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Master MICA - Analisi di "American Animals"

Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

Maria Concetta Fontana - American Animals (2018) di Bart Layton

American Animals segna l’esordio alla regia di un’opera di finzione di Bart Layton, anche se questa definizione non appare la più esatta, dal momento che il film è costruito come si trattasse di un vero e proprio documentario, intervallando la ricostruzione dei fatti tramite attori alle interviste ai protagonisti della vicenda. Ma a differenza di mockumentary come Tonya, in cui si utilizzava la stessa tecnica narrativa, Layton si spinge oltre coinvolgendo i veri autori del furto, e non accontentandosi nemmeno di questo ibrida ulteriormente i due generi facendo talvolta interagire gli attori con le persone che interpretano all’interno della stessa scena.
Il film si apre con una citazione da L’origine della specie di Darwin, da cui il regista trae ispirazione per il titolo e dove si fa riferimento al luogo in cui è ambienta la storia, il Kentucky. Quando sullo schermo la frase si dissolve, il nome dello Stato finisce per sovrapporsi prima all’immagine di un rapace rosso sangue, e in particolare al suo occhio, e poi a quello di uno degli attori protagonisti, stabilendo un parallelismo tra i personaggi, la cui identità è rappresentata dallo sguardo e dal luogo in cui vivono, e gli uccelli. Collegamento che è ulteriormente evidenziato dalla locandina in cui le teste dei protagonisti sono sostituite da quelle di alcuni volatili.
Le inquadrature iniziali si alternano, collegandosi, a dipinti di animali che tengono tra gli artigli le prede o stanno per attaccarle. Non è un caso che il simbolo dell’America sia proprio l’aquila, che essendo uno dei più grossi rapaci presenti in natura rinvia a un atteggiamento predatorio assimilabile a una cultura individualista.
American Animals infatti parla di identità, ma non si riferisce soltanto a quella dei protagonisti, ma a quella statunitense in generale, raccontando di una storia legata all’idea di sogno americano da raggiungere a tutti i costi, come suggerisce non soltanto il titolo, ma molteplici riferimenti, tra cui la presenza in varie occasioni della bandiera a stelle e strisce.
Alla base dell’opera vi è un fatto di cronaca che ha visto protagonisti quattro studenti, che per dare una svolta alle loro esistenze hanno deciso di rubare alcuni preziosissimi volumi custoditi all’interno di una biblioteca, tra cui Birds of America del pittore Audubon. Dopo essere venuto a conoscenza di questa storia, il regista ha contattato i rapinatori e da quella corrispondenza è nata la sceneggiatura del film, alla cui scrittura quindi hanno avuto un ruolo importante i veri protagonisti.
Un’altra frase che compare sullo schermo, anticipando il tipo di opera a cui si sta per assistere, è “This is not based on a true story”, che poco dopo si trasforma in “This is a true story”. Una dichiarazione di intenti che evidenzia come il film non è semplicemente basato su una storia vera, ma vuole esserlo, facendo riferimento a un tema portante: l’autenticità, o presunta tale.
Il protagonista infatti si sta truccando, cercando di camuffare la propria identità, e dunque alludendo a una realtà che non è quella che sembra.
L’identità, o meglio la sua continua ricerca, e il fatto di essere disposti a superare una determinata linea morale pur di raggiungere il proprio scopo, è un tema caro al regista, come dimostra la sua opera d’esordio dal titolo inequivocabile L’impostore. Il documentario racconta di un criminale che per anni ha assunto identità false ed evidenzia anche l’interesse di Layton per storie vere talmente incredibili da sembrare più film che fatti di cronaca. Inoltre, in entrambi i casi i protagonisti sono criminali che mettono in scena una vera e propria pantomima.
Tornando all’analisi di American Animals, dopo primi minuti carichi di tensione, in cui sembra che qualcosa di importante stia per succedere, si fa un salto indietro nel tempo mentre il protagonista si trova a un colloquio universitario in cui gli esaminatori affermano di volerlo conoscere meglio. Quando sta per rispondere l’inquadratura dell’attore viene però sostituita da quella del vero Spencer, che si presenta al posto suo. Si tratta di uno dei primi elementi che evidenziano il continuo e repentino ibridarsi delle due dimensioni. Subito dopo si ritorna alla finzione ma in questo caso il giovane si mostra turbato, non sapendo come rispondere alla domanda: “Chi sei tu, in quanto artista?”.
Si tratta di una richiesta apparentemente semplice ma che dimostra l’incertezza nel definire la propria personalità, che farà scattare nella mente del ragazzo una serie di interrogativi su se stesso, che saranno alla base del film.
La domanda rimane senza risposta, o meglio l’unica che ci viene offerta è data dalla scena successiva in cui si vede Spencer partecipare alla festa organizzata da una confraternita maschile. Un rito di iniziazione a base di alcool e virilità, dove occorre affrontare una serie di prove, umilianti ma necessarie per entrare a far parte del gruppo e quindi per sentirsi qualcuno.
Ma una volta superatole, il giovane continua a sentire un vuoto. Attaccato alla porta della sua camera si nota un poster in cui è scritto “The history of demolition”, che suona come messaggio premonitore dal momento la storia di Spencer sarà quella di un comunissimo bravo ragazzo che cadrà in una spirale autodistruttiva a causa di una ricerca disperata di un’identità in grado di caratterizzarlo come artista.
Come detto al colloquio, infatti, alla gente non basta il suo talento artistico, ma ci si aspetta anche dalla sua vita qualcosa di speciale, e la via utilizzata per raggiungere questo scopo sarà quella dell’autodistruzione, proprio come in Fight Club, con cui American Animals ha in comune la critica alla società omologata che si trasforma in un comportamento masochista. Lo stesso regista ha raccontato che uno dei ragazzi ha affermato di essersi sentito parte di un gruppo come quello della pellicola di Fincher. La sequenza subito dopo crea  un  interessante  gioco  di  riflessi  che  evidenzia ulteriormente  il  tema  dell’identità,  mostrando  Spencer  che  sta  ritoccando  un autoritratto, rappresentazione di come lui vede se stesso, e dall’altra parte lo specchio, che invece riflette l’immagine che il mondo esterno ha di lui.
A questo punto il vero Spencer interviene a spiegare il turbamento a cui stiamo assistendo, raccontando di come sia cresciuto leggendo le biografie di importanti artisti, accomunate dalla sofferenza, mentre sullo schermo si alternano le immagini di celebri autoritratti. Anche in questo caso la macchina da presa si sofferma sullo sguardo, e più precisamente sugli occhi, da sempre considerati specchio dell’identità. Proprio quegli occhi che, ritornando al suo autoritratto, il protagonista buca con le dita, per poi guardare attraverso lo scorcio appena fatto, alla ricerca di quel qualcosa dentro di sé in grado di renderlo unico, ma che non riesce a trovare.
Incapace di avere risposte su se stesso, Spencer pensa forse di poterle trovare nel suo miglior amico, che però appare fin da subito come un tipo poco affidabile, come dimostra il fatto che quando ci viene mostrato il vero Warren la musica di sottofondo, da sketch comico, e il suo atteggiamento infantile fanno pensare che sia più finto dell’attore che lo interpreta. Ma proprio per questo suo modo di fare Spencer ne è affascinato, lasciandosi trascinare dalla sua voglia di vita. L’attore rompe la quarta parete rivolgendosi direttamente al pubblico, ma la frase che comincia viene conclusa dal vero Spencer, evidenziando ulteriormente la natura metacinematografica della storia.
A questo punto intervengono anche gli intervistati esterni, che definiscono Warren una spezia capace di dare gusto a un piatto altrimenti scialbo. In una vita ordinaria come quella di Spencer, l’amico strano e ribelle rappresenta dunque l’ancora a cui aggrapparsi per fuggire da quella monotonia.
Mentre è intento a rubare il cibo da un ristorante per salvarlo dallo spreco, Warren fa un’arringa in perfetto stile Tyler Durden, scagliandosi contro una società nella quale tutti pensano di voler cose che in realtà non vogliono davvero. Vengono così anticipati il tema della rapina e le motivazioni interiori che spingono quattro giovani a compiere un simile gesto. A Warren infatti interessa fare qualcosa che lo faccia sentire vivo, come dirà subito dopo cantando a squarciagola il brano I’m Alive, in cui si dice anche “I’m real”, collegandosi così a un concetto portante del film, la ricerca di qualcosa di vero, che però finirà nell’esatto opposto.
Questo momento di euforia finisce subito e si passa alla malinconia, con i due amici che si ritrovano a interrogarsi sul senso delle loro esistenze, ammettendo di essere in attesa di qualcosa che cambi la loro vita, ma non sapendo cosa sia.
L’illuminazione avviene quando Spencer partecipa a una visita guidata nella biblioteca dove è conservato il prezioso volume Birds of America, rimanendo colpito dalla storia del pittore, che dopo essere finito in prigione realizzò il capolavoro che lo rese celebre. Il protagonista è intento a osservare l’opera all’interno di una teca di vetro, che riflette la sua immagine e il dipinto stesso, in un gioco di rimandi che evidenzia quello che sta cominciando a farsi spazio nella mente del giovane: le risposte su di sé che sta cercando può trovarle in quel libro.
Adesso cominciano le prime incongruenze tra il racconto di Spencer e Warren, riguardo al luogo in cui hanno parlato dell’opera, alludendo a un possibile furto. Ma il regista, invece che scegliere un punto di vista, mischia le due versioni tramite un montaggio che alterna gli spazi, festa e macchina, come se si trattasse di un’unica scena fatta di campi e controcampi. Tant’è che frasi o gesti che cominciano in una scena terminano nell’altra, o addirittura discorsi riferiti a un ambiente, vengono pronunciati nell’altra location. In questo modo il regista non prende le parti né dell’uno né dell’altro, non scegliendo tra due verità ma mescolandole.
Ma l’apice della contaminazione tra realtà e finzione è quando l’attore si ritrova in macchina con il vero Warren e gli chiede conferma di ciò che sta raccontando, ma nemmeno lui ne è così sicuro. D’altra parte è inevitabile che con il passare del tempo i ricordi si facciano confusi e si cominci a inventare per rendere tutto più avvincente oppure per riempire, anche involontariamente, i vuoti di memoria.
Tornando alla storia, Spencer non è ancora convinto di trasformare quelle fantasie in azioni concrete e commettere una rapina, e per convincerlo l’amico cita Le ali della libertà, in cui alla fine i protagonisti fuggono di prigione cominciando una nuova vita. Alla risposta di Spencer che vorrebbe riportarlo con i piedi per terra, Warren ribatte chiedendo se non è curioso di scoprire quello che accade “davvero nella vita reale”, dimostrando di scambiare totalmente la finzione con la realtà, come se la rapina, che nella sua mente immagina alla stregua di un film, fosse più vera rispetto a quello che sta vivendo.
A confermare tutto questo è la scena seguente, quando finalmente anche Spencer si è deciso ma non avendo idea di come comportarsi i due fanno un’improbabile maratona di heist movie per imparare dal cinema, a partire dai classici come Rapina a mano armata, e immergendosi talmente nella pellicola che per un attimo anche loro diventano in bianco e nero.
Comincia così la pianificazione del piano come si trattasse di un’opera cinematografica e i riferimenti a questo modo di agire saranno costanti.
Spencer, che è un pittore, si occupa di disegnare la piantina della biblioteca e realizza anche qualche schizzo, simile a storyboard, mentre fanno i sopralluoghi delle location dove avverrà la rapina.
Dato che questa avventura non ha un unico regista, ma narratori diversi, quando due versioni non combaciano si ritorna indietro per rifare una scena, oppure si apportano piccole modificate in medias res, come se il film fosse una ricostruzione istantanea di ciò che i veri protagonisti della storia stanno raccontando.
Momento significativo per quanto riguarda invece i temi trattati è il dialogo tra i due amici e il padre di Warren, in cui si fa riferimento al successo, altra costante del film che si collega a un sistema di valori basato sull’idea del self-made man e sulla retorica della battaglia da cui occorre uscirne vincitori.
Il genitore considera l’attività artistica di Spencer una perdita di tempo, e dice al figlio di concentrarsi sulla sua carriera sportiva, proprio come ha fatto lui, concludendo la sua raccomandazione con la frase: “Chi molla non vince mai e chi vince non molla mai”.
Eppure, accade che quell’uomo, che faceva lezioni di vita, qualche minuto dopo si ritrova a piangere a causa del fallimento del proprio matrimonio, sottolineando come ciò che la società, incarnata in questo caso dalla famiglia, pensa sia la strada giusta per avere successo e raggiungere la tanto agognata felicità, la cui ricerca è addirittura garantita dalla Costituzione americana, può rivelarsi un’illusione.
Dopo come spesso accade un discorso, cominciato dal personaggio reale durante l’intervista, termina nella scena di finzione ed è lo stesso Warren a dire: “…insomma chissà se è andata veramente così”. Conferma del fatto che nemmeno gli stessi protagonisti sono sicuri della propria memoria e il regista decide di ammetterlo candidamente di fronte allo spettatore, giocando con il concetto di verità citato nella dichiarazione inziale in cui affermava invece che questa è una storia vera.
Da questo punto di vista la parte in cui Warren si reca ad Amsterdam per contrattare con i ricettatori è particolarmente importante perché durante quell’incontro si parla di autenticità. Al giovane infatti viene chiesto di rivolgersi a una casa d’aste per ottenere il certificato e provare che i dipinti siano veri, e non è un caso che, come vedremo, sarà proprio questa richiesta a determinare la fine dell’avventura.
Subito dopo Warren, citando Lo squalo, dice all’amico che “serve una barca più grossa” per indicare la necessità di trovare altri complici. Entra così in scena Eric, nei cui appunti presi durante una lezione si legge la scritta “fuck this shit”, dimostrazione della sua insofferenza nei confronti della realtà circostante.
Ancora una volta Warren non può fare a meno di utilizzare una citazione cinematografica, e durante il dialogo in cui propone all’amico se vuole entrare a far parte del piano che sta escogitando gli chiede: “pillola azzurra o piccola rossa?”. L’iconica frase di Matrix risulta particolarmente azzeccata dal momento che scegliere una delle due pasticche significa intraprendere una vita che sembra un sogno, in questo caso un heist movie, o altrimenti restare bloccati nella monotona realtà di tutti i giorni. Il film contrappone dunque un mondo in cui ognuno è schiavo di un sistema e un altro costituito invece da esperienze sconosciute, da esplorare per comprendere cosa significa vivere veramente.
In questo caso il college rappresenta una prigione, avamposto in cui si formano gli uomini di domani, e quindi secondo l’idea di Warren degli automi.
Altra scena significativa infatti è quella del suo colloquio con il direttore atletico dell’università, che ha come tema centrale la delusione. Il preside fa riferimento al dispiacere che provocherebbe al padre se dovesse perdere la borsa di studio a causa delle sue numerose assenze. Ma a questa minaccia di deludere il padre, Warren risponde che quello a essere deluso nei confronti di una vita che pensava di volere è lui, e questo sentimento si estende anche al preside stesso, all’istituzione che rappresenta e all’intera città, confessando così la sua insofferenza nei confronti della società circostante, a cui ha deciso di non sottomettersi più.
Tornando alla preparazione del piano, la scena successiva mostra i tre ragazzi che immaginano come avverrà la rapina, in questo caso citando un altro celebre heist movie come Ocean Eleven, in cui protagonisti si ritrovano davanti a un modellino a pianificare tutto nei minimi dettagli. Nella loro mente i tre aspiranti rapinatori si muovono come esperti criminali, con la stessa eleganza di quelli della pellicola di Soderbergh. Ad aumentare l’idea di una rapina che sembra un balletto ben coreografato è l’utilizzo del piano sequenza che suggerisce come tutto sia fluido e scorra liscio. Almeno finché, uno dei registi, Eric, chiama lo stop perché la sceneggiatura che stanno scrivendo non funziona e risulta troppo irrealistica. Occorre una barca ancora più grande come direbbe Warren, ovvero una quarta persona, ed è interessante il modo in cui viene introdotta.
I tre giovani infatti si trovano in una specie di scantinato e a questo punto la macchina da presa si muove verso l’alto per mostrarci quello che sarà il nuovo membro del gruppo, proveniente da una famiglia più benestante e dunque ai vertici della scala sociale. Si tratta di Charles, che racconta di essere stato cresciuto anche lui con l’idea del successo, diventando un imprenditore fin da piccolo e seguendo le orme paterne, come ribadiscono le persone intervistate. Si nota infatti fin da subito come tutti si concentrino più sulla disponibilità economica del padre, invece che su di lui. Nonostante sia un giovane privilegiato con un futuro pieno di possibilità, anche Charles dunque decide di mettere a rischio tutto per realizzare una rapina e guadagnare soldi di cui non ha bisogno. Quello che gli interessa veramente, ma non soltanto lui, è infatti la possibilità di impegnarsi in un’avventura che cambi il corso di un’esistenza già scritta. Lo spirito imprenditoriale tipicamente americano, come sempre evidenziato dalla presenza di un’enorme bandiera che fa da sfondo alla sua conversazione con Warren, lo spinge a commettere anche azioni illegali.
Una volta formatosi il gruppo dei quattro improbabili rapinatori è il momento dell’attribuzione dei nomi, riferimento alle Iene, tra cui il famigerato “pink”, che anche in questo caso suscita l’insofferenza da parte del ragazzo a cui è stato assegnato. Da notare però che la sequenza si chiude con la domanda di uno dei ragazzi, che in riferimento al film di Tarantino chiede: “alla fine non morivano tutti?”. Si tratta di una frase che passa inosservata ma che in realtà anticipa come nemmeno il loro piano andrà come sperato. Non tutti i film di rapine hanno un lieto fine alla Ocean Eleven, altri come appunto quello di Tarantino vedono i suoi protagonisti morire, anche solo metaforicamente.
Comincia la preparazione materiale del colpo, così dopo aver scritto la ‘sceneggiatura’, è l’ora della messa in scena. A Spencer spetta il compito di procurarsi i costumi e il make-up, e al venditore incuriosito risponde che quel materiale gli serve per girare un film.
Per quanto riguarda le acconciature, si sceglie di travestirsi da vecchi signori e il motivo è che “essere anziani è come essere invisibili”, soprattutto in una società giovane come quella americana, in cui si è ossessionati dalla realizzazione personale il prima possibile.
È il giorno della rapina e ci ritroviamo immagini simili a quelle viste all’inizio. La tensione accumulata cresce e mentre Spencer guarda dal finestrino, scorge se stesso, quello vero, che lo sta osservando. Per la seconda volta un attore incrocia la persona che sta interpretando. In questo caso lo scambio di sguardi sembra un ammonimento da parte dell’uomo, ormai più maturo, che vorrebbe avvertire il suo io più giovane dell’errore che sta commettendo.
Una volta arrivati alla biblioteca però c’è un ostacolo e la rapina non avviene. Colui che è infuriato per il fallimento del piano è Warren, che però, davanti a uno scaffale pieno di pacchi di patatine tutte molto simili, decide di ritentare il colpo. Non vuole essere un prodotto come tanti altri, deve fare qualcosa che lo distingua dalla massa, e il fatto che sia contro la legge lo rende ancora più speciale, un’accusa contro una società in cui non si riconosce. Da notare come una delle location più utilizzate nel film siano proprio i supermercati, emblema dell’omologazione, in cui si trovano in massa prodotti tutti uguali.
Adesso però Spencer decide di tirarsi indietro e non partecipare più alla rapina. Andato a informare Warren, l’amico gli rinfaccia l’idea di futuro che vorrebbe preservare, unoin cui occorre comportarsi in un determinato modo per essere considerati uomini di successo, dicendogli anche che tra dieci anni potrebbe rimpiangere di non aver provato a oltrepassare quella linea di un’esistenza sicura ma alienante.
Dopo essere corso via, Spencer ha un’allucinazione e vede il famoso fenicottero rosa, dipinto sul libro che avrebbero dovuto rubare, materializzarsi davanti a lui. Percepisce il tutto come l’invio ad andare avanti e agire, smettendola di aspettare che nella sua vita avvenga qualcosa di importante mentre lui non fa nulla perché accada. Così se per Warren erano state le più prosaiche patatine, per Spencer è più una questione artistica. È nuovamente in giorno della rapina, quella vera. E questa volta infatti non ci sarà nessun travestimento. Anche se il personaggio di Warren è vestito in maniera elegante, molto diverso dal solito, un look che lo fa sembra una delle iene di Tarantino.
Una volta entrati nella stanza della biblioteca, si nota che la pagina su cui il libro aperto non è più quella del fenicottero ma un’altra, elemento che viene subito percepito come cattivo presagio. Anche perché il dipinto esposto mostra un’immagine più inquietante rispetto al volatile rosa apparso a Spencer la sera prima, quella di un uccello con il becco sporco del sangue della preda appena catturata, che Warren non può fare a meno di guardare identificandosi.
E infatti le cose andranno storte e la rapina avverrà in maniera folle e rocambolesca. Quando poi i ragazzi proveranno a rivendere l’unico libro che sono riusciti a rubare, sarà il famoso certificato di autenticità a decretare la fine di tutto, a causa di un errore che rischia di smascherarli. A questo punto Charles, quello con il futuro maggiormente stabile e promettente e che quindi più di tutti ha da perdere, in preda al panico punta una pistola in faccia ai suoi amici gridando: “Questo la mia vita non è un fottutissimo gioco”, concludendo con “ci avete uccisi”.
In questo momento è come se i protagonisti si svegliassero dal sogno/film che hanno vissuto finora, rendendosi conto delle conseguenze negative a cui le loro azioni li hanno esposti, e del fatto che se muori non puoi più tornare indietro.
Superata la famosa linea invisibile che separava un’esistenza come le altre da quella di persone che hanno vissuto l’esperienza di una rapina, le emozioni, che si desiderava provare, gravano pesantemente sulla propria coscienza.
I quattro vengono arrestati e mentre Spencer è trascinato fuori dalla sua camera si vede un nuovo autoritratto in cui però il suo volto appare provato, rispetto al dipinto iniziale. In sottofondo si sentono le parole del brano dal titolo Who by fire, che parla di morte e si contrappone all’I’m Alive cantato nella prima parte del film. In questo caso a ‘uccidere’ i nostri’ protagonisti è stata la voglia di uscire dall’anonimato a tutti i costi. Dopo aver sostituito la finzione con immagini di archivio che mostrano i momenti dell’arreso dei quattro giovani, il vero Warren ribadisce di essere cresciuto con l’idea di essere speciale e dover fare qualcosa in grado di dimostrarlo, per poi rendersi conto che non è vero. Questa esperienza ha rappresentato per lui un modo per realizzare quel qualcosa di straordinario, di cui aveva parlato con Spencer all’inizio, dove l’aggettivo va inteso letteralmente come “fuori dall’ordinario”. Come si legge anche nella tagline della locandina: “nobody wants to be ordinary”.
Nell’ultima parte però si insinua il dubbio su ciò che è stato raccontato. Alcune scene viste all’inizio vengono rimostrate ma da una prospettiva diversa. Tra cui il famoso viaggio ad Amsterdam fatto per incontrare i presunti ricettatori interessati all’acquisto dei volumi rubati. Adesso sia Spencer che Charles sembrano non crederci più, pensando di essere stati talmente influenzati da Warren da finire per assimilare la sua storia per comodità.
Così come i quattro rapinatori non sono riusciti a ottenere il certificato di autenticità delle opere rubate, nemmeno la veridicità della storia appena raccontata può essere davvero accertata e lo spettatore non saprà mai qual è la verità.
Un’inquadratura mostra il famoso dipinto del fenicottero rosa ricostruito tramite un collage. Questo tipo di immagine indica l’unico modo in cui si può arrivare a una presunta verità, ovvero attraverso un puzzle che mette insieme tanti elementi diversi che soltanto visti da lontano e nel loro insieme sembrano avere un senso, ma in realtàsono disomogenei. E lo stesso si può dire dell’identità, che risulta qualcosa di frammentato.
I protagonisti di American Animals sono giovani che, invece che affrontare la realtà con il suo sistema di regole e la sua prevedibilità, hanno cercato nell’illegalità un modo per uscirne. Si sono improvvisati attori di un film e hanno provato a riscrivere la propria storia da protagonisti con una nuova identità, ma si sono dovuti scontrare con le conseguenze reali di quelle azioni. Il sogno che hanno voluto vivere si è trasformato in un incubo.
Il film si conclude mostrando come tre dei protagonisti abbiano intrapreso carriere incentrate, non a caso, sul raccontare storie: Eric sta cercando lavoro come scrittore e sul suo tavolo si vede un manoscritto dal titolo American Animals: a memoir, Charles sta scrivendo un libro su come allenarsi in prigione e Warren studia produzione cinematografica.
Spencer invece dipinge uccelli, proprio come Audubon. Anche lui dopo aver vissuto un’esperienza forte ha acquisito quel qualcosa in più che cercava, ma confessa che non ne è valsa la pena.
Nei titoli di coda mentre ritornano le immagini dei dipinti di volatili, la canzone in sottofondo è Crucify Your Mind che racchiude il senso del film, raccontando di quella sete che ci tormenta facendoci credere di avere qualcosa di unico da offrire, spingendoci alla ricerca di un senso da dare a quelle ombre che ci perseguitano davanti allo specchio e ci chiedono di dimostrare chi siamo, perdendoci nel sogno illusorio secondo il quale per creare arte occorre prima rendere la nostra vita arte essa stessa.
In definitiva si potrebbe dire che American Animals più che di una rapina, racconta di quattro aspiranti ‘registi’ che hanno messo in scena un heist movie finito male.
Bart Layton ha confezionato un’opera rappresentativa della contemporaneità, che riesce ad avere una propria identità pur nutrendosi di numerose citazioni, smontando concetti come verità e autenticità, e dunque decostruendo gli elementi che separano il documentario dalla finzione.

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