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Master MICA - Analisi di "Kairo"
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

Daniele Sacchi - Kairo (2001) di Kiyoshi Kurosawa


I.  Cornici e interferenze
Conosciuto internazionalmente come Pulse, il film del 2001 di Kiyoshi Kurosawa contiene nel suo titolo originale, Kairo, alcune implicazioni che necessitano di essere esaminate per poter comprendere al meglio l’orizzonte segnico sul quale si fonda la pellicola. D'altronde, è lo stesso Kurosawa a porre una precisa enfasi sul titolo sin dai momenti iniziali dell’opera, quando appare nei titoli di testa con i kanji 回路. In particolare, il kanji 回 viene presentato dal regista giapponese con il quadrato centrale tratteggiato in rosso, richiamando con la sua forma lo schermo del computer – elemento centrale nello sviluppo della trama del film – e tematizzando allo stesso tempo un’idea di frame, di cornice, che si dimostrerà anch’essa fondamentale da un punto di vista stilistico per Kurosawa.
A livello semantico, l’inglese pulse (“battito”, “pulsazione” o “impulso”), per quanto possa apparire come un buon compromesso, non è specifico quanto il giapponese kairo, “circuito”, che rimanda esplicitamente a Internet e all’aspetto puramente tecnico della sua configurazione in quanto sistema digitale di interconnessioni, altra caratteristica chiave della pellicola. Infine, andando forse al di là delle intenzioni autoriali, kairo può significare anche “rotta marittima”, sostituendo però il primo carattere kanji e ottenendo 海路. In tal senso, è significativo notare come il film si apra e si chiuda proprio su una nave sul mare, concedendo un’apertura a tale interpretazione.
Strutturalmente, il film di Kiyoshi Kurosawa si sviluppa attraverso un lungo flashback. La sequenza iniziale, ambientata appunto su una nave, mostra uno dei personaggi principali, Michi, mentre osserva pensierosa il mare, suggerendo allo spettatore con un intervento extradiegetico in voice-over che quanto sta per osservare nel resto del film è in realtà già avvenuto. Si tornerà sulla nave solo negli ultimi momenti, quando la narrazione degli eventi del passato si ricongiungerà con il presente. Nello stacco che separa i due piani temporali, Kurosawa introduce immediatamente uno dei tratti distintivi di Kairo. Taguchi, un collega di Michi, è assente da una settimana dal luogo di lavoro. Il telefono squilla a vuoto nella sua abitazione, ma Kurosawa, invece di mostrare che fine ha fatto il ragazzo, preferisce far soffermare lo sguardo della macchina da presa sui computer di Taguchi, distorcendo ad intermittenza l’immagine cinematografica, sdoppiandola e lavorando anche su diverse prospettive, come se vi fosse una rottura, un’interferenza concreta e materiale sul piano del reale.
La macchina da presa è fissa, ma allo stesso tempo l’immagine appare come se fosse in movimento. Parallelamente, il sonoro accompagna queste interferenze con rumori statici che corroborano il sentimento di inquietudine prodotto dagli eventi inusuali che, ancora senza contesto, stanno avvenendo sullo schermo. Kurosawa assale immediatamente i sensi dello spettatore, immergendolo sin dai primi due minuti del film in uno scenario che richiama il clima specifico delle produzioni j- horror di fine anni ’90 e dei primi 2000. Kairo, girato in 35mm con il supporto del direttore della fotografia Jun’ichirô Hayashi, presenta – similmente ad esempio a Ringu di Hideo Nakata, nel quale ha collaborato lo stesso Hayashi – ambienti granulosi e cupi, dominati dall’ombra, con la luce che, in particolar modo nelle riprese degli interni, spesso si dà come estremamente fievole e pallida.
L’assenza di Taguchi getta nello sconforto le sue colleghe, Michi e Junko, dal momento che non riescono a raggiungerlo telefonicamente. Il tema visuale della cornice viene qui immediatamente abbozzato da Kurosawa. Il regista giapponese ci mostra i personaggi interagire tra loro da una posizione distante, dietro alla finestra, come se fossero spiati da qualcuno: come se, metacinematograficamente, fossero essi stessi all’interno di uno schermo.
Nella sequenza successiva, il suicidio per impiccagione di un Taguchi alienato e spaesato di fronte a un’incredula Michi, Kurosawa non solo reitera l’incursione delle interferenze già proposte in precedenza, ma inserisce un tassello narrativo fondamentale per il suo discorso. Oltre a inquadrare la ragazza per un breve istante come se fosse osservata da una figura terza con una ripresa in soggettiva da un punto di vista ignoto (elemento che ritornerà in seguito in misura più marcata con il personaggio di Harue), il regista giapponese introduce un oggetto importante per lo sviluppo della trama: un floppy disk, lasciato da Taguchi prima di morire. Inoltre, nel processo di elaborazione del lutto, gli amici del ragazzo vengono inquadrati all’interno di un bar, nuovamente circoscritti all’interno di una cornice – la vetrina – che li posiziona in una zona neutra rispetto allo sguardo spettatoriale, creando una distanza artificiale che sembra voler rappresentare una mancanza di empatia nei confronti della tragedia appena vissuta. Le parole di Yabe, un altro collega di Taguchi, sembrano muoversi d’altronde in questa precisa direzione: «non deve essere difficile impiccarsi».

II.   Tecnologia, hikikomori e “stanze proibite”
L’upgrade tecnologico rappresentato dai computer e da Internet sembra darsi per Kurosawa come una vera e propria fonte alienante per l’essere umano. Un’immagine sul floppy di Taguchi mostra ai suoi colleghi il ragazzo smarrito di fronte ai suoi computer. Uno degli schermi, a sua volta, ripresenta la stessa immagine in una ripetizione ad infinitum che crea una forma di spaesamento simulacrale, cristallizzando nel tempo la singolarità dell’attimo. L’identità e la coscienza di Taguchi si sono frantumate nei meandri della rete, lasciando nel dominio del reale un involucro vuoto – il suo corpo – inevitabilmente teso all’annichilimento della propria esistenza, in quanto ormai privo di fondamenti ontologici.
Il suicidio di Taguchi, a posteriori, sembra dunque un’azione guidata dalla perdita del proprio io nell’abisso della tecnologia. Su un altro schermo, sempre nell’immagine sul floppy, appare inoltre un volto (forse dello stesso ragazzo) che Kurosawa inquadra nel dettaglio riprendendo parzialmente la dinamica dell’interferenza: i suoni dell’ambiente circostante a Michi, Junko e Yabe scompaiono per lasciar spazio ad un lamento ultraterreno rivolto direttamente allo spettatore, come se egli stesso fosse una parte attiva integrante del discorso del regista giapponese. Lo spettatore, nel corso di Kairo, viene di fatto continuamente chiamato ad interagire con il testo filmico, cessando di essere un semplice osservatore e diventando, a modo suo, un protagonista indiretto del film. Il fallimento della tecnologia nel proporre modelli convincenti di comunicazione coinvolge, nella sequenza successiva, anche la televisione. Durante un notiziario, viene annunciato il ritrovamento di un messaggio in bottiglia dopo 10 anni dal suo invio. Un metodo poco pratico e vetusto viene presentato come insospettabilmente funzionante, mentre il televisore di Junko si blocca gettando nel panico la ragazza e intervenendo operativamente sulla realtà stessa: una bottiglia, all’improvviso, cade. La tecnologia, da fonte di alienazione diventa, così, oggetto di terrore.
Kurosawa a questo punto diverge da quella che sino ad ora sembrava essere la trama principale del film per introdurre il personaggio di Ryosuke, uno studente di economia poco pratico nell’utilizzo della tecnologia, e di Harue, una tutor universitaria di informatica che cerca di aiutarlo. Configurando Internet sul proprio computer, Ryosuke accede senza volerlo ad una serie di video di persone attonite, inespressive, desolate di fronte ai propri schermi. Di notte, in due occasioni, Internet sembra prendere vita, agendo da sé e mostrando a Ryosuke una figura maschile nella penombra, la quale esce dall’inquadratura per poi ritornare sotto forma di pura astrazione ombrosa, come se avesse perso la propria corporeità. Alla domanda di Harue sul perché il ragazzo si sia connesso a Internet, Ryosuke risponde con un’affermazione che anticipa il contesto social odierno: «perché lo fanno tutti». La ragazza è fortemente critica del valore connettivo della rete, in quanto riduce all’isolamento piuttosto che all’unione con l’alterità. Le figure isolate che vediamo sullo schermo di Ryosuke rappresentano proprio questo pensiero e richiamano uno dei grandi problemi sociali che riguardano tutt’oggi il Giappone nella forma dell’hikikomori, l’individuo che si ritira dalla vita collettiva per confinarsi in uno spazio interamente privato, personale e inviolabile. Kurosawa estende il discorso però alla popolazione intera, proponendo con Harue un’arguta metafora: secondo la ragazza, l’umanità è simile ai puntini di un programma sviluppato da un suo studente, un insieme di entità che coesistono in uno stesso ambiente ma che sono destinate a non incontrarsi mai, perse nell’impossibilità di instaurare una vera connessione in un mondo ottenebrato da un uso improprio della tecnologia. In continuità con questa critica alle nuove frontiere degli apparati mediatici e telecomunicativi, Yabe riceve una richiesta di aiuto ultraterrena dal numero di Taguchi accompagnata dalla stessa immagine già osservata sul floppy disk, estendendo il percorso di indagine – in misura minore e solamente accennata – anche ai telefoni cellulari. Nella sequenza successiva Kurosawa introduce inoltre il concetto di macchia, che verrà approfondito in seguito, nel momento in cui Yabe entra in contatto con le componenti residuali di Taguchi, residui che, per un breve istante, riassumono forma corporea (corpo che Kurosawa permette allo spettatore di “indossare” con un’inquadratura in soggettiva, prendendo una posizione netta anche nei confronti di chi guarda) prima di tornare ad essere – accompagnati da un suono spettrale – forma astratta.
Yabe, dopo le sue affermazioni iniziali sull’impiccagione e il contatto diretto con una realtà altra, si trova ormai calato pienamente in un tunnel di angoscia dal quale non sembra esserci alcuna via di uscita. A complicare la sua situazione vi è la scoperta, nell’appartamento di Taguchi, dell’esistenza di alcune “stanze proibite” dalle quali non può che risultare irrimediabilmente attratto. Queste stanze sono segnalate da un nastro adesivo rosso – che richiama il tratteggio presente nel titolo del film – e rappresentano i luoghi in cui le persone, una volta contagiate dal virus tecnologico, si rinchiudono, richiamando nuovamente il tema dell’hikikomori. In parallelo, ritorna anche il concetto di frame, la cornice dietro la quale l’uomo si nasconde per attendere la propria inevitabile fine. Dopo essere entrato in una di queste stanze proibite e dopo aver incontrato al suo interno un’altra presenza spettrale in carne ed ossa – la cui componente sovrannaturale viene enfatizzata da Kurosawa grazie ai movimenti sinistri dell’attrice e grazie al ricorso ad una tenebrosa colonna sonora – Yabe non potrà far altro che arrendersi al destino di una breve esistenza apatica e anedonica. Anche Michi entra in contatto con le stanze proibite nel momento in cui osserva una donna sigillare la propria abitazione con il nastro rosso, poco tempo prima di assistere al suicidio della stessa in una sequenza che vede Kurosawa manipolare digitalmente l’immagine cinematografica per mostrare la caduta mortale della donna dal silo di una fabbrica, tecnica che, nella seconda metà del film, adopererà in misura maggiore in correlazione diretta con il progressivo collasso del paesaggio urbano di Tokyo.

III.  Fantasmi e macchie
Insieme alle sopracitate figure in stato di alienazione che appaiono sullo schermo del computer di Ryosuke nel primo istante in cui si connette alla rete, al ragazzo viene posto un interrogativo in via diretta: «ti piacerebbe incontrare un fantasma?». Similmente, i puntini del programma sviluppati dallo studente di Harue presto iniziano ad essere coinvolti da un bug che li distorce con una deformazione che la ragazza paragona al concetto di yūrei (幽霊), i fantasmi del folklore giapponese. Tradizionalmente, gli yūrei sono entità percepite perlopiù come negative, figure umane la cui anima (霊) corrotta è divenuta debole, fioca (幽), e che, a parte qualche sporadica eccezione, sono solitamente alla ricerca di una qualche forma di compensazione o di vendetta nella nostra realtà. In Kairo, tuttavia, il fantasma opera attraverso logiche differenti. Secondo Harue, ad esempio, la distorsione dei puntini non è causata da un bug: il puntino, nella sua fase iniziale, «sembra uguale agli altri». Il fantasma, nel film di Kurosawa, si dà dunque come un qualcosa che è già presente nel tessuto sociale, un’entità celata e non individuabile se non nel momento della sua morte. I fantasmi sono già tra noi, prima ancora di perdere il proprio statuto concreto, sono carne e materia. Nella sequenza della biblioteca, Ryosuke si rende conto di essere osservato da un individuo, uno yūrei che persino lo studente Yoshizaki riconosce come tale. Il fantasma, pur comparendo nell’ombra, è presente e visibile, ma, soprattutto, è inoffensivo.
Secondo Yoshizaki, la “capacità” dell’aldilà si sta esaurendo ed i fantasmi si stanno manifestando nel nostro mondo. La falla che permette a queste entità di muoversi da un piano esistenziale all’altro è Internet: il pericolo è che, una volta che il circuito (kairo) sarà attivo, rimarrà permanentemente aperto. Mentre il ragazzo illustra a Ryosuke la sua teoria, Kiyoshi Kurosawa presenta in montaggio parallelo un uomo mentre sigilla un luogo con il nastro adesivo rosso, preparando la sua personale “stanza proibita”, munita di accesso a Internet, all’interno della quale si tramuta in sostanza ectoplasmatica. Grazie a questa sequenza esplicativa, Kurosawa risemantizza alcuni eventi precedenti – la donna vista da Yabe, così come l’incontro ultraterreno con Taguchi – in un’ottica che pone gli yūrei come elementi centrali. Sino ad ora, le entità spettrali non sono mai state pericolose come da tradizione, bensì sembrano in una costante ricerca di aiuto. Anzi, osservando nuovamente sullo schermo le persone consumate dalla tecnologia, Harue arriva ad una semplice conclusione: «fantasmi, persone, vivi, morti: è la stessa cosa».
Anche Yabe, successivamente, scompare. Nuovamente, Kurosawa ci presenta prima il ragazzo in qualità di corpo silenzioso, alienato, capace solo di chiedere aiuto attraverso un dispositivo elettronico (il cellulare), per poi tramutarlo in una macchia cinerea di fronte agli occhi di Michi. Una ripresa in soggettiva immerge lo spettatore nel punto di vista della stessa macchia, un residuo comunicante che, anche nella sua forma non più umana, non può far altro che esclamare «aiutami». Allo stesso tempo, un’inquadratura ci mostra un’altra macchia nera, lasciata in precedenza sull’asfalto dalla donna suicidatasi sotto gli occhi di Michi, ripetere continuamente la stessa supplica.
Con questo sottotesto in mente, Kurosawa richiama l’orrore dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki avvenuti durante la seconda guerra mondiale, eventi traumatici le cui esplosioni lasciarono sugli edifici e sul suolo delle città proprio delle macchie, simili ad ombre, delle persone decedute. Dopo la scomparsa di Yabe, si rende evidente come sempre più persone stiano abbandonando il piano materiale, consumate da un’alienazione di massa che sta di fatto trasformando il Giappone in uno Stato fantasma. Nella seconda metà del film, Tokyo appare come una città desolata, in contrasto con il caos metropolitano tipico della sua quotidianità. Presto anche Junko, dopo essere entrata in contatto con uno yūrei femminile dai lunghi capelli neri, viene contaminata e non riesce ad opporsi alla propria pulsione autodistruttiva, tramutandosi prima in macchia e poi in cenere, dematerializzandosi in una sequenza realizzata con un ampio ricorso alla cgi. Il trauma di Hiroshima e Nagasaki, dunque, ricompare a sua volta come uno spettro della memoria, come una ferita che non sembra essersi mai rimarginata per il Giappone: un qualcosa di passato, di assente, che tuttavia, con la sua immane carica simbolica, riesce in ogni caso a darsi come irrimediabilmente presente. Solo nell’incontro con l’altro, nella condivisione della gioia e della sofferenza che si manifesta inizialmente nel rapporto che lega Ryosuke ad Harue, sembra essere possibile l’apertura di uno spiraglio per il superamento del trauma della perdita. In realtà, come sostiene la stessa Harue vi è sempre un pericolo all’orizzonte, ossia che i fantasmi ci intrappolino «nel silenzio del nostro isolamento».

IV.  Vicinanza e alterità
Kurosawa sembra abbastanza scettico sulle effettive possibilità di un riavvicinamento tra le persone. La paura dell’isolamento infatti getta Harue in uno sconforto dal quale non potrà più fare ritorno. Tokyo ormai è quasi completamente priva di esseri umani, fattore che diventa chiaro nella sequenza che vede Ryosuke fuggire dall’apparizione di un fantasma all’interno di una sala pachinko completamente vuota, una particolarità insolita per un luogo generalmente molto affollato in quanto legato al gioco d’azzardo. La breve fuga dalla solitudine della città e un momento di intimità con il ragazzo non saranno abbastanza per Harue, la quale ritornerà nella propria abitazione ad attendere il suo inevitabile destino in una delle sequenze più enigmatiche di Kairo. La ragazza, di fronte ai suoi computer, osserva persone sole e dimenticate sino a quando una di esse – già apparsa in precedenza a Ryosuke – rimuove un sacchetto di plastica dal proprio viso e si spara un colpo di pistola. Se da un lato il sacchetto si propone come un elemento che elimina ogni possibilità di identificazione, dall’altro la sua rimozione afferma un desiderio di riconoscimento, amplificato dall’accompagnamento del gesto autolesionistico più estremo. La volontà di emergere, di darsi come presenza, viene così rappresentata per ossimoro da un atto che porta al totale annullamento di sé. Il gesto dell’uomo sembra rendere Harue consapevole di ciò che vuole veramente per se stessa. La realtà, in tal senso, viene alterata operativamente da Kurosawa fondendo in un’unica sequenza tutti gli aspetti formali più peculiari del film. Su uno dei computer di Harue appare una ripresa della stessa ragazza osservata di spalle, come se vi fosse una macchina da presa nella stanza adiacente. Ritornano così sia le interferenze audiovisuali sia il concetto di immagine dentro l’immagine già affrontato con il floppy di Taguchi. Tuttavia, Kurosawa amplifica la sensazione di spaesamento mostrando sia un’inquadratura in soggettiva dal punto di vista della possibile presenza fantasmatica sia diversi scavalcamenti di campo che riordinano lo spazio secondo modalità imprevedibili. Per la prima volta nel corso del film, lo spettatore diventa realmente un protagonista attivo e il “gioco” dell’immersione dal punto di vista altro acquista un senso ben definito. Harue, finalmente, non si sente più sola perché ha qualcuno con cui stare, un fantasma che si dà come lo spettatore stesso in quanto individuo a sua volta distante, perso e smarrito di fronte a uno schermo. Harue abbraccia la macchina da presa invisibile in una sequenza che rompe la quarta parete e che la condurrà in seguito a suicidarsi nello stesso identico modo del ragazzo con il sacchetto di plastica sul viso, in una nuova affermazione e allo stesso tempo destrutturazione ossimorica della crisi del soggetto contemporaneo.
Vagando per la città desolata, Ryosuke incontra Michi. Kurosawa unisce per la prima volta i due personaggi centrali del film nei minuti finali per riprendere il discorso già avviato con Ryosuke e Harue sull’avvicinamento con l’alterità e sul superamento del trauma della perdita. Se nel caso di Harue questa prospettiva non poteva realizzarsi a causa del suo smarrimento identitario, con Ryosuke e Michi sembra darsi come una possibilità tangibile. Il ragazzo non ha perso se stesso nell’incontro con la tecnologia («riesco quasi a vedere il futuro») mentre Michi non è mai stata realmente coinvolta nel suo utilizzo per tutta la durata di Kairo. Kurosawa tuttavia rompe presto l’illusione nata da questo incontro. Ryosuke assiste al suicidio di Harue e, nella sequenza successiva, entra in contatto diretto con un fantasma. I due episodi lasceranno un segno indelebile nel ragazzo, corrompendone lo spirito.
È importante notare come entrambi gli eventi avvengano all’interno di una fabbrica abbandonata, luogo che sottolinea il declino del Giappone post-miracolo economico e che si allinea con la critica generale che Kurosawa muove al suo paese natio. Il Giappone di Kurosawa appare come una Nazione profondamente disillusa, incapace di superare i propri traumi del passato e di elaborare un piano per il presente e per il futuro.
Il fantasma incontrato da Ryosuke invita il ragazzo nella sua “stanza proibita” e da ectoplasma riacquista progressivamente forma materiale: le sue emblematiche parole («io sono reale») sono accompagnate dai suoni di connessione al modem di Internet. Nel mondo non c’è più spazio per le persone ma solo per i loro corrispettivi fantasmatici, virtuali, simulacri fittizi che però diventano, per dirla con Baudrillard, più veri del vero. La presa di coscienza della natura del reale sconvolge Ryosuke: il ragazzo non può far altro che tornare di fronte al cadavere di Harue e vederlo tramutarsi in macchia. Michi porta via Ryosuke dalla fabbrica abbandonata ma l’incontro con il fantasma ha distrutto tutte le metafore illusorie sull’avvicinamento con l’altro in cui credeva. Nell’incapacità di metabolizzare il vero statuto del reale, Ryosuke non potrà far altro che trasformarsi egli stesso in macchia.

V.  Un’apertura verso il futuro?
Nel mostrare la fuga di Michi e Ryosuke da una Tokyo completamente deserta, Kurosawa muta sensibilmente il proprio registro stilistico. Il film sembra ora un disaster movie: la colonna sonora diventa improvvisamente epica e pomposa mentre un aereo in cgi – che sembra provenire direttamente dalla seconda guerra mondiale – si schianta su un edificio causando una gigantesca esplosione. Si ripresenta così, ancora una volta, la ferita mai rimarginata dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, riecheggiati nuovamente anche nei momenti successivi in cui Michi, per recuperare le chiavi di un’imbarcazione, entra in un’abitazione ricolma di figure scheletriche e cenere. Nella fuga via mare, Michi e Ryosuke raggiungono una nave: il film si ricongiunge così con la sua sequenza iniziale. Il capitano, interpretato da Kōji Yakusho (attore feticcio di Kurosawa), informa Michi sulla possibilità di raggiungere l’America Latina: «non importa cosa troveremo, ma ne vale la pena». Possiamo pensare, anche in virtù della scelta attoriale, che la voce del capitano faccia così le veci della voce del regista. Kiyoshi Kurosawa chiude Kairo con un’apertura verso il futuro, un’apertura sottile, immersa in una coltre di cinismo, ma che in ogni caso si presenta come tale. Un’apertura che ricerca però la speranza nel futuro in un luogo diverso dal Giappone, segno di come Kurosawa percepisca la necessità di interventi sociali ben precisi nel suo Paese per poter ambire ad un’effettiva ripartenza dello stesso, ad un “ricominciare” che miri ad unire le persone e non ad allontanarle. Il finale, tuttavia, non è interamente positivo ma ribadisce alcune delle criticità affrontate nel corso del film. Michi si sente felice di essere con «l’ultimo amico che possiede al mondo», ma Ryosuke, come anticipato, si tramuta in macchia, impossibilitato nel tornare alla realtà dopo essere entrato in contatto con la sua effettiva natura distorta. Allo stesso tempo, l’ultima inquadratura di Kairo è una ripresa dall’alto della nave che, ad un certo punto, si blocca, rendendo evidente la sua natura di immagine. Kurosawa, a sua volta, rimpicciolisce quanto appare sullo schermo tematizzando la sua natura finzionale, “spegnendola” infine come se al film venisse simbolicamente tolta la corrente.
Kairo si chiude dunque con un’ulteriore presa in considerazione diretta dello spettatore, centralizzando l’importanza dell’orientamento del suo sguardo sulle cornici che delimitano i confini del reale e del virtuale. Nell’esame di questa relazione, per Kurosawa è necessario mantenere una certa distanza in modo da evitare di essere contagiati dall’insieme di paure incondizionate, alienanti e separatrici provocate dalle nuove frontiere della tecnologia: paure dalle quali l’uomo rischia di non poter più fuggire.
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