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Master MICA - Analisi di "Anon"
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

Valentina Chiara Mariani - Anon (2018) di Andrew Niccol

Una breve introduzione
Anon di Andrew Niccol, prodotto dalla K5 Film, esce nell’estate del 2018. Distribuito online da Netflix a partire dal 4 maggio, raggiunge le sale cinematografiche del Regno Unito e dell’Irlanda una settimana più tardi, accaparrandosi anche il piccolo schermo grazie al coinvolgimento di Sky Cinema. È un film che, già nella distribuzione, risulta a tutti gli effetti contemporaneo.
Pur utilizzando nelle aree anglosassoni i classici canali, la sala, la strategia worldwide sceglie infatti lo streaming come modalità prediletta. Eppure, questi non sono i soli motivi che mi portano a considerare il film in esame particolarmente rappresentativo del nostro tempo. Le ragioni spaziano dalle tematiche, numerose e variegate, alla pura estetica, e considerano più prospettive. Per motivi di spazio, affronterò solo alcuni di questi aspetti, facendo una cernita in base all’importanza del tema all’interno del film e alla rilevanza per la mia tesi: dimostrare che Anon, nella folta schiera di lungometraggi distribuiti ogni anno, rispecchi in particolar modo tratti tipicamente contemporanei.

Anon, riflesso della nostra società
Al nominare Andrew Niccol subito balenano in mente titoli come Gattaca - La porta dell’universo o The Truman Show, film degli ultimi anni Novanta che, grazie a una forte firma autoriale, scardinano ciò che c’è di consueto nella nostra società e propongono visioni distopiche, alimentando riflessioni di ampio respiro. Non stupisce che l’ultima fatica di Niccol prosegua nella medesima direzione e vada a esasperare tematiche dei giorni nostri sino a catapultarci in una realtà ai limiti del surreale. Anon, che non ha avuto lo stesso successo dei suoi predecessori, ma che, similmente, affronta tematiche scottanti, non esita infatti a rivelarci una società che vive sotto il giogo della realtà aumentata. Con una non troppo velata critica a un mondo sempre più connesso e sempre più tecnologico, il nostro, lo spettatore si trova così in un microcosmo in cui il vero padrone non è più l’uomo, ma l’Ether. Questo immenso sistema informatico che collega ogni cosa è al centro di tutto: ogni interazione umana gli passa attraverso ed è tramite il proprio “occhio mentale” che si accede alla sua interfaccia.
Gli occhi, la cosiddetta finestra dell’anima, sono dunque la porta d’ingresso a questo mastodontico sistema che rivela la sua natura multiforme dopo appena qualche scena dall’inizio del film: non solo è una banca dati, è anche un sistema di sicurezza nazionale, uno strumento di messaggistica, un archivio personale e tanto altro ancora. È un apparato composito che attraversa lo spazio e unisce tutto e tutti: è una rete di cui ogni individuo è partecipe sin dalla propria nascita e trasforma ogni occhio in una telecamera biologica. La privacy è dunque il prezzo da pagare per vivere in questo universo che monitora ogni spostamento e invade lo spazio personale senza il minimo rispetto. Ma se la privacy in questa società è defunta, con lei è caduta anche la libertà personale. Non si è mai veramente soli, ogni mossa è infatti soggetta al giudizio di una macchina.
L’Ether è l’occhio vigile a cui nulla sfugge ed è in grado, come mostrato in una delle sequenze iniziali, di rilevare con un certo margine di autonomia potenziali atti criminali. A pochi minuti dall’inizio del film risulta dunque chiaro come l’uomo sia ormai schiavo di una tecnologia che, sì, dà la possibilità di accedere alla realtà aumentata e a tutti i vantaggi a essa connaturati, ma in cambio di questo beneficio annulla ogni pretesa di privacy da parte dei cittadini. Ciò che fino a qualche momento prima poteva apparire come un semplice strumento di approfondimento, un qualcosa di potenzialmente eccitante e di futuristico, mostra quindi il suo vero volto: l’Ether non è altro che il Grande Fratello di George Orwell formato elettronico e l’uomo, nel film di Niccol, deve necessariamente sottostargli senza diritto di replica. Sfuggirgli non è contemplabile, tanto che l’anonimato verrà additato come nemico pubblico esattamente a metà film. Non sorprende quindi che i personaggi, costretti a vivere in un mondo dove ogni passo è registrato e dove la fuga è impensabile, siano tristi nei loro abiti sartoriali e nelle loro auto lucide.
Facendo un passo indietro e riflettendo sulle modalità di accesso a questo sistema, è peraltro emblematico notare che siano proprio gli occhi, da sempre sinonimo del mondo interiore e della coscienza, a fungere da canale d’accesso all’Ether. È come se i personaggi, svendendo i propri occhi in cambio di qualche vantaggio nel quotidiano, avessero rinunciato alla propria privacy e alla propria anima. Questa conclusione viene peraltro rafforzata dall’indolenza dei personaggi, che similmente al mondo in cui si trovano ad abitare, freddo e spoglio, mostrano poche e misurate emozioni, ai limiti dell’apatia. Apatica è anche la fotografia. La palette dei colori è fredda, con una predominanza di grigi e di neri, e le protagoniste indiscusse della scena sono spesso malinconiche panoramiche con grattacieli di cemento su cieli altrettanto grigi. Paradossalmente la città, con la sua estetica asettica e fuori dal tempo, è abbellita solo dai metadati che i protagonisti riescono a ricavare dall’Ether.
L’impressione complessiva è quindi che in questa società manchi la vita: in altre parole, un mondo che dichiara nemico pubblico l’anonimato non è degno di essere vissuto, o almeno, non appieno; dato che annienta la possibilità di custodire un segreto, di nascondere parti di sé e, soprattutto, di ricominciare da zero. Un semplice errore o un momento di debolezza possono facilmente decretare la disfatta totale in un sistema che non dimentica nulla e non permette di dimenticare.
Quello che ci propone Niccol in Anon è quindi il regime totalitario del futuro, non a caso era proprio il ministro della propaganda del Terzo Reich a sostenere che chi non ha nulla da nascondere, non ha nulla da temere. Lo slogan potrebbe però facilmente applicarsi anche alla nostra società. In un’epoca come la nostra in cui i social sono il medium per eccellenza e gli influencer sono le nuove figure di riferimento: il traguardo è la visibilità. Più si mostra, meglio è e chi non dispone di un profilo online è considerato al pari di un emarginato e, talvolta, con un velo di sospetto. Le norme non scritte della nostra società richiedono infatti di disporre di almeno un social, basti pensare, per esempio, a LinkedIn. Per ottenere sbocchi lavorativi, LinkedIn è ormai un bene fondamentale e chi non è iscritto alla piattaforma potrebbe andare incontro, di fatto, a un’ostracizzazione professionale. Ci troviamoquindi di fronte a un mondo che si sta avvicinando sempre di più a un relativo annullamento della privacy. Come ricordano molti libri sulla comunicazione online, una volta che i dati personali vengono immessi nella rete, rimarranno infatti online. Si rammenti inoltre che con la rivoluzione dei Big Data, con l’utilizzo massivo dei social e l’avvio di un’era digitale sempre più simbiotica5, chiunque utilizzi internet o disponga di un mobile è diventato un utente e viene profilato, indipendentemente o meno dall’utilizzo dei social, e l’enorme mole di dati che ogni giorno si immette in rete viene salvata e talvolta controllata, come insegna, primo fra tutti, il caso Snowden. Oltretutto, per quanto si sia iniziato ad avere una maggiore coscienza sull’effettivo utilizzo dei nostri dati, non è possibile bloccare concretamente questa tendenza. L’unica soluzione efficace sarebbe non utilizzare dispositivi elettronici, ma in un mondo sempre più globalizzato, non è possibile scollegarsi. Chiaro, dunque, è il parallelismo tra noi e i personaggi di Anon. Eppure, vi è una sostanziale differenza a separarci. Noi siamo loro, ma non proprio: approfondiamo. Se noi possiamo ancora riscattarci e operare una scelta, Sal e con lui tutti coloro che vivono sotto il giogo dell’Ether non hanno infatti più questo lusso. O meglio, come suggerisce il finale, la possibilità è idealmente attuabile, ma difficilmente conseguibile nella pratica. La grande differenza consiste quindi nel grado di dipendenza dalla tecnologia.
Sempre riguardo al giogo che stringe i protagonisti di Anon, è inoltre interessante considerare il significato stesso di “Ether” nella lingua inglese. Il Cambridge Dictionary chiarisce che la parola, come in italiano, ha più valori semantici e può indicare tanto un liquido incolore, utilizzato come anestetico, quanto il cielo o l’aria stessa, intesi come mezzi di onde radio. Il primo significato è sicuramente il più caratteristico e, leggendo delle sue abilità anestetiche, subito tornano alla mente i protagonisti che popolano questo thriller fantascientifico. I personaggi, come ho già anticipato, risultano infatti apatici, come se, per l’appunto, fossero narcotizzati. Il dubbio si fa sempre più concreto e sorge spontanea una domanda. Che il nome stesso voglia indicare non troppo sottilmente la tossicità di un tale sistema?
Molto probabile. Numerosissimi sono gli indizi che il regista ha lasciato nel corso di tutto il film per segnalare gli aspetti negativi di una società con un simile livello di controllo. Oltre alla patina indolente che caratterizza l’intera produzione e coinvolge ogni aspetto, dai personaggi che vivono esistenze vuote e sole, agli ambienti grigi e scuri che ricorrono continuamente, un’ulteriore conferma ci è data dalla frase iniziale in apertura al film. Subito dopo il titolo, su uno sfondo nero in cui si intravedono delle scintille, appare la scritta: “I give the fight up: let there be an end, a privacy, an obscure nook for me. I want to be forgotten even by God”. La citazione, di Robert Browning, poeta britannico dell’Ottocento, è tratta dal V atto del Paracelsus, da un dialogo espresso dal protagonista in punto di morte. La cosa più significativa, tuttavia, si nasconde non tanto dietro alla citazione, eloquente già di per sé, ma in quelle scintille che scorgiamo alle sue spalle. Le immagini che fanno da sfondo al passo sono le stesse della scena in cui la protagonista femminile, Anon, ripensa al proprio passato, al momento in cui ha distrutto la propria identità e si è data all’anonimato, bruciando ogni traccia materiale della propria esistenza. Sono anche le stesse scintille che ritroveremo nei titoli di coda.
È come se Niccol strizzasse l’occhio allo spettatore e, già dal primo minuto del film, facesse capire al suo pubblico che la storia, sì, ha come protagonista un detective impegnato a risolvere una serie di omicidi, ma la figura centrale è Anon, donna in carne e ossa, personificazione dell’anonimato. La ragazza, infatti, non è altro che una metafora, la concretizzazione di un’ideale, tant’è che al termine del film il suo nome rimarrà un mistero. Peraltro, è curioso notare che, durante la scena in cui la giovane donna cancella ogni traccia della propria esistenza, a scorrere sia proprio il testo del Paracelsus. Tra lei e Paracelso viene quindi a crearsi l’ennesimo parallelismo, ma, se il personaggio del dramma nel V atto sta spirando, Anon è in punto di morte solo figurativamente. Distruggendo ogni indizio della propria esistenza muore infatti agli occhi dell’Ether, ma non nella pratica; la sua, anzi, è in realtà una rinascita. La citazione si capovolge quindi di significato: se per Paracelso queste parole corrispondono alla fine della sua vita, per Anon sono invece un nuovo inizio. Un incipit. Anon è dunque la fenice che rinasce dalle ceneri e l’Ether, in questa similitudine che vede Anon vestire i panni di Paracelso, non è altro che Dio. Così, se in Gattaca assistiamo all’uomo che rimpiazza Dio, in Anon abbiamo il passo successivo: è la macchina, creatura dell’uomo, a sostituirsi all’uomo che ha sostituito Dio, di fatto scalzandolo senza che nemmeno se ne accorga. Oltre alla citazione, a comprovare questa interpretazione c’è anche un particolarissimo tavolo dalla forma sospetta. L’immenso tavolo del commissariato, luogo dove abbiamo un utilizzo massivo dell’Ether e che quindi possiamo indicare come “casa” stessa dell’Ether, ricorda in maniera non troppo sottile una croce. L’iconografia è la medesima e il commissariato stesso rammenta una cattedrale; per quanto più tetro, ne condivide l’austerità. Seguendo il filo logico di Niccol, l’interpretazione possibile è una: i protagonisti di Anon non solo hanno prima costruito un nuovo idolo al quale si sono inginocchiati, l’Ether, ma ne sono anche rimasti fagocitati senza prenderne coscienza, in un capovolgimento fatale che sa di contrappasso dantesco.
Ricapitolando, la schiavitù che contraddistingue l’ultimo film di Niccol è più sottile e più insidiosa rispetto a quella presentata in lungometraggi come Matrix o Equilibrium, più espliciti, tanto che a differenza di Gattaca non è più il protagonista (o il presunto tale) a cercare di sottrarsi all’equazione, ma un personaggio presentato inizialmente come “il nemico”. Oltretutto, un aspetto fondamentale da sottolineare è come questo giogo, in Anon, per quanto deleterio da un punto di vista psicologico- emotivo, sia anche e soprattutto piacevole: anestetizza e dà assuefazione. Ricorda qualcosa? La risposta è affermativa: numerosissimi sono gli articoli e i saggi che negli ultimi anni si sono accumulati sulla dannosità di internet, tanto che si è arrivati a compararlo a una droga. In questa prospettiva il messaggio di Niccol non solo critica quindi con forza il web e la tecnologia, ma invita a guardare l’anonimato con occhi nuovi, positivi; un anonimato che non deve essere necessariamente digitale. In un mondo di influencer e di vip, Anon è infatti il film che pone al centro un personaggio che non vuole essere visto: una voce fuori dal coro che trova pochi altri esempi.
Tornando velocemente a un argomento affrontato in precedenza, vorrei invece porre ora l’accento su un altro grande tema che caratterizza questa produzione: la solitudine. Accertato che i personaggi non solo vivono con un filtro emotivo, svuotati del più sacro dei diritti umani, ma nemmeno si rendono conto della prigione che li ingabbia, risulta infatti chiaro che una tale situazione impedisca loro di comprendere anche se stessi. E questa incomprensione si lega a doppio filo proprio con la solitudine, uno stato mentale tipico dei giorni nostri. Nel Nuovo Millennio questo isolamento esistenziale, paradossale in un mondo globalizzato e connesso come quello in cui viviamo, è infatti quasi endemico, prodotto di una società con nuovi punti di riferimento. Non stupisce così che Anon, film ambientato in un mondo tanto simile quanto diverso dal nostro, non solo lo affronti, ma lo faccia in maniera del tutto alienante.
Nel corso del film numerosissime sono infatti le sequenze in cui il personaggio è figurativamente o fisicamente solo: l’isolamento è palpabile nell’aria, accentuato dall’assenza di un device che dia, in questi momenti di solitudine, una parvenza di normalità. I personaggi sono spesso mostrati in stanze buie, avvolti da una cortina di fumo e intenti a osservare il vuoto, un vuoto che in realtà è estremamente pieno ed è proprio l’Ether. Così, se al giorno d’oggi siamo abituati a vedere persone interagire con il proprio cellulare, in questo film Niccol ci stuzzica, estremizzando il problema, e lo palesa con una lunga schiera di scene individuali nelle quali ripropone atti di vita quotidiana, cancellando tuttavia l’oggetto di riferimento. L’ufficio in cui Sal finge di lavorare prima di incontrare Anon, pieno di gente ordinatamente seduta alla propria scrivania, diventa quindi un luogo senza schermi in cui i dipendenti parlano al nulla e fissano il vuoto. L’effetto è estraniante ed è difficile ignorare la sensazione che ci sia qualcosa di estremamente sbagliato nella tecnologia stessa. Quando a questa percezione si somma anche la considerazione che, di fatto, nella società presentata all’interno del film nessuno sia mai effettivamente solo a causa dell’Ether, presenza ubiqua, l’immagine complessiva diventa drammatica. Nella società di Niccol tutti sono e non sono soli, proprio come nella nostra. La differenza sta che al giorno d’oggi, per parlare con qualcuno a distanza, è necessario quantomeno un cellulare.
Infine, cambiando argomento ed esplorando brevemente gli aspetti più visivi del film, mi sembra doveroso soffermarsi sull’evidente utilizzo degli effetti speciali, un utilizzo che, tra l’altro, rende inevitabile l’accostamento di Anon al mondo del videoludico. Il particolare impiego dei punti di vista, che non solo continuano a cambiare, ma in più di un’occasione sono impostati esattamente come uno sparatutto in prima persona, è infatti frequente e accompagna soggettive dal forte impatto visivo ed emotivo. Lo spettatore vede attraverso gli occhi della vittima e il suo sguardo si fa così sguardo non solo dell’assassinato, ma anche dell’assassino. Per esempio, quando viene mostrata l’omicidio della prima vittima, un giovane che poi si scoprirà essersi rivolto a un hacker per modificare la propria “cronologia”, la scena dell’assassinio sembra estrapolata da un gameplay: vediamo le mani del personaggio, vediamo la sagoma della pistola e vediamo da vicino l’omicidio. Prima di ciò, è tuttavia visibile un altro effetto speciale che rimanda direttamente al digitale: l’immagine si rifrange. Va incontro a una frammentazione, a una decomposizione, espediente che nuovamente rimanda quindi al videoludico. È come se il film laggasse.
Una storia dai ritmi flemmatici, in netto contrasto con ogni regola del videoludico, viene quindi ad accostarsi a qualcosa che a fatica le si mescola, ottenendo un risultato estraniante. Questo, tuttavia, non è l’unico esempio di due nature opposte a confronto: la città, per esempio, per quanto classica negli edifici, mostra un’estetica interattiva che l’avvicina ai grattacieli di Ghost in the Shell e di Blade Runner (con cui curiosamente condivide il dettaglio dell’occhio nelle scene iniziali). Riassumendo in poche righe ciò a cui si potrebbero dedicare pagine, evidente è la contemporaneità di un film di questo stampo in una prospettiva puramente estetica: non solo fa largo uso di effetti speciali, ma con una serie di particolari soggettive sviluppa la storia attraverso lo sguardo dei personaggi, generando una moltitudine di punti di vista, talvolta addirittura interni gli uni agli altri. In tal senso, emblematica è la scena in cui i detective, intenti a spiare Anon, osservano la ragazza modificare in tempo reale il punto di vista di un gallerista. C’è quindi il punto di vista del gallerista, all’interno del punto di vista di Anon, all’interno del punto di vista dei detective e lo sguardo, se prima era personale, ora appartiene a tutti e può essere seguito da un numero x di utenti, quasi fosse la parodia dell’odierno gameplay.

Conclusioni
Come esposto nei paragrafi precedenti, risulta dunque chiaro come Anon affronti nuclei tematici tipici della nostra società. Pur tralasciando l’aspetto estetico, anch’esso proprio della produzione contemporanea, si perde il conto degli elementi che rimandano ai giorni nostri e a una possibile illustrazione del nostro futuro. Anon è un film contemporaneo e, per quanto trascurato e poco apprezzato dal pubblico e dalla critica, alla sua base vi è la triste interpretazione di una realtà non troppo distante dalla nostra.

 
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