Metacinema: quando la Settima arte parla di se stessa - Le vostre analisi!
30/10/2022
Al termine del webinar dedicato a "Metacinema: quando la Settima arte parla di se stessa" abbiamo chiesto ai partecipanti di scrivere un'analisi su uno dei momenti “metacinematografici” più significativi della storia della Settima arte. Ecco le più interessanti:

Tra sogni (infranti) e realtà
di Lucia Cirillo

Sullo schermo c’è Gassman che sta avendo una discussione con lei. Ma non è questo quello che si sta realmente proiettando. Lei, Adriana, è in quella sala perché è una mascherina e sta soltanto immaginando di essere la protagonista femminile. È una scena di pochi secondi, quasi all’inizio di “Io la conoscevo bene” (Pietrangeli, 1965). In questo film il cinema che cita se stesso si fa pretesto per descrivere lo spirito di un tempo nel quale alla fantasia e al sogno si è sostituito un malinteso senso di riscatto da una realtà “scadente”. Nel film oltre al citato Gassman sono presenti praticamente tutti gli attori in auge in quegli anni: Tognazzi, Enrico Maria Salerno, Manfredi …, chiamati stavolta a ricoprire ruoli volutamente marginali o respingenti, riconducibili essi stessi a un esperimento meta cinematografico in cui il concetto di divismo proprio mostrando una realtà meschina e a suo modo umiliata proprio da quel corto circuito edulcorato che la “macchina cinema” ha contribuito a creare.

E così, sulla scorta di questo dipanarsi di promesse mancate, inganni ripetuti ma mai messi bene a fuoco, loschi personaggi che hanno accresciuto il senso di vuoto senza riuscire a trasformarlo in rabbia dignitosa, si assiste ad un secondo fondamentale passaggio metacinematografico: un‘intervista “montata ad arte” da “addetti ai lavori” cinici e in malafede in cui lei rivede se stessa (in quella stessa sala dell’inizio del film, ma stavolta per davvero) in cui appare come una povera sciocca che risponde male a domande che, nella realtà, avevano avuto altro senso e scopo. Il cinema come fabbrica dei sogni infranti, un ritorno amarissimo ad una realtà che rimane incapace di insegnare alcunché e dalla quale non si trova altro rifugio se non una canzone troppo allegra per fare da sottofondo ad un tragico epilogo. 

Il cinema che racconta se stesso. Qualche volta con il coraggio di dirne anche male .

Cantando sotto la pioggia… a Downton Abbey
di Martina Cossia Castiglioni

A settant’anni dalla sua uscita nel 1952, Cantando sotto la pioggia resta uno dei musical più celebri e amati della storia del cinema. La brillante sceneggiatura di Betty Comden e Adolph Green, alcuni numeri musicali indimenticabili, ma soprattutto la felice collaborazione tra Gene Kelly e Stanley Donen (che insieme firmano sia le coreografie, sia la regia), sono i principali elementi di successo della pellicola.
Cantando sotto la pioggia è un film che parla di cinema, e non solo perché molte scene si svolgono su un set o all’interno di sale cinematografiche. La storia infatti è ambientata durante il delicato passaggio dal muto al sonoro. Siamo nel 1927, e il grande successo de Il cantante di jazz spinge molte produzioni hollywoodiane ad abbracciare la novità del cinema parlato. Due grandi divi del muto, Don Lockwood (Gene Kelly) e Lina Lamont (Jean Hagen), rischiano la loro carriera, a meno di trasformare il loro fallimentare ultimo film in un moderno musical. 
A suggerirlo è Cosmo (un superbo Donald O’Connor), amico fraterno e collaboratore di Don, che per rimediare alla sgradevole voce di Lina consiglia che a doppiare la diva sia Kathy (Debbie Reynolds), la fidanzata di Lockwood. In Cantando sotto la pioggia, dunque, c’è un film nel film, ma anche un pezzo della storia di Hollywood. Un gioco meta cinematografico talvolta straniante, se pensiamo a una curiosità legata alla lavorazione: nella versione originale nelle scene in cui Kathy/Debbie Reynolds doppia Lina/Jean Hagen, in realtà è Jean Hagen che doppia Debbie Reynolds che la sta doppiando. 
È probabile che Julian Fellowes, il creatore di Downton Abbey, si sia direttamente ispirato o abbia voluto omaggiare Cantando sotto la pioggia nel soggetto della seconda pellicola tratta dalla serie televisiva. In Downton Abbey II. Una nuova era, una troupe cinematografica arriva nella residenza dei Crawley per girare un film. Anche qui abbiamo due divi del muto: il bel Guy Dexter (Dominic West) e la bionda, capricciosa, Myrna Dalgleish (Laura Haddock), che può ricordare Lina Lamont. Anche qui la produzione rischia di dover cancellare il progetto perché, in Gran Bretagna come negli Stati Uniti, ormai «tutti vogliono film parlati». Anche qui il personaggio di Mary Crawley (Michelle Dockery) suggerisce di trasformare la pellicola in un film sonoro, e sarà lei a doppiare Myrna, che ha problemi di dizione. Ma mentre Lina Lamont, pur incarnando la figura della bionda un po’ oca, era abbastanza scaltra da ricattare la produzione affinché nessuno venisse a sapere che a doppiarla era Kathy, Myrna ha soprattutto paura di perdere il lavoro. All’epoca l’avvento del sonoro aveva segnato la fine della carriera di molti attori. In Downton il personaggio di Guy Dexter è molto lucido a riguardo: «Prima i film erano mimati e musicati. Ora andranno recitati. Non ci vorranno più» dice in una scena al maggiordomo Barrow, «E ci sono veri attori che recitano nei teatri».
In termini non molto diversi si esprime anche Kathy in Cantando sotto la pioggia, quando incontra per la prima volta Don. A proposito dei divi del muto, infatti, afferma: «Non dicono una parola, non recitano, non fanno che smorfie. Recitare è parlare, declamare parole meravigliose, immortali, Shakespeare, Ibsen!»
Curioso che sia Kathy sia Guy “declassino” gli artisti del cinema muto, per loro non veri attori, contrapponendoli a quelli che lavorano a teatro, depositari di un’arte “più alta”, unici in grado di recitare davvero.
Nella scena del suo primo incontro con Don, Kathy dice anche che il cinema è fatto per intrattenere le masse. Cantando sotto la pioggia si apre con la folla in attesa dell’arrivo dei due divi sul tappeto rosso. In Downton è la servitù (con l’eccezione del maggiordomo Carson, troppo legato alle tradizioni e refrattario alla modernità) ad amare il cinema, a seguire i divi del momento. Mentre i membri più anziani della famiglia Crawley sembrano avere verso la settima arte una certa diffidenza e un atteggiamento snobistico.
Il meta cinema in Downton è pretesto anche per scene più leggere. Come quando il maggiordomo Carson (l’attore Jim Carter) e Lady Maud Bagshaw (Imelda Staunton), si incontrano casualmente nello stesso negozio. Lei lo aiuta a scegliere un cappello e il commesso li scambia per marito e moglie. I fan più appassionati della serie sanno che nella vita reale i due attori sono sposati da diciannove anni.
Certo in Downton II il momento di passaggio dal muto al sonoro è anche metafora di cambiamenti sociali e di costume che a loro volta fanno presagire la fine di un’epoca, di un mondo rappresentato da uno dei personaggi più amati della serie, che non a caso muore in una delle ultime scene. E forse c’è anche un ulteriore gioco meta cinematografico, un messaggio per chi ha amato tanto Downton: è finita, non ci sarà un terzo film. Forse.

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