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Master MICA - Analisi di "Enemy"
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

Letizia Bosello – Enemy (2013) di Denis Villeneuve
Enemy è un film del regista canadese Denis Villeneuve, tratto dal romanzo L’uomo duplicato (2002) del premio Nobel portoghese José Saramago. È stato presentato per la prima volta al Toronto International Film Festival l’8 settembre 2013 e, dopo essere stato proiettato durante molti altri festival internazionali, è stato distribuito nelle sale a partire dal marzo seguente. In Italia non è mai arrivato in sala, ma è stato distribuito direttamente in DVD qualche anno dopo, nel 2017.
Si tratta di una co-produzione internazionale canadese e spagnola – il film è interamente girato in Canada – e dell’ultimo film indipendente di Villeneuve prima di passare ad Hollywood, anche se a partire proprio dal 2013 il regista comincia a scegliere attori americani per i suoi film. Infatti, il protagonista di Enemy è Jake Gyllenhaal, che si trova a collaborare nuovamente con Villeneuve dopo la sua precedente esperienza in Prisoners (2013). Il resto del cast non è molto ampio e si compone principalmente di figure femminili interpretate da Mélanie Laurent, Sarah Gadon e Isabella Rossellini, mentre gli unici due personaggi maschili principali sono entrambi interpretati dallo stesso Gyllenhaal. Certamente il dual role non è una novità della contemporaneità ma l’avvento del digitale ha permesso di rendere più frequente questa pratica, grazie al fatto che gli effetti speciali e la post- produzione riescono a rendere sempre più fluide e realistiche le scene in cui lo stesso attore interpreta due personaggi uguali che interagiscono fra loro. Dunque, in questo film l’uso della computer grafica è funzionale alla trama, soprattutto per quanto riguarda tutte le immagini dei ragni ricreati in digitale. Inoltre, al suo interno troviamo alcuni contenuti tipici del cinema contemporaneo, ovvero il tema della crisi d’identità e della psicologia della mente umana, temi che vengono spesso affrontati esplicitamente o per mezzo di metafore simboliche in molti film successivi all’11 settembre. Questa data ha segnato profondamente gli Stati Uniti, che fino ad allora si reputavano un luogo sicuro e inattaccabile, ma in seguito all’attacco terroristico si vedono costretti a mettere in discussione ogni certezza. Tutto ciò si ripercuote anche sul singolo che, da un momento all’altro, si trova a dover rivalutare quel senso di sicurezza cui era abituato.  Oltretutto, la consapevolezza dei disturbi mentali aumenta considerevolmente negli ultimi anni e questi vengono sempre più spesso rappresentati sullo schermo, proprio come nel nostro caso: Enemy è un dramma psicologico che affronta il tema del disturbo dissociativo dell’identità con conseguente amnesia dissociativa.

LA SEQUENZA INIZIALE COME CHIAVE DI LETTURA DEL FILM
Fin dai primi minuti di visione, grazie ad una serie di sequenze ricche di indizi lasciati volutamente dal regista, viene presentata una chiave di lettura dell’intero film: Villeneuve ci dice implicitamente di porre l’attenzione su alcuni elementi che sono fondamentali per interpretare uno dei suoi prodotti più criptici in assoluto. Analizzando puntualmente la sequenza iniziale scena per scena, per poi ampliare il discorso in seguito, si può innanzitutto notare che il film si apre con un’inquadratura della silhouette in lontananza di una città con molti grattacieli – che si scoprirà poi essere Toronto – e la prima voce che sentiamo, attraverso una telefonata in voice over, è quella di una donna, la madre del protagonista. In seguito, la scena si sposta nell’auto di quest’ultimo, che viene inquadrato dal sedile posteriore e di cui si vedono solo gli occhi riflessi nello specchietto retrovisore. Pochi secondi dopo intravediamo in penombra una donna incinta su un letto, finché non appare sullo schermo nero la frase “chaos is order not yet undeciphered” (il caos è ordine non ancora decifrato): si tratta di un non poco velato invito allo spettatore a non soffermarsi semplicemente sulla trama superficiale, bensì ad andare oltre, a decifrare, ricostruire e interpretare ciò che non è esplicitato all’interno del racconto e che a primo impatto può sembrare puro caos. Ecco che la crisi d’identità non riguarda solo il protagonista del film ma colpisce in prima persona lo spettatore, il quale fatica a scindere ciò che è reale da ciò che non lo è. A seguire, ci ritroviamo in un club segreto esclusivo dove vediamo una tarantola su un vassoio d’argento; dopodiché ha inizio la trama vera e propria del film con il protagonista che insegna storia all’università e tiene una lezione sui governi totalitari. La prima frase da lui pronunciata è: “Controllo. È tutta una questione di controllo. […] Si tratta di un piano che si ripete…”. Ognuna di queste scene contiene elementi importanti per l’analisi di Enemy.

IL CAOS: TRA REALTÀ E IMMAGINARIO MENTALE
Prima ancora di arrivare all’analisi della duplice identità del protagonista, è fondamentale capire che all’interno del film c’è un sottile confine tra realtà e finzione che spesso non è facilmente individuabile. Ci ritroviamo in una costante atmosfera di sospensione della realtà che viene ben veicolata dalla fotografia e dall’uso del colore: i toni seppiati, le scene buie, i colori mai brillanti o nitidi, rimandano ad una visione offuscata e annebbiata che risalta il senso surreale dell’intero film. I colori per Villeneuve hanno sempre un significato fondamentale, ad esempio in Arrival (2016) il cambiamento del colore della luce indica una trasformazione e riflette lo stato d’animo dei personaggi rafforzando le emozioni trasmesse. In questo caso, invece, non c’è mai una differenza netta tra colori caldi e colori freddi perché il personaggio è vuoto, non raggiungerà mai una vera trasformazione, ed ecco perché anche i colori sono piatti. Dunque, si fatica anche a capire quale sia il vero piano della realtà dato che viene usato sempre lo stesso tono di colore, ed è proprio questo lo scopo del regista: far capire allo spettatore che il protagonista si trova in uno stato perenne di annebbiamento che non gli permette di distinguere ciò che è reale da ciò che è solo nella sua mente. Possiamo quindi facilmente ipotizzare che la maggior parte degli eventi che ci vengono mostrati non avvengono nella sua vita reale ma solo all’interno del suo subconscio.
Inoltre, ci sono molti elementi che rimandano alla dimensione onirica: la città vista da lontano sempre avvolta in una fitta nebbia; le numerose scene buie all’interno degli appartamenti; le molte scene in camera da letto; i sogni da cui il protagonista si risveglia, come ad esempio quello dove ripercorre il film “Volere è potere” in cui scopre il suo “sosia” per la prima volta oppure quello dove immagina una donna con la testa di ragno, in un’inquadratura ribaltata che quindi rievoca il fatto che all’interno dell’occhio umano le immagini vengono proiettate capovolte.

LA CRISI D’IDENTITÀ E IL TEMA DEL DOPPIO
Tenendo sempre a mente la questione appena affrontata è possibile avere un quadro più chiaro di tutta la trama del film. Ciò permette quindi di affermare che i due personaggi interpretati da Jake Gyllenhaal non sono altro che la stessa persona che soffre di un disturbo dissociativo dell’identità: da una parte abbiamo il professore di storia Adam Bell e dall’altra abbiamo l’attore Anthony Claire.
Se all’inizio ciò può non sembrare immediato, mano a mano che andiamo avanti nella visione del film Villeneuve ci lascia degli indizi più o meno espliciti: tra quelli più espliciti, ad esempio, troviamo la conversazione abbastanza straniante che hanno Adam e sua madre in cui lei afferma che il figlio ama i mirtilli e che dovrebbe lasciar perdere il sogno di fare l’attore, entrambi elementi che fino a quel momento connotavano Anthony; tra quelli più simbolici che rimandano al tema del doppio troviamo le immagini di Adam/Anthony riflesse più volte negli specchi (da sempre metafora della duplice identità), la stanza d’hotel dove si incontrano per la prima volta che è la numero 221 (due persone che sono una), le due donne – la moglie Helen e l’amante Mary – esteticamente molto simili e i due palazzi circolari uguali (l’Absolute World vicino a Toronto) che appaiono per la prima volta proprio quando Adam va all’indirizzo di casa di Anthony.
Fin dall’inizio del film la storia ci viene mostrata dal punto di vista di Adam, quindi è immediato pensare che sia lui la persona reale che crea Anthony nel proprio subconscio per sfuggire alla monotonia della propria vita, fatta di giornate tutte uguali passate a insegnare all’università e correggere esami a casa. Ma allo stesso tempo ci sono alcuni elementi che possono portare alla conclusione contraria. Ad esempio, dopo un’attenta osservazione, è possibile notare che Adam indossa gli stessi vestiti per tutta la durata del film, in ogni singola scena lui è vestito sempre uguale, tranne alla fine quando prende il posto di Anthony. Inoltre, il personaggio rappresentato sulla locandina del film è proprio Anthony (lo si riconosce dalla giacca in pelle che indossa). E se dunque fosse Anthony il vero protagonista da cui parte tutto? E se Adam fosse il suo alter ego della dimensione onirica e se fosse per questo che si veste sempre uguale e all’inizio ripete sempre le stesse azioni? Lo spettatore non ha alcuna certezza, proprio come lo stesso protagonista non riconosce quale sia la sua vera realtà.
Si può ipotizzare che Anthony si sia sentito soffocare dal vincolo del matrimonio, soprattutto nel momento in cui sa che sta per diventare padre, e abbia creato nella sua mente un mondo parallelo per fuggire dalla propria realtà, ma che è anche proiezione del disagio interiore che prova in quel momento nella sua vita reale: ha un rapporto distaccato con la moglie incinta, non riesce a sfondare nel mondo del cinema (ha recitato in tre piccoli ruoli e non si reca più alla talent agency da sei mesi) e sua madre gli ripete di abbandonare quel sogno, è una persona frustrata che ha bisogno di fuggire dal matrimonio per sfogare le proprie pulsioni. Ed ecco che il suo alter ego è meno curato, ha una vita monotona, vive in un appartamento piuttosto mediocre, guida un’auto vecchia, ha un rapporto con un’amante molto simile alla moglie che però è solo fisico e privo d’amore. Perciò non si tratta nemmeno della classica contrapposizione del sé buono e del sé cattivo, perché è vero che Anthony ha un carattere forte ed è pieno di rabbia ma Adam non può essere considerato l’eroe del racconto, in quanto debole, svuotato e turbato. In un contesto, però, in cui il confine tra realtà e sogno è molto sottile, risulta assai difficile capire chi dei due abbia creato l’altro, ma in fin dei conti forse non ha nemmeno molta importanza: è ancora una volta un caos non ben decifrabile.

LA METAFORA DEL RAGNO
L’intero film è costellato di immagini di ragni e, come accennato in precedenza, già dai primi minuti capiamo che la metafora del ragno è la chiave per interpretare la storia, tanto che Villeneuve ce la serve letteralmente su un piatto d’argento. Inoltre, troviamo anche alcune rappresentazioni simboliche della ragnatela: nei cavi del tram che si intrecciano e nel vetro del finestrino rotto dopo l’incidente in auto.
Che significato ha, dunque, il ragno nella vita di Adam/Anthony? La risposta la troviamo implicitamente all’interno del film, facendo particolare attenzione ai precisi momenti in cui appaiono le scene con i ragni: una volta dopo una discussione con la moglie Helen, una volta dopo la conversazione con la madre e infine nella camera da letto in cui è appena entrata Helen. È possibile perciò intuire che il ruolo del ragno è quello di rappresentare le donne che fanno parte della vita del protagonista.
Ma facciamo un passo indietro. Da sempre il ragno è un animale che ritroviamo nel folklore e nella mitologia di molti popoli (basti pensare al mito di Aracne) ed è spesso associato a qualcosa che spaventa, in quanto esiste una paura insita nell’uomo legata al fatto che il suo morso, oltre ad essere doloroso e velenoso, spesso è anche mortale. Ed è chiaro che più un ragno è grande più incute terrore, per questo i ragni giganti vengono usati in molti film fantasy, come ad esempio in Harry Potter o ne Il Signore degli Anelli. Infine, il suo atto di tessere la tela rimanda alle Parche della mitologia greca oppure alle Norne della mitologia norrena che sono considerate le tessitrici del filo della vita e del destino.
Dunque, è proprio questo che fanno le donne nella vita di Adam/Anthony, tessono le fila della sua vita controllandolo e decidendone il destino. Ricordiamo che la prima frase che pronuncia il protagonista riguarda proprio la questione del controllo, un controllo soffocante che lo spinge a sfuggire da quella realtà che lo ha intrappolato senza mai riuscirci fino in fondo, proprio come le prede catturate nella tela di un ragno che quindi diventa la loro trappola mortale. Dato che in molte specie di ragni la femmina è più grande del maschio e spesso lo divora dopo l’accoppiamento, possiamo affermare che il ragno è la metafora del controllo sulla mente di Adam/Anthony da parte di donne che hanno un carattere dominante e a cui lui soccombe fino al momento in cui tenta di fuggire da quella realtà così costrittiva.
La moglie Helen lascia intendere di essere già stata tradita in passato (nella colonna sonora troviamo una canzone dal titolo The Cheater che lo sottolinea ulteriormente) e vuole assicurarsi che non sia più così. Inoltre, grazie ad alcune conversazioni si può intuire che lei abbia scoperto la duplice identità del marito, come ad esempio quando avviene questo scambio di battute:

Helen: “È uguale identico a te, che succede?” Anthony: “Non so di cosa stai parlando” Helen: “Sì che lo sai!”

Oppure quando verso la fine del film Adam prende il posto di Anthony all’insaputa di Helen ma lei comunque gli chiede “Com’è andata a scuola?” lasciando intendere che sa che si tratta di Adam.
Anche in questo caso lei vuole assumere il controllo sulla sua mente, vuole che a rimanere con lei sia proprio la parte del marito più premurosa e dunque Adam, dicendogli esplicitamente “Voglio che tu rimanga”. Alla fine del film la moglie si trasforma in una tarantola gigante in camera da letto, un luogo che normalmente è quello dove ci si sente più al sicuro in casa propria, ma che adesso è invaso da un’entità perturbante. Sembra schiacciata nell’angolo come se avesse paura – perché sa che sta di nuovo perdendo il controllo sulla vita di Adam/Anthony – ma allo stesso tempo è come se stesse per attaccare da un momento all’altro, proprio come un ragno che può facilmente essere intrappolato in un angolo ma a sua volta è una trappola per gli altri.
Ma vi è un’altra presenza femminile fondamentale nella vita di Adam/Anthony: la madre. Siccome è la prima voce che sentiamo all’inizio del film, capiamo che è proprio lei la prima ad avere il controllo sulla sua mente. Come un ragno, la cui presenza è silenziosa e inquietante, la madre viene inquadrata solo per pochi minuti eppure sentiamo indirettamente la sua presenza fin da subito, con le continue telefonate ignorate dal figlio. Infatti, è una madre che nonostante l’età adulta di Adam/Anthony ha ancora un forte controllo su di lui, lo giudica e lo rimprovera, per questo viene rappresentata con un ragno gigante, perfino più alto dei grattacieli della città, come fosse una presenza costante che continua a giudicarlo dall’alto verso il basso. Digitalmente, l’immagine di questo ragno è identica alla scultura dal nome Maman (1999) dell’artista canadese Louise Bourgeois, installata a Ottawa.
Come spiegato dalla scultrice, si tratta di una celebrazione alla figura di sua madre, paragonata ad un ragno in senso positivo poiché intelligente e protettiva, un’interpretazione opposta rispetto alla figura della madre di Adam/Anthony.
Similmente, quando un personaggio viene paragonato ad un ragno spesso assume una connotazione negativa. Possiamo citare ad esempio l’Altra Madre in Coraline (2009) che da figura amorevole si trasforma e prende le sembianze di un ragno umanizzato, traducendosi nel perturbante per eccellenza.

LA CITTÀ E I GRATTACIELI
Abbiamo detto che il film si apre con una inquadratura della città di Toronto in lontananza, con i suoi innumerevoli grattacieli. Queste immagini si ripetono più volte e si soffermano spesso sugli edifici visti dall’esterno, imponenti e tutti ravvicinati in un modo tale da trasmettere un senso claustrofobico agli uomini piccoli che popolano il groviglio di strade della città. Anche in questo caso, per trovare una possibile interpretazione di queste immagini, lasciamo parlare il film: ad un certo punto appare l’inquadratura di un primissimo piano del volto di Adam/Anthony, subito dopo si passa ad un’inquadratura aerea dei palazzi per poi ritornare al primissimo piano del protagonista.
Possiamo quindi ipotizzare che i grattacieli rappresentino la sua mente: dall’esterno sembrano degli enormi archivi e le finestre tutte uguali degli appartamenti sono come celle di immagazzinamento della memoria nella mente umana. Non a caso, riprendendo la locandina del film, la città sorge proprio sulla testa dell’uomo. Quella città che nel caos della mente di Adam/Anthony diventa come un labirinto – tema principale della trama di Prisoners – e i cui grattacieli raffigurano le impalcature mentali che lo schiacciano.
Si crea perciò anche una contrapposizione tra il ragno, capace di tessere una tela architettonicamente perfetta, e la mente di Adam/Anthony che è pervasa da un disordine che non riuscirà mai a decifrare. Così come all’inizio, il film si conclude con i titoli di coda che scorrono su una carrellata di immagini di grattacieli e della città.
 
LA STORIA CHE SI RIPETE
Le lezioni di Adam all’università trattano l’argomento delle dittature e dei metodi che venivano utilizzati per mantenere il popolo soggiogato e sotto controllo; egli ricorda infatti che fin dall’antica Roma il popolo veniva nutrito con “panem et circenses” ovvero fornendogli un’illusione di realtà e libertà attraverso distrazioni e intrattenimento. Si tratta di un meta-discorso sulla condizione stessa del protagonista, che pur di sfuggire ai doveri matrimoniali e famigliari si rifugia in una forma di intrattenimento trasgressivo di un club segreto che ricorda Eyes Wide Shut (1999). Un altro tassello
fondamentale che ci viene fornito per interpretare la scena finale del film proviene sempre da una frase pronunciata da Adam a lezione citando Hegel: “I grandi avvenimenti del mondo si presentano due volte”, a cui Marx aggiunge: “La prima come tragedia e la seconda come farsa”.
Alla fine del film vediamo una sorta di lotta tra le due personalità del protagonista, da cui sembra uscire vincitore Adam: probabilmente capisce che vuole tentare di recuperare il rapporto con sua moglie e vorrebbe essere un uomo migliore perciò elimina la parte negativa di sé tramite la scena dell’incidente in auto, “uccidendo” di fatto Anthony (parallelamente Adam piange perciò è consapevole di quello che sta cercando di fare). A questo punto sembra essere tutto tornato alla normalità, ma ciò durerà solo fino a quando Adam trova nella tasca della giacca la chiave di accesso al club segreto e ricade vittima dei suoi vecchi istinti, dicendo alla moglie che quella sera sarebbe uscito per andarci di nascosto. Ed ecco che la storia si ripete di nuovo, proprio come anticipato dalle citazioni di Hegel e Marx: il protagonista ha vissuto la prima fase della sua vita come tragedia poiché insoddisfatto della sua vita e la seconda parte – quella rappresentata nel film – come farsa perché non è più comprensibile cosa sia reale e cosa no. E ricadrà nei suoi soliti schemi ancora e ancora, creando così un loop dovuto alla reale mancanza di volontà a intraprendere un vero percorso di cambiamento. Lui ci prova, arriva perfino a eliminare il suo doppio, per poi però tornare ciclicamente al punto di partenza (tema che viene ripreso e approfondito in Arrival), perché cambiare è possibile solo a fronte di un reale cambiamento interiore. Dunque, la chiave del club è una chiave per la sua illusoria libertà ma allo stesso tempo è anche ciò che lo ancora alla sua tragica situazione impedendogli di sfuggire al loop, a cui lui si arrende con un sospiro di rassegnazione alla fine del film.

CONCLUSIONE
In fin dei conti, perciò, il vero nemico citato nel titolo del film siamo noi stessi. Il nemico per Adam/Anthony ha una duplice connotazione: da un lato c’è la donna-ragno fortemente controllante e dall’altro c’è sé stesso, intrappolato nella sua mente vittima del caos e in un circolo vizioso che lo riporta sempre al punto di partenza. E anche il controllo di cui parla all’inizio ha un doppio livello: il controllo che le donne hanno sulla sua vita – e che lui non ha - e il controllo che la sua stessa mente ha su di lui. Si tratta dunque di un film che esplora la mente umana e che si muove indistinguibilmente tra realtà e finzione, mettendo in crisi perfino lo spettatore e rendendogli assai difficile capire da chi parta effettivamente la storia. Ma tutto questo intreccio caotico è semplicemente ordine che ha solo bisogno di essere decifrato.
Maximal Interjector
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