dio.
Nelle parole del Corano, i Samouni trovano il conforto necessario per andare avanti, e per credere che il futuro sarà migliore.
D’impulso viene allora da chiedersi, nel corso di tutto il film, il perché tutto questo; perché questa famiglia umile, con valori tradizionali, e un grande rispetto per Dio, per il matrimonio e per la natu- ra sia stata privata di tutto ciò che aveva.
Come anticipato, la maggior parte del racconto è affidata ai bambini.
La prima sequenza ci mostra la protagonista della storia: Amal, che in Palestina significa “speranza”, vittima dell’operazione Piombo Fuso del 2009.
Fin da subito capiamo che non è una bambina come tutte le altre.
Amal ci dice qualcosa di lei ancora prima di cominciare con il suo racconto. “Non mi ricordo di nessuna storia, io non lo so di come si racconta una storia”.
Il trauma subìto sembra aver provocato l’incapacità di ricordare, e, quindi, di raccontare.
Amal ci mostra, disegnando per terra con un bastoncino, dove era un anno fa il sicomoro; un albero di oltre 150 anni, di grandi dimensioni, sul quale i bambini si arrampicavano per raccogliere i frutti e per giocare, e che è stato distrutto dai soldati israeliani nel corso dell’operazione Piombo Fuso, la quale, oltre ad aver causato la distruzione di moltissime piante come il sicomoro, ha distrutto anche la sua famiglia: il padre e il fratello sono, infatti, rimasti uccisi.
Amal, davanti a noi, si copre gli occhi con il cerchietto, e si tappa le orecchie, come se volesse iso- larsi dalla realtà.
Qui inizia il ricordo.
Nel corso di tutto il film i ricordi vengono mostrati allo spettatore sotto forma di animazioni: le im- magini animate emergono senza alcuna introduzione, come avviene con i ricordi nella nostra mente. Presente e passato si mescolano, ricordo e realtà si intrecciano. Amal ricorda di quando, sotto il grande albero di sicomoro, si riparò dalla pioggia con i suoi fratelli e con il padre.
Ricordando, Amal ci mostra di come quest’ultimo chiedeva a lei e ai suoi fratelli se ricordassero di come Dio, nei passi della sura del Corano, spiegasse l’importanza della pioggia per la vegetazione. I disegni, realizzati a mano, ricordano la tecnica dell’incisione, e sono molto realistici. Grazie a questa tecnica cupa in bianco e nero, con i graffi sui volti che segna i visi delle persone, è possibile rivivere la drammaticità della situazione. Il film permette di rivivere i ricordi, non solo di ascoltarli dalla voce delle persone.
L’acqua è nominata come dono di Dio più di 50 volte nel corano; è il dono più importante dopo la fede, fa nascere la vegetazione, e la vegetazione significa vita per l’uomo.
L’acqua è l’elemento sulla base del quale Dio ha creato l’universo. Il mezzo attraverso il quale l’essere uomo si purifica. L’acqua come origine di ogni forma di vita.
Il suono che accompagna le immagini non si identifica immediatamente come musica. I rumori della realtà si mescolano piano piano, creando una melodia. I rumori reali utilizzati, e mescolati, crea- no una sorta di musica contemporanea, che, allo stesso tempo, genera una realtà sonora, irrealistica, come una sorta di sinfonia della memoria.
Bambini e ragazzi raccontano dei famigliari persi e delle piante abbattute. Non rievocano il ricordo del tempo passato insieme, o del gioco, ma piuttosto delle piante che hanno coltivato, e il valore di esse. Le piante di ulivi venivano tramandate da generazioni, come se fosse l’unica cosa che posse- devano. Il ricordo dei famigliari è associato alle piante: l’ulivo rappresenta le radici di questa fami- glia rispetto alla loro terra, e al tempo stesso rappresenta la continuità nel passaggio da padre in figlio. Gli alberi sono memoria e ricchezza al tempo stesso.
Un bambino, Mahmoud, ci mostra il suo piccolo tesoro, del quale si prende cura: la pianta di mandorle che difende con tanto amore. Chiunque si avvicini alla sua pianta, lasciatagli in eredità dal padre, deve comportarsi con la consapevolezza in quanto unico ricordo di suo padre. Il suo obiettivo è proteggere quest’albero per tutta la sua vita.
Amal ci ripropone di nuovo un suo disegno: con un pastello nero disegna sul muro cosa è successo. Sceglie di comunicare tramite immagini anziché le parole. Come se non riuscisse a esprimere il trauma con la voce, ma solo tramite il disegno.
Il disegno è lo strumento espressivo che vediamo utilizzare quotidianamente dai bambini. Strumento attraverso il quale i bambini sembrano aprire agli adulti, spesso inconsapevolmente, la porta d'ingresso per il loro mondo interiore: i bambini rappresentano sul foglio le loro emozioni, gli stati d'animo, i desideri, le paure, i traumi. Con i disegni, i bambini, spesso riescono a comunicare il loro benessere, o, al contrario, sono in grado di suonare un campanello d’allarme quando le cose non vanno bene.
In tutto il film, infatti, vediamo più volte la rappresentazione dell’attacco israeliano tramite i disegni. Il colore nero sembra coincidere con l’assenza di ricordi felici. I ricordi sono stati macchiati dalla guerra. Il nero è la negazione del colore per antonomasia, e rappresenta il confine che segna la conclusione della fase vitale. È il colore che indica l’assenza di speranza: il nero è il colore della notte, ed è proprio durante la notte che la famiglia Samouni è stata attaccata.
I bambini non parlano, ma disegnano. Chi disegna il proprio padre che non c’è più, chi, come Amal, disegna le cose che c’erano prima della guerra, disegna il sicomoro, e disegna i soldati mentre sparano al padre; passa il tempo a disegnare, e cancellare, subito, con la sabbia, come se volesse cancellare il dolore.
Muna disegna il matrimonio, l’unico momento di evidente sollievo nel corso del film. Vediamo an- che il filmato del matrimonio di Helmi, avvenuto 12 anni prima, e celebrato sotto il sicomoro. Ci ricolleghiamo a un ricordo animato, come se si volesse prolungare il filmato, e, allo stesso tempo, il ricordo: infatti, a prendere vita, è la prospettiva stessa della telecamera.
Cercando di ricordare la canzone che cantava il padre, si pentono di non averla trascritta, non si immaginavano che sarebbe arrivata la guerra, e che avrebbero distrutto tutto. Il rimpianto per una vita semplice si alterna all’incredulità di tanta violenza, arrivata all’improvviso, che ha ribaltato i tempi della quotidianità. Piani opposti e sovrapposti vengono resi proponendo in animazione piccoli frammenti, di pochi secondi, di ricordi di uccelli ed elicotteri in cielo.
Ecco ritorna una sequenza di vita quotidiana: la madre, i figli, la preparazione del pasto, la televisione. La mamma racconta ad Amal cosa succede nel film che stanno guardando in tv: “Lui è il buono e sta per uccidere il suo amico, se lo merita perché ha ucciso tante persone. Con tutto il sangue che ha perso non è ancora morto, si è rialzato. Si alza chiamando la ragazza dicendo che è l’altro ad avergli ucciso il padre, quando in realtà è il colpevole. La ragazza cerca di capire quale sia la verità e viene spinta dal ragazzo, se continuano a spintonarsi cadranno e moriranno insieme.” Sembra essere una metafora per descrivere la situazione tra Israele e Palestina; vediamo noi stessi in quello che succede in tv, la lite tra i due uomini rappresenta quella tra i due popoli, e la ragazza innocente rappresenta i civili.
Ancora una volta quello che succede in televisione risulta simbolico: i cartoni dei bambini mostrano un aereo, che vola in alto per sorvegliare meglio la città, e subito ci colleghiamo a un ricordo in animazione: la televisione e il cambio di canali, dalla pubblicità al calcio, alla preghiera, al telegiornale che racconta degli attacchi: vediamo esplosioni e case distrutte, ci viene mostrato il settimo giorno di attacco sulla striscia di Gaza.
Come immagine sovrapposta ai bombardamenti vediamo i genitori di Amal prima dell’attacco alla famiglia: di nuovo, nel racconto, il prima e il dopo si sovrappongono. Li vediamo come riflessi nelle immagini degli attacchi.
Finito il ricordo ci ritroviamo senza luce nella stanza, i bambini ridono e scherzano sui materassi prima di addormentarsi e, ancora, affiora il ricordo della guerra e di quando erano tutti riuniti nella stanza, per proteggersi dall’attacco. Ecco, nel ricordo, il padre racconta della sura dell’elefante, come se volesse anticipare quello che sta per accadere; “Gli uccelli lanciano palle d’argilla per di- fendersi dall’attacco dell’elefante che sta distruggendo tutto”, i soldati, proprio come degli elefanti, arrivano a Gaza per distruggere qualsiasi cosa. La fede, però, offre spiragli di luce: l’elefante che devasta e rovina tutto non vince, perché stormi di uccelli lo fermano.
Di nuovo il sicomoro, immagine rassicurante, il padre di Amal e i suoi fratelli si riuniscono sotto il grande albero: è stato annunciato un attacco. La famiglia deve decidere se rimanere o scappare; ma perché scappare? Lo spiegano in prima persona il perché non hanno alcun motivo per dover scappa- re, “qui siamo contadini, non ci sono né combattenti né militanti”.
Durante l’attacco il padre di Amal va ad aprire la porta ai soldati che bussano, e viene ucciso di colpo. Viviamo 10 secondi di nero. Successivamente colpiscono la casa, la quale va a fuoco, con all’in- terno tutta la famiglia, compresi i bambini piccoli. Si ripresenta lo stesso fotogramma di Amal chesi copre le orecchie, come all’inizio del film. Subito dopo compare una talpa che scava nella terra, in profondità, e Amal, da sopra, le urla di scappare. L’inquadratura ritorna su Amal, con gli occhi chiusi e le mani sulle orecchie. Con queste due scene che si alternano, sembra come se fosse lei a voler scappare, proprio come la talpa. Farsi strada tra le macerie per raggiungere un posto sicuro. Si concentra per estraniarsi da ciò che sta accadendo, per allentare il dolore per aver appena assistito alla morte violenta del padre e non sa ancora come finirà questa guerra, pensa che verranno uccisi tutti, dice che vuole fuggire dall’attacco in corso.
Il regista, che non era presente né prima né durante l’attacco, decide di ricostruire l’avvenimento attraverso i documenti e le fonti ufficiali, per testimoniare, e mostrare, la sequenza degli eventi del- l’operazione militare. Abbiamo la visione soggettiva del drone militare: il drone è un terzo occhio sulla vicenda, ogni materiale visivo genera un mondo, ogni mondo non comunica con gli altri. Il punto di vista del drone (freddo, distaccato), rappresenta qualcosa di realmente accaduto. Il tutto alternato con l’animazione disegnata a mano (qualcosa di autentico, artigianale, emotivo) e il dialo- go mixato tra gli ordini scanditi dal comandante dell’esercito, e le preoccupazioni della famiglia. Questo, come a voler evidenziare prospettive diverse e alternate, non sovrapposte, ma incatenate per raccontare la paura e il dolore.
I soldati osservavano con un drone i membri della famiglia Samouni, convinti che fossero dei terroristi. Aprono il fuoco sulla casa, sui civili, distruggendo tutto. La parte della casa bombardata viene rappresentata più scura e graffiata, come se fosse un incubo: i bambini, le madri e i fratelli sono morti. I pochi sopravvissuti cercano di scappare dalla casa.
Continua l’alternanza di conversazioni, tra i civili che ci raccontano cosa è successo, e le comunica- zioni radio con il comando.
Pur se la voce di un soldato, in sottofondo, cerca di avvisare il comando che potrebbe trattarsi di civili, di bambini, di neonati, l’ordine è definitivo: aprire il fuoco!
Anche la Croce Rossa, la quale arriva quattro giorni dopo il bombardamento, è impotente davanti a questa tragedia. Amal, viene addirittura lasciata nella casa distrutta, insieme con altri venti cadaveri, ritenendo che anche lei fosse rimasta uccisa.
Termina la prospettiva del drone; si alternano le voci dei soccorritori con quelle dei sopravvissuti.
Il regista ha cercato, dopo aver raccolto le testimonianze, di trasformare i ricordi in animazioni, seguendo uno stile cinematografico lontano, quindi, dallo stile triviale della televisione. Il regista non intende raccontarci accadimenti politici, oppure del contesto sociale in cui vivono le vittime, il film racconta le vicissitudini di una piccola realtà familiare che non ha voce. Parla di un presente tralasciato dai media.
Con l’aiuto di documenti e foto, i superstiti, con la Croce Rossa, cercano di ricostruire i fatti e stila- re una lista dei morti e dei feriti.
Alcuni civili, nel frattempo, cercano tra le macerie coperte e cadaveri.
Viene ripreso l’interno di una casa completamente distrutta, e vengono inquadrate le scritte sui muri lasciate dai soldati durante l’attacco; si ripresenta di nuovo il tema del disegno: come segno del loro passaggio, e come segno di forza. Vengono rappresentate tombe e morti. È una bambina a portarci all’interno, per mostrarci quanto lasciato sulle pareti di quella che un tempo era la sua casa: “certo che non sono mica normali”, commenta a voce alta.
A sua volta ci mostra un suo disegno, nel quale ha rappresentato la sua famiglia con i carri armati, e ci racconta di come sua madre è stata uccisa, colpita da un missile.
Nel mezzo di questa situazione, caratterizzata dalla disperazione, ecco affiorare il senso della vita che nonostante tutto continua. Una coppia si chiede se valga davvero la pena di sposarsi, dopo tutto quello che è successo. Solo Dio li potrebbe aiutare. Ed è proprio nella fede, nella lettura del Corano, che questi ragazzi trovano la forza di andare avanti, con la sola pretesa di avere una vita normale. È nella fede in Dio che si cela il filo rosso che unisce, e giustifica la fatica necessaria per resistere.
La situazione è critica, ma nonostante tutto, il matrimonio fa rinascere la speranza, ricostruire per poter avere una casa, cercare lavoro per poter avere dei soldi significa ricominciare nonostante “tutti da gaza vogliono scappare, ogni giorno è peggio da quando c’è il blocco”.
Il presente implica che a volte non c’è elettricità, manca l’acqua corrente e bisogna trovare le risorse per riuscire a sopravvivere.
La scelta di Amal come protagonista è dettata dalla volontà di raccontare una storia dentro una sto ria. È la stessa madre di Amal a raccontarcela; la storia di una bambina che è stata colpita in testa dalle schegge durante i bombardamenti, e che ha resistito per tre giorni nella casa bombardata in- sieme ai cadaveri dei suoi famigliari.
Nel sentire questo ultimo dettaglio, Amal, per un attimo, guarda diretta la telecamera, e sembra che, in silenzio, guardi noi spettatori.
Ancora, non sono necessarie le parole per comunicare il dolore.
I soldati israeliani hanno sradicato più di 800.000 piante nel corso dell’operazione Piombo Fuso, allo scopo di privare i contadini del principale mezzo di sostentamento, e così obbligarli ad andarsene.
In Palestina l’ulivo è il simbolo della vita; sia per il mantenimento, quale fonte di lavoro, sia perché gli viene tradizionalmente attribuito il significato di radicazione nella propria terra, di volerci nasce- re, crescere e morire in serenità. Ne consegue che per ogni ulivo sradicato, si accresce ancora di più il disagio, e la ferita che deriva dall’occupazione e della mancanza di libertà e giustizia. L’ulivo, nel corso dell’occupazione, ha acquisito un ulteriore significato: la resistenza di un popolo, e la sua volontà di continuare a resistere nonostante tutto.

“Perché dobbiamo soffrire tanto, noi che siamo nati qui?”

Anche noi spettatori ci chiediamo il perché di tutto questo, dopo essere rimasti spiazzati dall’afflizione con la quale, una frase così densa di emozioni, viene pronunciata, in una apparente totale mancanza di carica emozionale.
Dopo la tragedia i partiti di Hamas, Jihad e Fatah si sono rivolti alla famiglia Samouni per le con- doglianze, ma il portavoce della famiglia non ha voluto incontrare nessuno. Nessuno avrebbe dovuto strumentalizzare il loro dolore, o proclamare che le vittime fossero schierate come combattenti.
I Samouni vorrebbero semplicemente vivere, come molte altre famiglie che abitano la Palestina, dignitosamente, senza prendere parte alla faida.
Secondo alcuni dei sopravvissuti, anzi, è proprio questa divisione interna della Palestina a rafforzare Israele. Questo concetto viene spiegato da un sopravvissuto disegnando sulla sabbia un cerchio, poi dividendolo.
Un anno dopo l’attacco, il regista è tornato a Gaza dalla famiglia Samouni.
Il documentario riapre con i festeggiamenti del matrimonio di cui, precedentemente, lo spettatore aveva avuto modo di conoscerne i protagonisti.
Gli sposi spiegano di voler escludere che esponenti politici, in quanto tali, possano partecipare alla festa; questo perché, come abbiamo già avuto modo di scoprire, la famiglia Samouni non intende schierarsi con alcun partito.
Questo matrimonio è il primo festeggiamento dopo l’attacco, e tutti desiderano solo essere felici e spensierati.
La felicità, per i Samouni, è semplicemente stare insieme. Sentono il bisogno di vivere un’esistenza normale, senza interferire con le grandi questioni politiche.
Con l’abbattimento delle abitazioni, delle coltivazioni, e con l’accumulo di macerie, non sono più identificabili i confini delle proprietà terriere, e si crea, così, tensione tra gli uomini, per aggiudicar- si materiali di costruzione, cisterne per l’acqua, e campi per coltivare. Sembra come se l’obiettivo dei soldati fosse stato non risparmiare niente e nessuno; il messaggio doveva essere chiaro, esemplare. Le donne, intanto, cercano di mantenere il ritmo della quotidianità, e i bambini, nella loro semplicità, ci invitano a vedere il sangue dei cugini morti. La scena è particolarmente cruda, soprattutto perché i protagonisti sono dei bambini. Alla loro età nessuno dovrebbe mai trovarsi in queste situazioni; loro, al contrario, sembrano vivere l’orrore con una naturalezza traumatizzante.
Per l’ennesima volta nel corso del film, dei ragazzi ci raccontano dei genitori scomparsi associando- li alle piante di cui si prendevano cura. Ritorna il tema dell’albero quale simbolo di vita. Sembra come se, di fronte alla distruzione, l’obiettivo principale sia quello di ricostruire e riseminare, di tornare a vivere.
Ora è il piccolo fratello di Amal a disegnare suo padre; racconta che da grande vorrebbe entrare nel- la resistenza, per vendicare suo padre. Ma la madre lo mette subito in guardia, spiegando che i partiti approfittano proprio di casi come il suo. L’odio genera odio, e in un attimo ci accorgiamo di quanto sia importante, soprattutto in un momento di grande sofferenza come questo, insegnare ai propri figli a non desiderare la vendetta.
L’illogicità del dominio dell’uomo sull’uomo conduce alla distruzione, al deserto; solo i legami importanti, con la terra, con la famiglia, tendono al futuro.
Savona ha avuto la grande capacità di raccontare questo clima di costante insicurezza e fragilità rivelando minuto dopo minuto, per tutto il documentario, come la questione palestinese resti aperta, contemporanea e attuale. Lo ha fatto attraverso il racconto stesso dei legami, della quotidianità dei contadini, ci mostra come si vive, ma anche come si muore lontano da noi; come si disegna, come si ride e come si piange. Di come bisogna imparare a fermarsi, guardare e cambiare il presente prima di immaginare il futuro. Che la tecnologia è qualcosa in più, mentre i legami sono tutto.
Ogni essere umano vive di questi legami, a prescindere dalla terra che si trova ad abitare, e ogni es- sere umano è portatore di diritti inalienabili. La responsabilità della società civile ove questi fossero violati è quella di non voltarsi dall’altra parte: “Il silenzio del <mondo civile> è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte.” [Vittorio Arrigoni].
Per dare voce a tutti gli oppressi di una terra come Gaza, la cinepresa di Savona diventa così lo strumento mediante il quale si può testimoniare e rendere la testimonianza racconto.
La cinepresa diventa il ponte tra il narratore e lo spettatore, permettendoci di sentirci tutti parte della stessa resistenza. 

Un anno dopo l’operazione Piombo Fuso gli Israeliani isolarono 1.400.000 Palestinesi dal mondo esterno, costringendoli a vivere in condizioni di povertà disperate. La realtà è che il blocco non prende di mira i gruppi armati ma piuttosto l’intera popolazione di Gaza, limitando l’ingresso di cibo, forniture mediche, strumenti educativi e materiale da costruzione rappresentando così uno strumento di punizione collettiva.
Mentre proseguivano le lotte politiche interne, sia in Cisgiordania, sia a Gaza, le autorità hanno lanciato minacce e intimidazioni contro attivisti e giornalisti, nell’intento di reprimere il pacifico esercizio della libertà d’espressione, di informazione e di dissenso. Secondo l’NGO Centro palestinese per lo sviluppo e le libertà degli organi d’informazione, durante l’anno le autorità palestinesi della Cisgiordania si erano rese responsabili di 147 attacchi alla libertà di stampa. Questi comprendevano arresti arbitrari, maltrattamento durante gli interrogatori, confisca di attrezzature, aggressioni fisiche, divieti imposti sulle attività giornalistiche e la messa al bando di 29 siti web critici nei confronti delle autorità della Cisgiordania.

 

 

 
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