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Max von Sydow e Ingmar Bergman, l'infinita partita con la storia del cinema
Ci sono attori carismatici che vengono ricordati per la loro presenza scenica. Ci sono attori che si ricordano, invece, legati al nome di uno specifico autore che li ha resi celebri. Ci sono anche attori rimasti impressi per la loro duttilità, ovvero l'innata capacità di indossare come un guanto i ruoli più disparati. E poi ci sono attori come Max von Sydow (10 aprile 1929 – 8 marzo 2020) che racchiudono magicamente tutte queste singole peculiarità.

«Questa è la mia mano, posso muoverla, e in essa pulsa il mio sangue. Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo. E io... Io, Antonius Block, gioco a scacchi con la Morte». (Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, 1957)


Elegante, distinto, vagamente algido ma dallo sguardo umanissimo, tipicamente nordico nell'aplomb, sempre impeccabile nell'assoluta dedizione verso una professione, quella dell'attore, che ha contribuito a codificare grazie alle sue straordinarie capacità espressive. Svedese di Lund, ma naturalizzato francese, Max von Sydow, nel corso della sua straordinaria carriera, è stato Gesù nel kolossal La più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), padre Merrin ne L'esorcista di William Friedkin (1973), il misterioso sicario Joubert ne I tre giorni del Condor di Sydney Pollack (1975) e l'oscuro presidente della Precrime in Minority Report di Steven Spielberg (2002). In una filmografia costituita da quasi ottanta film, ha scritto pagine memorabili di cinema anche per registi del calibro di Francesco Rosi, Valerio Zurlini, Mauro Bolognini, John Milius, David Lynch, Woody Allen e Martin Scorsese, tanto per fare qualche esempio. Ma, la sua collaborazione artistica che rimarrà per sempre scolpita nella storia della Settima arte è quella con il regista e sceneggiatore Ingmar Bergman, anch'egli svedese, imprescindibile riferimento nel cinema e, più in generale, nell'arte del Novecento. Misteri della fede, silenzio di Dio, interrogativi sul senso dell'esistenza, angoscia, paura della morte, magia e traumi del passato che riaffiorano inesorabili sono solo alcuni dei temi presenti nelle pellicole di Bergman interpretate da Max von Sydow.

Tra tanti titoli di importanza capitale, abbiamo scelto i cinque film più rappresentativi del sodalizio tra i due artisti, quelli che restituiscono al meglio una idea di cinema assolutamente irripetibile. Eccoli qui di seguito, in rigoroso ordine cronologico:

1) IL SETTIMO SIGILLO (1957)



Il cavaliere crociato Antonius Block (Max von Sydow) torna finalmente a casa dopo aver passato dieci anni in Terra Santa a combattere. Ad attenderlo trova la Morte (Bengt Ekerot) che lo sfiderà a una partita a scacchi: finché dura la partita, Block avrà salva la vita.

Girato in soli trenta giorni, con un budget minimo, il film prende spunto da una pièce teatrale (Pittura su legno) che lo stesso Ingmar Bergman aveva scritto un paio d'anni prima. È in assoluto la prima pellicola dell'autore svedese totalmente incentrata sulla tematica religiosa: il regista, influenzato dalle teorie esistenzialiste, firma uno script in cui il “silenzio di Dio” è la paura più grande che l'essere umano deve affrontare. Attraverso un percorso di enorme spessore allegorico, Antonius Block si trova di fronte a diversi tipi di tragedie umane: la guerra, la peste, l'adulterio e il fanatismo. Il cavaliere torna a casa sfiduciato, deluso dalla Crociata a cui ha preso parte, assalito dai dubbi sull'effettiva esistenza di Dio; a lui si oppone il suo scudiero (Gunnar Björnstrand), materialista e disinteressato a farsi troppe domande. In mezzo a una pellicola dominata dal pessimismo (vicino, in questo senso, al pensiero di Jean-Paul Sartre) c'è spazio anche per una buona azione: Block distrae la Morte e riesce a salvare una famiglia di saltimbanchi. Straordinariamente suggestivo dal punto di vista visivo, il film colpisce per il bianco e nero di Gunnar Fischer, e per una serie d'immagini che paiono ispirarsi alle sacre rappresentazioni medievali. Memorabili i dialoghi tra i due sfidanti («Ti tocca il nero. Si addice alla Morte, non credi?») e la sequenza finale in cui la Morte accompagna le sue vittime, che si tengono per mano: una danza macabra, ispirata all'iconografia del Tardo Medioevo, che Bergman girò al crepuscolo in pochi minuti, in un momento in cui la luce gli apparve perfetta e senza la possibilità di battere un secondo ciak. Alla grandezza del risultato finale ha contribuito anche un cast in ottima forma: Max von Sydow, al suo primo ruolo importante in carriera, riesce a tenere testa all'eccellente Bengt Ekerot e al ben più esperto Gunnar Bjӧrnstrand. Il titolo del film fa riferimento all'Apocalisse di Giovanni («Quando l'Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo per circa mezz'ora»). Vincitore del Premio Speciale della Giuria al 10° Festival di Cannes.

2) IL VOLTO (1958)



Metà ‘800. Il dottor Vogler (Max von Sydow), un illusionista che si finge muto, è a capo di una "compagnia medico-ipnotica" itinerante. Insieme alla moglie Manda (Ingrid Thulin), che si finge uomo, viene condotto dalla polizia al cospetto del dottor Vergerus (Gunnar Björnstrand), un medico positivista diffidente nei confronti della magia: questi è disposto a rilasciare Vogler solo nel caso in cui riuscisse a rimanere stupito dai suoi trucchi.

Dopo aver raggiunto il successo mondiale con Il settimo sigillo (1957) e Il posto delle fragole (1957), Ingmar Bergman ha dato vita a un'opera più misteriosa e sfuggente rispetto ai due maestosi film precedenti, in grado di approfondire il rapporto di fascinazione tra la magia e il maestro svedese. Sono infatti mostrate, con toni funerei e riflessivi tipici dell'autore, le ossessioni tipicamente bergmaniane per la finzione/illusione e, di conseguenza, per il rapporto tra cinema e teatro, in una realtà magica in cui l'inesplicabile mette a dura prova il pensiero razionale. Seguendo un raffinato espediente straniante, le sottotrame amorose sono generalmente trattate con un taglio ottimista e leggero che accentua i tanti momenti cruciali virati alla farsa o al grottesco. Attraverso una profonda riflessione umana, trovano spazio i consueti interrogativi sull'esistenza di Dio e sul senso della vita, ai quali non viene data risposta. Metafisico, oscuro ed enigmatico, eccellente nell'alternare atmosfere cupe a risvolti da commedia attraverso le maschere dei suoi protagonisti. Forse troppo rigido nel contrapporre visibile e invisibile, ragione e spirito, uomo e donna, ma, in ogni caso, è l'ennesima, preziosa opera di uno dei più grandi autori della storia del cinema. Magistrale bianconero di Gunnar Fischer. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, dove vinse il Premio speciale della giuria e il Premio Pasinetti.

3) LUCI D'INVERNO (1963)



Il pastore protestante Tomas Ericsson (Gunnar Björnstrand), dopo aver perso la Fede a causa della morte della moglie, evita il dialogo con una maestra elementare innamorata di lui, Märta (Ingrid Thulin), e tenta di dissuadere dall'idea del suicidio Jonas (Max von Sydow), che soffre di manie depressive.

Seconda pellicola appartenente alla trilogia sulla religione di Ingmar Bergman, girata dopo Come in uno specchio (1961) e prima de Il silenzio (1963), Luci d'inverno è tra i film più intensi e personali che il regista svedese abbia firmato negli anni Sessanta. Gelida e austera, la pellicola è un urlo disperato che l'autore esprime verso ogni approccio distorto al cristianesimo, criticando l'inettitudine di alcuni religiosi ma lasciando comunque al suo protagonista coscienza e consapevolezza filosofica, nonostante una freddezza a tratti eccessiva. Ma Bergman mette in discussione innanzitutto se stesso, costituendo un film a tesi sull'agonia dell'uomo solitario rispetto a Dio. La predominanza del bianco (fotografia di Sven Nykvist) accentua ancora di più l'idea di assenza di Dio, della Fede, della pietà del tempo che scorre inesorabile o della parola. Messa in scena teatrale e evidenti ascendenze strindberghiane, nel tipico stile bergmaniano. I primi piani di drammatica espressività accentuano quanto i personaggi siano miserabili, eccetto forse Märta, interpretata da una Ingrid Thulin al suo meglio. Il protagonista è ispirato al padre del regista che, come Tomas, perse la Fede a causa di un lutto. Senza musica.

4) L'ORA DEL LUPO (1968)



Il pittore Johan (Max von Sydow), misantropo e solitario, vive insieme alla moglie relegato su un'isola lontana dal mondo. Sul suo diario annota demoni e paure che verranno a galla confondendo mondo reale e immaginario.

«L'ora del lupo è l'ora tra la notte e l'alba. È l'ora in cui molte persone muoiono, quando il sonno è più profondo e quando gli incubi sono più reali». Ingmar Bergman realizza il suo “horror” nella consapevolezza che l'orrore è il terreno basico della natura umana, la dimora inquieta che pullula di nevrosi, deliri e ossessioni. Ne deriva un film dolorosamente personale che inscena la progressiva perdita di realtà di un artista intrappolato nella sua stessa immaginazione. Al centro dell'opera vi sono infatti alcuni dei temi più cari al regista: l'isolamento, la follia come condizione feconda di creatività, il potere demiurgico dell'arte che arriva a carnalizzare la propria materia, la paura per un'alterità enigmatica. Indimenticabile la luce abbagliante del flashback, i suoi bianchi in grado di accecare, come fosse la libera manifestazione di un rimosso troppo devastante per essere tollerato. Menzione obbligata per Max vvon Sydow e Liv Ullman che, come loro solito, giganteggiano.

5) LA VERGOGNA (1968)



Eva (Liv Ullmann) e Jan Rosenberg (Max von Sydow), violinisti, abitano sull'isola di Gotland, lontani da una guerra non specificata, cibandosi con i frutti del loro orto. Quando il conflitto li raggiunge, i militari li interrogano, i cadaveri occupano le campagne e il mare, il matrimonio perde la sua armonia.

Saggio sulla guerra, ma soprattutto sui suoi effetti, che corrisponde a un capitolo “extra” della trilogia di Ingmar Bergman dedicata a Fårö (l'isola a nord di Gotland da cui il regista era ossessionato), a cui appartengono Persona (1966), L'ora del lupo (1968) e Passione (1969). Il film è diviso in due parti, una sulla pace che si tramuta in caos e una che tratta la trasformazione dei personaggi: le conseguenze del conflitto bellico vanno a intaccare anche la pace della vita di coppia portandola a un'evoluzione che il regista svedese ha indagato più volte nel corso della sua carriera. La sobrietà iniziale presto si trasforma in disperazione, ma a far da contrasto, più che la violenza fisica della guerra, è la violenza psicologica e disperante in cui i personaggi si immergono, soprattutto in una fase conclusiva che culmina con una delle inquadrature finali più devastanti di tutto il cinema del suo (grande) autore.
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