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Million Dollar Baby e Invictus: La poetica dello sport nel cinema di Clint Eastwood

Tutti i pugili, in un modo o nell'altro, sono dei testardi.
Alcuni di loro sono convinti di saperne sempre più di te.
In verità, anche se hanno torto marcio, anche se insistere talvolta può portarli alla rovina,
se non tengono il punto fino alla fine allora non sono dei veri pugili.


Era il 2004 quando, alla veneranda età di 74 anni, Clint Eastwood firmava Million Dollar Baby: un’opera destinata a rappresentare, con ogni probabilità, l’apice di una carriera sfolgorante e indefessa. Dietro e davanti alla macchina da presa.

Oggi, a distanza di 16 anni e 13 (!) film, il regista dagli occhi di ghiaccio non è soltanto uno dei cineasti contemporanei più prolifici, ma anche l’incarnazione di uno spirito di dedizione al processo artistico-creativo che non si piega davanti al tempo e all’età. Alla vigilia del suo novantesimo compleanno, Clint Eastwood continua a battersi fieramente sul ring dell’industria cinematografica: spesso, sferrando colpi ben assestati e lasciando lo sfidante senza fiato; talvolta, cadendo in fallo. Vuoi per tracotanza, vuoi per ingenuità, anche i più grandi campioni conoscono il gusto amaro del fallimento. Ma Eastwood non si arrende: riaggiorna le proprie tecniche e le adatta al prossimo match. Testardo come un pugile, tiene il punto fino alla fine.

Cestista in giovane età, istruttore di nuoto dell’esercito presso la base di Fort Ord (l'incarico gli risparmiò la partenza per la Guerra in Corea), Clint Eastwood custodisce il retaggio dell'educazione sportiva e lo trasfonde nel mezzo cinematografico: ciascuna realizzazione sembra scaturire dallo stesso spirito di sacrificio cui un atleta professionista consacrerebbe la propria preparazione atletica; ciascun personaggio rappresenta per il regista una nuova sfida, una nuova occasione per sottoporre corpo e psiche a un inedito tour de force di stimoli competitivi.

Logicamente, la mentalità agonistica di Clint Eastwood raggiunge l’apoteosi rappresentativa in due lungometraggi in particolare, ovvero il sopracitato Million Dollar Baby e il successivo Invictus (2009): punta di diamante della produzione eastwoodiana il primo; opera meno riuscita e decisamente più retorica la seconda. Senza volerci soffermare sulle differenze qualitative che fanno dei due film due prodotti (quasi) agli antipodi, ciò che più ci interessa è mettere in luce come, in entrambi i casi, il concetto di sport faccia rima con quello di rivalsa sociale: sia essa obiettivo del singolo (o meglio, dei singoli), o missione di una collettività (o meglio, di un’intera Nazione).



Veniva dalla zona sud-ovest del Missouri,
dagli aridi e inospitali altipiani di Ozark, 
alla periferia di Theodosia,
piantata in mezzo ai cedri e alle querce, 
sperduta tra il nulla e l'addio.

Maggie Fitzgerald ha quasi trentadue anni: l’ultimo anno lo ha trascorso a lavare i piatti e a lavorare come cameriera, cosa che fa dalla prima adolescenza. Stando a quanto dice Frankie Dunn, per formare un pugile ci vogliono almeno quattro anni: dovrebbe dunque compierne 37 per raggiungere un livello decente. Ma è un mese che tira pugni a un sacco veloce senza risultati: forse inizia a rendersi conto della verità. C’è un’altra verità, però: il fratello è in galera, la sorella truffa la previdenza sociale fingendo che suo figlio sia ancora vivo, il padre è morto e la madre pesa oltre centoquaranta chili. Se dovesse ragionare a mente fredda, dovrebbe tornare a casa, trovare una roulotte usata, comprarsi una friggitrice e dei biscotti. Il problema è che Maggie si sente bene soltanto quando si allena. Se davvero è troppo vecchia per dedicare la propria vita al pugilato, allora non le resta niente.




La boxe è qualcosa di innaturale perchè si fa sempre tutto al contrario.
Quando vuoi spostarti a sinistra non fai un passo a sinistra: spingi sull'alluce destro.
Per spostarti a destra usi l'alluce sinistro.
Invece di allontanarti dal dolore, come farebbe qualunque persona sana, gli vai incontro.

Frankie Dunn è un anziano allenatore di boxe scorbutico e solitario: da anni gestisce una vecchia palestra di periferia insieme a Scrap, il suo unico amico, formando giovani pugili che, raggiunto il professionismo, lo abbandonano per passare sotto l’ala protettrice di nuovi manager. L’irruzione della tenace Maggie nella sua vita farà vacillare tante ostinazioni attorno alle quali ha costruito una fortezza (apparentemente) inespugnabile: piegato e inasprito da vecchie ferite che non vogliono ricucirsi, il vecchio guerriero scruta dal margine del ring. Eppure non è in grado di distogliere lo sguardo dalla competizione: di fronte alla risoluta perseveranza di Maggie, vero e proprio “toro scatenato” disposta a qualunque sacrificio, Frankie non può che cedere al richiamo della gara. E, paradossalmente, non può che abbassare la guardia.




Gli insegni come stare in piedi, come tenere allineate gambe e spalle.

Per creare un pugile devi portarlo al grezzo, come fosse un pezzo di legno.
Non basta dirgli di dimenticare tutto quello che sa:
deve liberarsene completamente, dentro. 

Formare un atleta significa modellarne ex novo corpo e mente, preparando entrambi a una “nuova vita” fatta di sacrifici, soddisfazioni, successi, fallimenti. Agli occhi dell’allenatore, il giovane alle prime armi si offre come materia grezza da plasmare: così come lo scultore deve smussare e scalpellare per trasmutare l’elemento naturale in opera d’arte, così l’allenatore deve limare e scolpire l’atleta per conferirvi la forma migliore. 



Mo cuishle significa mio tesoro. Mio sangue

Tra allievo e maestro viene dunque a instaurarsi un profondo legame di interdipendenza, anche competitiva: il primo identifica il secondo come modello di riferimento cui ambire e con il quale, molto spesso, scontrarsi; il secondo sceglie di trasfondere nel primo le proprie conoscenze e i propri insegnamenti, assicurando la prosecuzione di una tradizione e riassaporando, attraverso la carriera del proprio erede, quella stessa adrenalina provata in passato sulla propria pelle.

E poi ricominci daccapo un'altra volta.
E ancora, e ancora, e ancora.
Finché non gli sembrerà di essere nato con i guantoni.

Finché non gli sembrerà di aver vissuto esclusivamente con e per i guantoni, per il piacere della fatica, per la commozione data dalla vittoria, per l'ostinazione scaturita dalla sconfitta.


A cinque anni di distanza da Million Dollar Baby, Clint Eastwood torna a competere per un titolo sportivo con Invictus – L’invincibile (il lungometraggio trae il proprio titolo dalla celebre poesia firmata William Ernest Henley, le cui parole servirono da conforto a Nelson Mandela durante i penosi anni di prigionia).
Nel mezzo, ben quattro film di notevole spessore, ciascuno esempio della versatilità narrativa dell’instancabile regista: il dittico bellico composto da Flags of our Fathers e Lettere da Iwo Jima, Changeling (probabilmente una delle sue opere più cupe e disturbanti) e Gran Torino (in un'America multietnica, metropolitana eppure di frontiera, il pistolero-soldato Eastwood è retaggio e lone survivor di un'epoca ormai tramontata).

Nel 2009, alla vigilia dei Mondiali di Calcio in Sudafrica, Clint Eastwood si trasferisce in quella terra risorta sulle macerie dell’Apartheid per raccontare uno degli episodi politici e sportivi più felici della sua storia. 
1995: reduce da ventisette anni di prigionia (1964-1990), il neoeletto Presidente del Sudafrica Nelson Mandela si trova a fare i conti con un Paese ancora diviso dal pregiudizio razziale. In occasione dell’imminente Coppa del Mondo di Rugby, competizione che avrà luogo proprio in Sudafrica, Mandela cercherà di unificare il proprio popolo sotto un'unica bandiera, fedele a una politica di riconciliazione e pacificazione. 

Per poter costruire la nostra Nazione, dobbiamo tutti cercare di superare le nostre aspettative

Appesi i guantoni da boxe al chiodo, Clint Eastwood elegge a protagonista del racconto uno sport di squadra, metafora di un’intera Nazione chiamata a far fronte a una sfida senza precedenti.
Sorvolando sull’esito più o meno felice del film, spesso vittima di derive alquanto stucchevoli (la più importante delle quali, a nostro parere, è rappresentata dalla trasformazione dello sport da emblema della cultura popolare e dei suoi valori a veicolo di trasmissione di un messaggio retorico ai limiti del populismo), ciò su cui intendiamo porre il focus è il cuore pulsante dell’intera narrazione, ovvero il binomio costituito dai concetti di esempio e leadership.

Rendo Grazie a qualunque Dio ci sia
per la mia anima invincibile. 
Sono il padrone del mio Destino,
sono il Capitano della mia Anima.




Questa volta a “sfidarsi” e a sostenersi vicendevolmente, a trarre esempio l'uno dall'altro non ci sono un allievo e un maestro, bensì due capitani: l’uno di una squadra di rugby (François Pienaar/Matt Damon) l’altro di un’intera Nazione (Nelson Mandela/Morgan Freeman). Entrambi chiamati a svolgere un «lavoro difficilissimo» in un periodo storico alquanto peculiare, Pienaar e Mandela diventeranno simboli di una riappacificazione inedita. Forse apparente, certamente fin troppo edulcorata nella sua trasposizione cinematografica, ma indubbiamente significativa. 

Tu come ispiri la tua squadra a dare il meglio?
Come fai a renderli migliori di quanto loro credano di essere?
Come facciamo a ispirarci alla grandezza quando niente di meno ci può bastare?


Soli al mondo, Frankie e Maggie nutrivano l’uno per l’altra un viscerale sentimento di affetto e stima: lo sport, la boxe in particolare, rappresentava per loro il carburante necessario alla sopravvivenza. In Invictus, invece, la genesi dei rapporti e la motivazione che ne scaturisce trova tutt’altro terreno di gioco: ad essere spronata, a vincere, a perdere è un’intera squadra, non un singolo combattente. E con essa un intero popolo.
Viene dunque scalfita la potenza emotiva data dalla dimensione più intima della lotta (contro se stessi, contro gli altri, contro i propri limiti), ma a controbilanciare interviene quel particolare senso di appartenenza a un gruppo, a una tradizione, a un credo che – qui sì ci concediamo una fugace chiusa retorica – soltanto lo sport è in grado di insegnare.

 

Viola Franchini

Maximal Interjector
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