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Master MICA - Analisi di "Under the Silver Lake"
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

Gabriele Malagoli -  Under the Silver Lake (2018) di David Robert Mitchell

Introduzione
Segue un elaborato sul film “Under the Silver Lake” (2018) del regista statunitense David Robert Mitchell. Ho deciso di impostare questa analisi in diversi capitoli tematici, in quanto ritengo che utilizzare un approccio prevalentemente “shot-by-shot” non si adatti ad un film del genere; al contrario, una divisione tematica, potrebbe aiutare a comprenderlo maggiormente, trattandosi non tanto di una pellicola che metta in gioco un aspetto tecnico/formale rivoluzionario, quanto più sia veramente un prodotto unico nel proporre un mosaico di linguaggi, suggestioni, tematiche ed esperimenti di scrittura. Quella che seguirà quindi, sarà una disamina di tutti gli elementi che mi auguro provino che si tratta di un prodotto fortemente contemporaneo.
 
Impostare la narrazione: dal poster all’introduzione del protagonista 
Prima ancora di introdurci alle atmosfere misteriose del film, è utile osservare più da vicino il poster con cui ci viene presentato. Vi sono quattro elementi che saltano all’occhio se si presta un po’ di attenzione:
1.    Partendo dall’alto, in mezzo alle bolle, compare la silhouette stilizzata di quello che sembra essere un pirata – si tratta infatti di un personaggio secondario all’interno del film che si presenta sempre travestito da pirata;
2.    La parola “SEX” che si forma all’interno dei capelli della ragazza – il sesso è un tema che viene trattato spesso all’interno del film ed è un motore che a più riprese muove le azioni del protagonista;
3.    L’indizio più palese dei quattro, la scritta “What are they hiding?” e il fatto che si trovi “sott’acqua” è anticipatoria dei misteri che verranno presentati, di qualcosa di nascosto molto in profondità;
4.    Ultimo indizio “visibile” è il volto del protagonista, interpretato da Andrew Garfield, che si forma nelle palme mentre sembra intento ad osservare (o spiare) la donna in acqua.
Nei primi cinque minuti del vengono introdotti un sacco di dettagli che faranno da base all’intero film, mi soffermerei ora sulle prime sequenze per osservare più da vicino le scelte e le impostazioni date alla narrazione e su come venga introdotto il protagonista.
Il primissimo suono che si sente è molto cupo e minaccioso, dopo pochi secondi svanisce lasciando il posto ad una musichetta spensierata – ciò allude al fatto che il film abbia due anime: una più misteriosa e una più comica e grottesca. La musica accompagna a schermo quattro simboli diversi, in sequenza: Unicorno, Tigre, Serpente, Leone – è così che il regista decide di presentare il titolo del film, infatti se si prendono le iniziali di ogni animale (sia in originale che traducendoli in italiano) viene a formarsi la sigla UTSL – Under the Silver Lake. Già prima di iniziare viene quindi anticipata la grandissima centralità che avranno i simboli all’interno della narrazione.
Il film si apre con un lento zoom-in su un graffito che contiene le parole “Beware” (Attenzione) e “killer”, sono messaggi di avvertimento diretti allo spettatore a tenere alta l’attenzione e a non indugiare troppo in quella musichetta sognante, perché non tutto è come sembra. Infatti, di lì a poco, il protagonista assisterà ad una scena piuttosto cruda, la morte di uno scoiattolo, resa attraverso l’utilizzo di uno effetto Vertigo e accompagnato a degli inquietanti fischi in sottofondo.
Sam, il protagonista, ci viene introdotto come un ragazzo piuttosto solo, annoiato e tendenzialmente sospettoso su ciò tutto che lo circonda, un fannullone senza prospettive e prossimo al diventare un senzatetto (impressione accentuata da un movimento di macchina che sembra inseguirlo fino alla porta, per poi svelare un avviso di sfratto).
Dopo pochi minuti, mostra i primi caratteri che anticiperanno il suo essere un antieroe: Sam è fondamentalmente un pervertito che osserva e fantastica sulle figure femminili che vede dal balcone di casa sua – primo richiamo, reso volutamente più grottesco, a James Stewart in “Rear Window” (Alfred Hitchcock, 1954 – in salotto Sam ne espone un poster in bella vista).
Ultimo elemento interessante di questi primi minuti è il fatto che dopo la chiamata con la madre, Sam si addormenti e si svegli grazie alla musica dello stereo della ragazza, la quale (apparentemente) diventerà il suo oggetto del desiderio, quasi come se fosse l’inizio di un bel sogno ma che presto si tramuterà in un incubo (stesso prospettive iniziali della protagonista di Mulholland Drive, David Lynch, 2001).

Un grosso recipiente: il gusto al mescolamento e al post-moderno 
In Under the Silver Lake il regista ha deciso di porre tantissima enfasi sul suo essere un prodotto fortemente meta-cinematografico e sfacciatamente post-moderno. Mitchell infatti ha messo insieme un’opera profondamente moderna, che a più riprese strizza l’occhio al passato, particolarità che anche se non colta dallo spettatore è invece centrale per quanto riguarda un’analisi. Ma andiamo con ordine.
Come già anticipato prima, Sam potrebbe essere identificato come il risultato di un personaggio hitchcockiano passato per le mani di Paul Thomas Anderson: tutte le azioni riconducibili ad un eroe interpretato da James Stewart – spiare le persone dalla finestra (Rear Window) e vagare per la città come una sorta di detective improvvisato alla ricerca della donna oggetto del desiderio (Vertigo, Alfred Hitchcock, 1958) – vengono però declinate con effetto volutamente grottesco e deviato, come per quanto riguarda il personaggio di Joaquin Phoneix in Inherent Vice (Paul Thomas Anderson, 2014) . Il tutto però ragionato e rimodellato seguendo una logica moderna e antieroica: Sam è un cinefilo appassionato di musica, videogiochi e fumetti ma è anche prima di tutto un nullafacente, erotomane, paranoico e assassino (lo diventa sia per via del Songwriter, sia perché è anche quel Dog Killer, ma esplorerò meglio la cosa più avanti).
Per quanto riguarda Sarah (interpretata Riley Keough, ndr) ci viene presentata come una figura molto somigliante a Marilyn Monroe: viene presenta in penombra, con una luce che le rivela perfettamente il viso, mostrando l’iconografico vestito bianco e cappello con tesa larga/calotta stretta come indossati dalla diva, il tutto accompagnato da un gioco di illuminazioni molto assimilabile alle luci usate nei film noir della Hollywood classica. La storia del suo personaggio è paragonabile a quella della Monroe in “How to marry a millionare” (Jean Negulesco, 1953), ciò è testimoniato dal fatto che gli intenti di Sarah siano gli stessi del personaggio della seconda: tre donne che provano a sposare un milionario – Sarah e altre due donne finiranno in una tomba sottoterra con Jefferson Sevence, il milionario fintosi morto per poter ascendere al Paradiso con le sue mogli. Ad avvalorare tutto ciò viene mostrata una foto di Sarah con le due ragazze in compagnia di Sevence, mentre tiene fra le mani le tre bambole di Marilyn Monroe, Betty Grable e Lauren Bacall (protagoniste del film sopracitato).
Per non dilungarmi troppo, vorrei citare almeno altri tre fra la moltitudine di rimandi seminati dal regista lungo tutto il film che ritengo essenziali o quantomeno degni di nota.
Il primo, e forse più ovvio dei tre, riguarda la colonna sonora messa in piedi da Disasterpeace, il quale fa un lavoro profondamente revisionista imbastendo un impianto sonoro composto per la maggior parte da musiche d’orchestra; le quali, dall’inizio alla fine del film, contribuiscono a donare un senso di glamour stile “Grande Hollywood” al tutto e accompagnano il personaggio nella sua mutazione da lavativo a pseudo detective da neo-noir.
Il secondo riguarda la localizzazione del film, Silver Lake è infatti è un quartiere che nei primi anni del Novecento faceva parte di una zona chiamata Edendale, in cui sorgevano una moltitudine di Silent Studios. La scelta di specificare questo dettaglio contribuisce da una parte a far venire a galla il lato meta-cinematografico del film e dall’altra a rafforzare una delle critiche messe in gioco dal film: ovvero quella di vivere in una società assoggettata all’1% di persone facoltose che controllano il mondo (Jefferson Sevence è un grande produttore di Hollywood).
Tutto ciò conduce al terzo elemento curioso, legato alla figura del Songwriter. Egli infatti sembra un odierno Charles Foster Kane nella sua moderna Xanadu(il personaggio e la sua villa in Citizen Kane, Orson Welles, 1940) – una magione in cima ad una collina (in questo caso nel pieno sole di Los Angeles) in cui vive un uomo che come per il personaggio interpretato da Welles, si è costruito un impero con le proprie mani e in segreto tira i fili di settori importanti dell’economia – uno della stampa, l’altro dell’industria della musica – che però, al calare della vita, si ritrova infelice, solo e insoddisfatto:

Sam: “Well you have everything.”
The Songwriter: […] “No.”

Dunque, questi casi sopracitati contribuiscono a fornire al film un’aura di sfarzo ed eleganza da Hollywood dorata degli anni ’40 e ‘50, aura che è funzionale al film per stemperare gli elementi paranoidi messi in gioco per criticare una società moderna sempre più nevrotica e dissoluta.
 
La crisi d’identità: il viaggio attraverso la paranoia 
Under the Silver Lake è quindi un “meltin pot” di linguaggi e simboli, in primis per i generi che è in grado di fondere: il mystery-drama, il noir e gli inserti da commedia grottesca che strizzano l’occhio agli Stoner movie – basti pensare alla scena in cui Sam, nel turbine delle droghe e dell’alcol si mette ballare: “What’s The Frequency, Kenneth?” dei R.E.M. (1994), un momento delirante che spezza del tutto l’atmosfera di mistero a cui ci aveva abituato il regista. Gli elementi sopracitati sono come tasselli che, unendosi, creano un puzzle di atmosfere allucinatorie, oniriche e spesso surreali.
Un’altra tematica cardine di questo film è: il desiderio. Esso viene distinto sotto due punti di vista: da una parte quello sessuale, che come abbiamo già visto influisce molto sulle azioni di Sam; dall’altra, quello di cambiare vita e di essere un’altra persona. Nella scena in cui si trova col suo amico (interpretato da Topher Grace) intento a spiare una ragazza tramite l’utilizzo di un drone, ci vengono forniti un sacco di elementi che puntano in questa direzione.

Sam: “Dude, do you ever feel like you’ve fucked up some very long time ago and your leaving the wrong life, like a bad version of the life you were supposed to have.” […] “I used to think I was gonna be someone that people cared about. Maybe do something really important.”

Questa frase è molto indicativa di ciò che dicevo. Inoltre, le parole che Sam pronuncia subito dopo, avvalorano il collegamento ad un altro tema profondamente contemporaneo affrontato dal film, ovvero quello della paranoia:

Amico: “Everyone thinks that. That’s narcissism and entitlement one on one.”
Sam: “I think somebody is following me. I’m getting that a lot lately, even before all this craziness.”

E a questo punto viene inquadrato un albero vicino ai due ragazzi seguito dal verso di un gufo, ma sull’importanza di questo dettaglio ci torneremo. Il ragazzo continua:

"That's the modern persecution complex. Who needs witches and werewolves anymore, right? Now we have… computers. The entire population is suffering from mild paranoia. See, our little monkey brains, they're comfortable knowing that we're all interlinked and routed together now in some kind of all-knowing alien mind hive. And that is, as a straight-up says, a pit for delusion, for fear…"

Poi si rimette a spiare la ragazza come se niente fosse, indicativo di un pensiero che vorrebbe sembrare accusatorio e fuori dagli schemi ma che presto si dissolve nell’ipocrisia: la tecnologia che scinde il raziocinio dalla morale.
Questi elementi di paranoia portano ad una volontà del protagonista – e inevitabilmente dello spettatore – nel volerci vedere più chiaro e a scavare più a fondo. Tutto il viaggio di Sam è una sintetizzazione di questo processo: la ripetuta visione di cartelloni pubblicitari che ripotano la scritta “I can see clearly now”, spesso inquadrati in soggettiva, potenziano ancor di più il desiderio di entrambe le parti di capire, di comprende cosa stia succedendo nel mondo che si sta osservando.
Il regista compie un abile lavoro nel trasferire sullo schermo questo viaggio, infatti, quasi ogni posto in cui Sam si introduca porta con sé un contenuto fortemente simbolilco:

·             Iniziando col palazzo in cui si reca appena iniziata la ricerca di Sarah, sulla cui cima svetta il “Purgatory”, vi è un rooftop in cui festeggiano persone bramose di eccessi ed emozioni forti – per definizione la rappresentazione del Purgatorio dantesco ha forma cilindrica, facilmente assimilabile alla struttura di un palazzo a più piani, in cui la gente viene punita in base ai peccati commessi (questo dettaglio molto importante sarà utile per la conclusione finale);
·             Ogni altro luogo che non sia quel palazzo invece nasconde sempre dell’altro:
-              la casa del fumettista paranoico – in cui vi è un angusto stanzino segreto in cui si accede solo rannicchiandosi;
-              Il party con atmosfere alla “Eyes Wide Shut” (Stanley Kubrick, 1999) in cui per entrare devi essere drogato – ciò che interessa non è al primo piano ma in un sotterraneo;
-              al culmine di questo ragionamento è il cosiddetto “bomb shelter”, a cui per accedervi si deve passare attraverso una porticina e percorrendo dei tunnel claustrofobici.

Il viaggio dunque, non è solo sul piano spaziale, ma anche in quello mentale. Lo scavare alla ricerca di informazioni viene rappresentato figurativamente come un viaggio nel subconscio, un disvelamento di ciò che è seppellito nei meandri della mente.
Un punto di collegamento fra ciò che è narrazione (superficie) e linguaggio filmico (nascosto ai più) è rappresentato dal “linguaggio HOBO”, inserito volutamente dal regista per spiegare alcuni codici presenti all’interno del film. Mostrandolo e spiegando che si tratta di un linguaggio utilizzato dai vagabondi per comunicare messaggi ai propri pari, Mitchell stuzzica lo spettatore e gli fa notare che in questo film c’è di più di quanto ci si possa aspettare.
Concludendo dunque questo discorso sugli elementi paranoidi all’interno del film (e conseguente disvelamento che mettono in moto) è necessario parlare del cosiddetto “Howl’s Kiss”. Ritengo che quella donna sia totalmente frutto dell’immaginazione sia di Sam, che del fumettista, quest’ultimo probabilmente non è stato ucciso ma si è suicidato. La “Donna Gufo” non è reale, ma si tratta di una proiezione mentale dettata dalle ossessioni del fumettista e di Sam: è la personificazione della paranoia, che prima ti seduce con i suoi discorsi intriganti poi, pian piano, ti uccide. A conferma di ciò vi è il fatto che:
1)          Quando compare in casa è in seguito al lancio di un sasso da parte di ignoti, ciò porta la mente di Sam a crearla per poi vederla scomparire nel nulla, come se appunto fosse stata frutto della sua immaginazione – tutto ciò mentre un attimo prima, nella sua tv stava venendo trasmesso “Invasion of the Body Snatchers” (Don Siegel) un classico del ’56 e considerato film paranoide per eccellenza;
2)          Il verso del gufo che ho citato prima, inserito in quel preciso momento della conversazione fra i due amici. Si può udire esattamente quando Sam confessa di temere di essere seguito da qualcuno.

La contaminazione col videogioco e lo stile “avventura grafica” 
Nell’arco di tutto il film il regista mostra chiaramente quanto sia importante il gioco, soprattutto nella sua forma digitale. Spesso ci vengono forniti dettagli sulla passione videoludica di Sam: all’inizio indossa una maglia con una stampa raffigurante un gioco in pixel-art, possiede console e riviste che parlano di videogiochi (una ci viene mostrata, la Nintendo Power Magazine issue 1).
Tutto ciò ha innescato una serie di ragionamenti che mi hanno fatto giungere a due conclusioni legate al tema del “gioco”:
1)          Tutta la narrazione è strutturata come un’avventura grafica. Ho già anticipato di come il protagonista sia una sorta di James Stewart moderno; questa modernità è data anche dal fatto che più di ogni film thriller a cui siamo abituati, in Under the Silver Lake ogni indizio comporta il proseguimento della storia ed esattamente come in un’avventura grafica vi è l’urgenza di raccogliere degli oggetti (items) per poter continuare, se Sam non trovasse codici, oggetti o non si imbattesse nei personaggi giusti che gli indirizzino la giusta via (NPC, Non-player character), l’avventura si interromperebbe all’istante. Esattamente come in un videogioco, stessa identica logica.
2)          Vi è un lato ludico ancor più sconcertante legato al film. Il lavoro che porto avanti in quest’analisi, di fatto, ha contribuito a trasformarmi per un po’ di tempo in Sam: mi sono messo alla ricerca di codici, dettagli, indizi. Tutto ciò ad indicare che Under the Silver Lake, per chi ha la voglia e la necessità di comprenderlo appieno, innesca un “gioco” che ti trasforma nel protagonista. Un’idea piuttosto inedita e per alcuni versi rivoluzionaria, simbolo di un’esperienza che non si esaurisce subito dopo la prima fruizione, ma anzi continua oltre la durata del film, portandoti a prendere i panni del personaggio che fino ad un attimo prima si sta osservando.

La condizione del protagonista: Inferno e Paradiso coincidono 
Una domanda che non trova soluzione alla fine del film e che da alcuni potrebbe essere considerata un buco di trama o una dimenticanza, in realtà, una risposta ce l’ha. O almeno, di risposte chiare in questo film non ce ne sono quasi per niente, ma se come detto prima chi guarda ha la forza di capirlo si riesce a trovare soluzione ad uno dei misteri più grandi del film. Ovvero chi sia il Dog Killer, di cui si parla in più punti nel film.
Nella prima sequenza in cui Sam osserva la scritta la sua espressione non è di curiosità, ma è un ghigno che lascia trasparire soddisfazione, orgoglio. Subito dopo viene inquadrato a mezza figura e viene rappresentato con la scritta dietro le spalle: inserendolo nella scritta Mitchell sta anticipando l’idea che egli sia effettivamente il Dog Killer; in quanto, per di più, il protagonista si guarda intorno circospetto. Vi è poi un secondo momento in cui viene osservata la scritta dall’alto e lui improvvisamente compare nel frame.
Ma lasciamo per un attimo questo spunto. Per arrivare alla risposta finale, ho la necessità di spiegare una seconda teoria che ho formulato: ovvero quella per cui tutta la struttura narrativa si sovrapporrebbe alla Divina Commedia (Dante Alighieri, 1321), o almeno ci sarebbero molti riferimenti ad alcuni archetipi dell’opera dantesca.
Come citato in precedenza vi è una rappresentazione figurativa del Purgatorio ed è infatti da qui che parte il ragionamento. Sam decide di intraprendere un viaggio nel momento in cui vede la ragazza, o meglio, mentre la spia e non ci viene detto se lui effettivamente stia guardando la ragazza o il cane della ragazza. Ciò quindi potrebbe essere interpretato come se lui, cercando di avvicinare il cane, per caso si imbatta nella ragazza e lì iniziasse collateralmente tutta la ricerca di lei (ancora, desiderio sessuale che muove le sue azioni).
Ciò comporterebbe che Sam si dovesse trovare in un Inferno, ed effettivamente era così: la sua condizione era quella di essere letteralmente un NEET (sigla che sta per un soggetto che  è: "Not in Education, Employment, or Training") sull’orlo di subire uno sfratto e di diventare un barbone.
Sam andrà poi sul rooftop ed è da lì che inizierà il viaggio lungo il Purgatorio (l’augurio delle due ragazze è “Welcome to Purgatory” che genericamente potrebbe indicare un “Benvenuto in questa condizione”), in cui troverà figure che hanno commesso peccati di tutti i tipi: le ragazze Shooting Stars – la Lussuria, il Songwriter – l’Avidità, ecc.
Al termine di tutto sembrerebbe mancare un tassello: il Paradiso in cui lo spirito di Beatrice (morta) accompagna Dante. Al termine del viaggio nel “Purgatorio” Sam trova Sarah (la sua Beatrice) tecnicamente già morta perché si trova sepolta in una tomba, che gli spiega com’è il Paradiso (sta cercando ascendervi). In quest’ottica assocerei l’Homeless King ad una versione distorta e archetipica di Dio: è colui che protegge la setta e più precisamente chi vuole ascendere al Paradiso da Sam che è un assassino (anche in precedenza potrebbe essere stato lui a     cercare di farlo fuori sparandogli mentre fa il bagno nel Silver Lake). Dopo averlo imprigionato, lo accusa di essere il Dog Killer (dato che trasporta con sé i croccantini per attirare i cani e ucciderli) ma poi gli concede la benedizione e lo lascia andare, seguendo una logica di pietà cristiana.
Nella sequenza finale abbiamo la conferma di ciò che sto dicendo: di fronte al fatto di subire uno sfratto lui… sorride in modo beffardo. Sam a questo punto ritorna alla sua condizione originaria, un misto tra Inferno e Paradiso dato dalla precarietà unita all’idea di poter essere libero di uccidere ancora; quel sorriso è lo stesso che aveva nella sequenza iniziale, ovvero la smorfia soddisfatta di uno psicopatico.
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