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Master MICA - Analisi di "Undone"

Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

Alberto Militello - Undone (2019)

Undone. L’animazione per adulti e l’America post-Trump
La serie Prime Original Undone è sicuramente un prodotto che si presta a un’analisi assai stratificata in quanto perfettamente inserito nel contesto della contemporaneità audiovisiva.
Innanzitutto, è una serie animata per adulti, questo è l’unico elemento che sembra mettere d’accordo tutti coloro che ne hanno scritto nel tentativo di catalogarla. Sui generi il discorso si fa più ampio, una diversa lettura della trama può condurre a una diversa interpretazione del genere. Quello che è certo è che le tematiche che vengono fuori non sono esattamente adatte ai più piccoli (malattia mentale, dinamiche familiari, omicidio) e si prestano anche a un discorso che tocca alcuni aspetti dell’attualità.

Le serie animate per adulti
Quello dell’animazione per adulti non è di certo una novità per gli autori. In particolar modo Raphael Bob-Waksberg, creatore di Undone, è stato anche creatore e showrunner di Bojack Horseman e produttore esecutivo di Tuca e Bertie; Kate Purdy, co-creatrice e principale sceneggiatrice, aveva anche lei già partecipato alla scrittura di diversi episodi di Bojack. Entrambi autori che hanno già praticato temi delicati riguardanti la mente umana, mascherati da satira in Bojack, da thriller fantascientifico in Undone. Il regista e pittore, l’olandese Hisko Hulsing, non è assolutamente nuovo a questo universo e la sua scelta da parte dei produttori è stata fortemente legata alla compatibilità del suo stile con i temi trattati , già visti in opere come Junkyard - diretto e illustrato da Hulsing e uscito nel 2003 - ma soprattutto Kurt Kobain: montage of heck, di cui invece ha curato le illustrazioni nel 2014.
In generale il filone delle serie d’animazione riservate agli adulti ha visto una grande diffusione dagli inizi del 2000 e una particolare proliferazione negli ultimi anni, grazie anche alla diffusione delle piattaforme OTT, con varie sfumature, assodandosi sicuramente come genere della contemporaneità. Non che prima non ci fossero serie riservate agli adulti, ma certamente non si distinguevano per qualità dell’animazione o per evoluzione della trama; si pensi a South Park (Parker, Stone, 1997), Beavis & Butt-Head (Judge, 1993) o Daria (Eichler, Lewis Lynn, 1997), di cui la struttura non si allontana troppo dalla staticità della vignetta o della striscia comica. Guardando al presente è invece più facile trovare serie in cui sia l’apparato animato sia la trama siano parecchio più elaborati. La violenza è spesso uno degli elementi più preponderanti, si veda una serie come Mr. Prickles (Carsola, Stewart, 2017); a volte fa solo da accompagnamento a tematiche diverse, come nell’acclamatissimo Rick & Morty (Roiland, Harmon, 2013) o in Primal (Tartakowsky, 2019). Pensando proprio a queste tre serie è interessante notare che siano tutte prodotte per Adult Swim che si presenta come il canale preferenziale di Cartoon Network per la trasmissione di serie animate per adulti, la risposta di un network storicamente legato ai bambini a un cambiamento del pubblico, o comunque alla ormai totale emancipazione del genere animato (anche seriale), non più esclusiva dei più piccoli. Non mancano anche esempi di serie più introspettive e più strutturate come il già citato Bojack Horseman su Netflix o anche Over the garden wall (Patrick McHale, 2014) o (soprattutto dalla terza stagione in poi) Adventure Time (Ward, 2010). Anche queste ultime due sono state trasmesse su CN, ma presentandosi con uno stile più tradizionale e non contenendo la violenza esplicita delle serie tipiche di Adult Swim, sono rimaste nel canale principale, anche perché sono godibili anche da un pubblico più giovane.

Tecnica di realizzazione
Uno degli elementi che meglio lega Undone alla contemporaneità e che merita pertanto un giusto spazio di trattazione, è la tecnica d’animazione. La grande peculiarità nella tecnica adottata per realizzare questa serie, che pur con otto episodi da meno di mezz’ora ciascuno ha richiesto circa un anno per essere realizzata, è il connubio tra rotoscope, pittura a olio e animazione digitale.
La tecnica del rotoscope non è nuova per il cinema, anzi, va a guardare proprio alle sue origini. Tuttavia, gli usi più originali e interessanti si hanno con l’arrivo del nuovo millennio, in particolare guardando al lavoro dello sceneggiatore e regista Linklater, che realizza due lungometraggi utilizzando questa tecnica. Waking life (2001) e A scanner darkly (2006) restano due esperimenti singolarissimi e non è un caso che Tommy Pellotta, produttore di entrambi come anche di altri film che usano il rotoscope, sia anche tra i produttori di Undone. In ognuno di questi due film, il rotoscope è utilizzato in maniera diversa.
In Waking life ci troviamo davanti a un’animazione perennemente cangiante che ci accompagna in quella dimensione onirica che è il film, che segue l’altalenante evolversi di un sogno così come di un pensiero. In certi tratti l’animazione si dimentica completamente del sostrato reale per poi passare a ritratti finemente dettagliati. Anche in A scanner darkly il rotoscope è qualcosa di funzionale a trasmettere un punto di vista, a darci una percezione ovattata e straniata della realtà; ci restituisce insomma una sensorialità alterata dalla droga in un contesto di generale incertezza, in cui non è chiaro chi sia chi o quali siano i rapporti tra le cose e le persone. Non a caso qui ci troviamo davanti un tratto grossolano e stilizzato, se Waking life era una serie di quadri che variava tra più stili pittorici, in A scanner darkly ci muoviamo dentro un fumetto. È chiaro quindi che il rotoscope è un mezzo dalla fortissima carica espressiva e di immensa versatilità.
In Undone è un elemento incredibilmente immersivo che cammina vicinissimo al reale. Da un lato le tecnologie utilizzate per la ripresa e l’animazione hanno raggiunto una sofisticatezza non indifferente rispetto agli anni passati e si riesce, perciò, a restituire delle immagini che scorrono fluidissime (l’animazione è realizzata da un’equipe di venticinque disegnatori in Texas); dall’altro, a prescindere dalla tecnologia, il fatto stesso di usare una tecnica d’animazione così mimetica, è funzionale (ancora una volta) a creare il clima della serie. Chi guarda deve vivere l’incertezza, la vita di Alma in bilico tra due mondi, quello dei vivi e quello dei morti; il presente e il passato; la realtà e l’abisso della sua mente; l’animazione e il live action. Non si può, inoltre, evitare di sottolineare che a differenza dei primi due esempi, qui ci troviamo davanti a una serie tv e non a un film, ribadendo l’ormai consolidato valore artistico della serialità.
A rincarare la dose dal punto di vista dell’animazione, c’è quel quid in più che rende la tecnica di Undone altamente raffinata. Un team di pittori di Amsterdam, di formazione classica e capitanati dallo stesso Hulsing, ha infatti provveduto alla realizzazione del coloring delle immagini provenienti dal Texas e alla realizzazione delle scenografie. Se il rotoscope è all’origine del cinema, qua si aggiunge una tecnica ancora più antica. L’immagine guadagna, così, un calore e una profondità avvolgenti che facilitano il processo di immersione nella scena, ma che allo stesso tempo tengono lo spettatore alla giusta distanza. A dire del regista, il processo è particolarmente complicato e ha richiesto quattro mesi solo per permettere ai vari pittori di “sincronizzare” il proprio stile pittorico al suo, o comunque di farli convogliare in un unico stile che fosse coerente e uniforme.
A questa forma di pittura (classica per antonomasia) e al rotoscope, si unisce il prodigio del digitale che mastica e digerisce queste immagini rendendole abitabili dai personaggi, i dipinti diventano set virtuali e gli attori (che hanno girato in green screen) si muovono dentro a dei quadri. Quadri che in alcuni momenti della serie possono diventare il disegno di un bambino in cui Alma si trova improvvisamente immersa (episodio due). Hulsing sottolinea il fatto che quando si vuole si può vedere lo sfondo e notare il segno della pennellata.
Quindi, ancora una volta ci troviamo di fronte a una dualità tipica del contemporaneo, una tecnica antica imbevuta di modernità, che aiuta a creare quel contesto immersivo, ma allo stesso tempo altamente ambiguo in cui la serie prende vita. E sarà proprio questa coesistenza che ci aiuterà a vivere il dramma di Alma. Una serie animata in maniera più tradizionale creerebbe troppo distacco tra la storia e chi la guarda, una serie in live action richiederebbe l’utilizzo di effetti speciali per dare una forma ai viaggi di Alma, diventando troppo irrealistica; il rotoscope unito alla pittura a olio e all’animazione digitale, invece si trovano precisamente in mezzo, riuscendo ad annullare la discontinuità tra la realtà e le proiezioni mentali della protagonista. L’animazione è perfettamente integrata alla scena e quando esula da essa, e diventa puramente astratta, siamo ormai troppo addentrati nel processo, capiamo troppo tardi di star vivendo un’allucinazione. Credo che tutto ciò sia perfettamente in linea con il percorso di Alma e, più in generale, il percorso della malattia mentale e il non essere in grado di avere una presa solida sulla realtà, di distinguere ciò che esiste da ciò che non esiste, essendo più propensi a credere l’impossibile: avere capacità straordinarie, riuscire ad alterare il tempo e vedere persone che non ci sono. Tutti sintomi tipicamente associati alla schizofrenia. E infatti, come conferma lo stesso regista:

“we’re living a  trip  with  Alma.  In  the  trip  it’s  not  always  clear  if  we’re  experiencing
hallucination,  or  dreams,  or imagination, or flashback or even psychosis. [   ] Even the realistic
scenes feel unreal.”

 
Contenuti
Undone ci si presenta come un thriller fantascientifico, un mistero da risolvere in cui la protagonista scopre in sé dei poteri che trascendono la regola permettendole di avere un rapporto elastico con il tempo, trovando incomprensione nei suoi cari, anche in chi fino all’ultimo ha tentato di assecondarla. Lo spettatore si trova a empatizzare enormemente con Alma, condivide il suo dramma accettando i suoi poteri. Questo può reggere all’inizio. Negli ultimi due episodi, tuttavia, questo quadro va sgretolandosi sempre più. Ci rendiamo man mano conto che ciò che abbiamo visto fino a ora non è oggettivo, è la vista di Alma, sono macchinazioni di una mente brillante. Ma non siamo davanti al classico luogo filmico de “era tutto un sogno della protagonista”, no. Quello che abbiamo sperimentato era effettivamente la sua realtà, negli ultimi due episodi ci viene dato un controcampo che ci fa vedere come i cari di Alma vivono la sua degenerazione.
Prima ancora di iniziare a intraprendere un percorso di analisi tematiche bisogna accettare che Undone è uno show che parla della mente e della sua complessità, e lo fa in maniera superba. La cosa non dovrebbe stupire. Basti guardare alle origini della storia, partendo dagli autori. Abbiamo un Bob-Waksberg che in Bojack Horseman ha largamente raccontato, pur con una comicità più accentuata e irriverente, la depressione e Purdy stessa ha dato un contributo alla stesura di quel dramma, Hulsing poi come abbiamo visto, ha già raccontato il disagio e la depressione con le sue tele. Ma, come se non bastasse, si può dare un piccolo sguardo alla biografia degli scrittori. Purdy in particolare, di origini messicane, per un lungo periodo ha creduto di andare incontro alla schizofrenia in quanto una nonna e dei prozii ne avevano sofferto, trovando ristoro nell’Ayurvetica indigena, proprio come Alma. Bob-Waksberg ha dichiarato inoltre di soffrire di ADHD (disturbi dell’apprendimento), e il padre di religione ebraica (come Jacob) aiutò degli ebrei russi a emigrare.
Tra biografico e lavori precedenti, il quadro sembra chiaro. Undone ci racconta il percorso di accettazione del disturbo, ci aiuta a capire che a lungo, magari, ciò che è stato assunto come malattia vera e propria è solo un modo diverso di usare la mente. Il passo in più è quello di metterlo in scena, renderlo visibile. È risaputo che quando c’è una predisposizione a determinate patologie uno shock può essere un fattore scatenante dei sintomi, ma il difficile con la malattia mentale è che chi ne soffre non sempre ne è cosciente. Se il cervello ci dice che ciò che abbiamo di fronte è vero, strano magari, ma tangibile, facciamo difficoltà a smentirlo. È un po’ lo stesso processo del cinema, della tv e dello spettacolo. Una volta messi davanti allo schermo accettiamo quella finzione e siamo disposti ad allontanarci parecchio dalla realtà pur di restare in sintonia con il protagonista, l’eroe (la shero in questo caso). In altre parole (riprendendo il lessico della pittura), Undone ci dà prospettiva, su noi stessi, sulla natura del tempo e della nostra mente. In questa ottica di idee, Jacob è (letteralmente), lo spettro della malattia.

1.    Il viaggio mentale
Volendoci addentrare un po’ più in profondità, fino ad ora ci siamo limitati allo stile e a dei macro-dettagli di trama. Vorrei iniziare analizzando due elementi nello specifico che da soli aprono più livelli di analisi, ovvero il titolo della serie e il nome della protagonista.
Undone, participio passato di undo, è tanto polisemantico quanto il verbo da cui deriva, do.
Questo già ci riproietta in quell’universo ambiguo e polivalente che è la serie. Ogni possibile significato rispecchia una sfaccettatura. A un primo livello, quello che alimenta il filone del thriller fantascientifico, undo può voler dire “tornare indietro”, “annullare”, “cancellare”, nell’accezione di disfare qualcosa per poterla rifare, come quando si elimina per sbaglio un’e-mail e il telefono ci chiede prontamente se vogliamo annullare questa azione, come Alma che tenta di annullare l’episodio della morte del padre dalla propria vita, sperando di cambiarla e poterla ricostruire. Analogamente questo verbo può intendersi come “spacchettare” (di un regalo, un involucro), e qui ci si ricollega ancora alla parentesi investigativa, anche personale. Alma spacchetta uno strato alla volta le identità di Jacob, chi era per lei, chi era per la madre, chi era per il mondo e poi, forse, chi era veramente. E questo ci apre alla seconda gamma semantica, quella dell’incompletezza. Undone, usato come aggettivo, vuol dire incompleto, (lett. non finito). E già qui il solo titolo della serie ci offre un primo livello di analisi: l’indagine di sé e il viaggio della mente. In aggiunta a ciò, bisogna ricordare il nome della protagonista, Alma, che, molto semplicemente, in spagnolo vuol dire anima, ma anche cuore inteso come centro (core in inglese) .
Prima ancora dell’incidente alla fine del primo episodio, tutti cercano di forzare su Alma una personalità, un’identità mentre lei si sente intrappolata dalla sua routine. Alma, un attimo prima di mettersi in macchina, ricorda alla sorella che loro sono broken people e che il matrimonio e tutti quei loro tentativi di definirsi servivano solo a nascondere un trauma (sulla natura del trauma tornerò più avanti). Nell’episodio cinque Jacob, parlando con Alma, ribadisce: “Happiness can’t be an escape”. È quindi chiaro che questo trauma va fronteggiato, analizzato, ma come? Con la riflessione, con l’introspezione. Non basta dire che c’è, bisogna esplorare la propria mente, ripercorrere il passato. Non è un caso che il costume della piccola Alma sia quello di Dorothy del mago di Oz. In una maniera meno allegra e molto meno lineare, Alma si appresta a fare lo stesso viaggio formativo in cui il suo aiutante è una proiezione di qualcuno che ha conosciuto. Cosa ci dice ancora che quello di Alma deve essere un viaggio mentale? Un altro piccolo indizio si può trovare nella brochure che la protagonista tiene tra le mani nell’episodio sei, quando già molti dettagli del passato sono venuti fuori. La brochure su cui Alma, distraendosi dalla predica, disegna la grotta del Messico in cui dovrebbe avvenire la ricongiunzione con il padre, indica un giorno molto specifico che è il 20 di aprile 2019. La data non è casuale, negli Stati Uniti (e poi nel mondo), il 20 di aprile (4/20 nella scrittura americana) è, in ambito della controcultura, la giornata mondiale della Cannabis, altro elemento che ci rimanda a una sorta di straniamento mentale. In più sia la grotta, sia il fatto che sia la giornata di Pasqua (sia ebraica che cristiana) sono entrambi elementi che indicano il passaggio, la connessione tra due realtà.

2.    Cosa racconta della società?
Abbiamo accettato fin qua l’importanza che questo show dà all’introspezione, in cui la mente è vista come un intero universo in cui è possibile muoversi, in cui tutti i momenti coesistono ma anche come un archivio, o meglio, una cantina. Nell’episodio quattro, infatti, Jacob spiega ad Alma come controllare il suo potere, che diventa più difficile da tenere a bada quando prova emozioni forti. Così le scorrono davanti tutte le esperienze più profondamente dolorose della suavita, e che sono state riposte, appunto, nel mind’s basement, nel quale si accumulano anche esperienze che non si ricorda di aver vissuto o addirittura non sperimentate direttamente da lei, ma dai suoi avi. È quindi chiaro, a questo punto, che lo show tenti di comunicare qualcosa di più. A chi si riferisce questo dolore ancestrale?
È risaputo che dal lontano 11 settembre del 2001 il mondo, e in particolare gli USA, hanno vissuto un’importante crisi d’identità, dovuta al trauma dell’attentato. Ma c’è, a parer mio, un nuovo trauma che ha toccato il cuore di una certa parte di americani, ovvero l’elezione di Donald Trump. Come un’infezione su una ferita ancora aperta. Una grossa parte di autori, registi e scrittori americani ha risentito particolarmente di questo episodio. La paura più che del soggetto, delle idee che vi orbitano attorno, del clima di odio e separazione che ha generato e alimentato, nonché la reazione a catena che ne è scaturita, o meglio tutto quell’insieme di fenomeni avvenuti in un breve lasso temporale nella seconda metà degli anni ‘10 del duemila: la Brexit, Trump, Bolsonaro e via dicendo. Tutte figure e movimenti che si portano dietro, se non addirittura esercitano, la riduzione della libertà d’espressione sulla cresta di nuovi nazionalismi che ripropongono il culto della “purezza” di una nazione che si riconosce solo in un insieme ristretto di determinati ideali e concetti. Per gli USA ha trovato un rinnovato vigore la difesa dei confini e l’odio verso le minoranze della popolazione e contro gli immigrati, soprattutto orientali, ma anche sudamericani (che di certo minoranza non sono). Potremmo definire questa scia come la cultura “del muro”, quella che vuole la separazione. La crisi sorge nel momento in cui una popolazione così storicamente diversificata come quella americana deve porsi da una delle due parti di questo muro. Si è come chiamati a definirsi, ma come si fa a definire una cultura che è nata dall’unione di molte altre? O si sfocia negli estremismi, o nell’appropriamento culturale o nello storpiare la storia per creare una versione che calzi meglio. Molti film e serie TV recenti hanno trattato questi temi in maniera più o meno diretta. Per riassumere il concetto, penso a un momento in Blackkklansman (Lee, 2019) in cui la coppia di agenti riceve la tessera del KKK e Zimmerman riflette:

“I’m a Jewish, yeah, but I wasn’t raised to be [   ] and now I’m in some basement denying it out loud. I’ve never thought much about it and now I’m thinking it all the time”.


Di questo Undone si fa portavoce. Provando a inserire il discorso all’interno dello show, vorrei rianalizzarne alcuni elementi.
Molti personaggi non sono americani al cento per cento: la madre di Alma, Camila, è messicana e Sam (come vediamo nell’episodio 5) è di origine indiana.
Camila ci fornisce un quadro molto chiaro di cosa sia essere un immigrato in America. Tra i personaggi, è l’unica a non essere statunitense per diritto di nascita e che cerca di proteggere il suo status cercando più di tutti la routine, la normalità (“bathtubs can be fun too”, episodio cinque), cercando una situazione stabile per le proprie figlie ed essendo un membro attivo della comunità, senza perdere la connessione con le proprie origini. È lei che vuole convincere la piccola Alma a operarsi così da poterle parlare in spagnolo. Quella dell’udito, tra l’altro, è la prima delle molte scelte che Alma deve compiere alla ricerca della sua identità.
Chi sono, quindi, gli americani “puri” in questa serie? Reed (il fidanzato della sorella di Alma, Becca) e i suoi genitori. Completamente ciechi al dramma subito Alma e la sua famiglia. Reed, completamente preso da se stesso e del tutto incapace di leggere Becca, e la sua famiglia addirittura riluttante nei confronti di questa unione tra classi differenti.
C’è un altro personaggio che è interamente americano e che diventa una nuova chiave di lettura della serie: Jacob. Il padre di Alma. Se si analizza la serie dal suo punto di vista tutto acquista già più linearità, lui nel tentativo di risanare e “guarire” sua madre, tenta ed esperimenta, analizza tutte le culture aborigene per cercare anche il più sottile collegamento ad esse, culture che chiaramente non gli appartengono, ma che vorrebbe far proprie, alla ricerca di una remota identità comune a cui aggrapparsi. Tenta letteralmente di perfezionare il viaggio nel tempo. In generale molti prodotti affrontano questo dilemma, nella maniera più varia, ma questa attitudine può benissimo essere esemplificata da una scena dell’episodio nove della prima stagione di Atlanta (Glover, 2016), Juneteenth in cui un ricco magnate (bianco) colleziona cimeli africani e si fa paladino della cultura afroamericana, professandola e arrivando al razzismo dal verso opposto, volendo necessariamente affibbiare una regione africana d’origine al protagonista, che però è di Atlanta. Interessante, nell’episodio 8, la risposta di Alma a Sam quando la mette in guardia sui rischi del viaggio nel tempo, facendo riferimento a Back to the future (Zemeckis, 1985): “I guess time travel works differently for white people”. In questo contesto, Jacob rappresenta la parte americana di Alma, il trauma vero che dà origine alla crisi di identità è la sua morte, ciò che Alma indaga è quella parte di sé, quel modo di essere americani, la parte che si scontra con l’enorme società di produzione di armi, la parte che compie e cerca di mascherare azioni discutibili, che cerca disperatamente di modellare il tempo per il suo tornaconto, per evitare il trauma piuttosto che affrontarne le conseguenze.
In più interviste gli autori hanno detto che Undone è una serie in cui una persona impara un modo diverso di vivere il tempo. Ovvio che si riferisca alla trama, ma la si può anche leggere in relazione al rapporto tra gli USA e la storia. Molte loro ricorrenze infatti, diventate ormai simbolo e cuore della cultura statunitense, nascono da storpiature della storia, da appropriazione di ricorrenze di altre nazioni o dalla creazione di festività o istituzioni per celebrare la composita identità nazionale (Thanksgiving, Columbus day, Cinco de Mayo, Black History Month). A proposito, è emblematico nell’episodio sei il momento in cui Alma e Sam si soffermano a guardare una messa in scena della battaglia dell’Alamo, uno dei momenti fondanti dell’identità americana, ma che viene tradotto da Alma in “quello che vogliono che tu ti ricordi è quello che ti insegnano a scuola: i messicani sono persone cattive, che vogliono sottrarre il Texas ai loro legittimi proprietari. Legittimi proprietari? Amico, ma di cosa stiamo parlando? I Caddo? I Comanche, gli Apache?”. Una scena che giova alla trama nel momento in cui tratta dell’alterazione del passato per la creazione di un’identità. Di nuovo è una frase di Jacob (nell’episodio otto) che sintetizza tutto:

“you just wanna have a father you can love, so you see what you wanna see”

Un altro episodio interessante è quello dell’incontro tra Alma e la ballerina di Antigua, la danza indigena. E in questo rituale delle popolazioni aborigene americane si può trovare uno spunto per la soluzione della crisi di identità, riflettendo anche l’episodio autobiografico di Purdy. La danza serve a onorare gli antenati e può andare avanti anche per diversi giorni:

“[we’re] Just trying to empty ourselves, emotionally, spiritually and phisically. Trying to open ourselves to whatever comes next. [...] We find a lot of strenght that way, through just being nothing”.

Cioè per trovare la propria “alma” bisogna spogliarsi di tutto, disfare tutte le nostre identità. Non è un caso, infatti, che nel momento di maggiore delirio, quando tutte le certezze stanno crollando addosso a Alma e anche Sam non è più disposto a crederle, che la nostra protagonista scappi in Messico per assistere al ritorno del padre e all’annullamento del trauma, non trovando nulla. Ed è lì, di fronte una piramide Azteca e una grotta vuota che Becca suggerisce: “Let me take you home”, in USA. La serie si chiude con il volto di Alma scosso da qualcosa di fronte a lei, avrà visto il padre? o ha semplicemente iniziato a fare i conti con la realtà?
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