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Pete Docter: verso l’infinita profondità dell’anima...e oltre
«C’è una ragione per cui molti animatori decidono di intraprendere questa strada: siamo stati messi alla prova a livello sociale. Siamo gli ultimi che vengono scelti per la squadra di baseball, i bambini goffi che si siedono da soli e non parlano con gli altri. Per me era molto più semplice disegnare qualcuno, piuttosto che parlargli».

 
Pete Docter, nell’introduzione al libro The Art of UP!, racchiude in poche righe quello che sembra essere lo specchio di quanto si mostra nelle sue opere, che si tratti di sceneggiatura o della vera e propria regia, che sta andando sempre più in profondità nell’indagine dell’animo umano. La sua carriera, come del resto quella di molti animatori della Pixar, inizia alla CalArts, e più precisamente in quell’aula A113 ormai entrata nel mito (e in tutte le opere Pixar), in cui hanno potuto incontrarsi personalità come John Lasseter, Andrew Stanton, Tim Burton e Brad Bird. È naturale quindi che Lasseter, dopo aver fondato la Pixar, abbia chiamato Docter come collaboratore: non (ancora) come regista o animatore, bensì come sceneggiatore per Toy Story – Il mondo dei giocattoli, dove viene data immediatamente prova della rivoluzione in atto: il ribaltamento di prospettiva dal basso (i giocattoli) verso l’alto è evidente, come del resto la maniera di scrivere e tratteggiare i protagonisti. Woody e Buzz non sono gli eroi senza macchia cui le fiabe classiche hanno da sempre abituato, anzi, sono i loro difetti ad essere messi in luce, che si tratti dell’invidia del cowboy o della superbia dello space ranger: rivoluzione premiata con la candidatura alla miglior sceneggiatura originale. Ed è solo l’inizio.

«Ehi Mike, potrà sembrarti pazzesco, ma non credo che la bimba sia pericolosa».
«Be', allora teniamocela! Ho sempre desiderato un cucciolo in grado di uccidermi!».

 
Il 2001 è l’anno dell’esordio alla regia per Docter, con Monsters & Co.: Mike e Sulley entrano immediatamente nell’immaginario comune come figure iconiche, non solo per la straordinaria realizzazione del pelo di Sulley (3 milioni e 200 mila peli animati singolarmente, che nelle sequenze di corsa arrivano a 14 milioni e 500 mila), ma, ancora una volta, per il ribaltamento di prospettiva messo in atto. Il mostro spaventato da una bambina, un mostro che quindi da (quasi) carnefice diventa (quasi) vittima, arrivando ad una fine analisi socio-culturale per cui nella società attuale è sempre più complesso spaventare – e, di conseguenza, stupire – come dimostra la sequenza d’apertura del film. A conti fatti Mike non fa paura – come viene ben esplicitato nel sequel, Monsters University, di Dan Scanlon – e anche Sulley è tutt’altro che malvagio: lo spavento, per loro, è semplicemente una professione, un lavoro, non un mezzo per fare del male volontarimente, come invece avviene con Randall. Candidato all’Oscar per il Miglior Film d’Animazione, è solo la prova generale per le statuette che arriveranno negli anni successivi.

«Alla fine non era altro che una casa».


 
Pochi incipit sono stati così incisivi, romantici e amari come quello di Up, film con cui Pete Docter ha conquistato il primo premio Oscar. La storia tragica di Ellie e Carl, che con notevole delicatezza ha inserito una pellicola animata anche la tematica dell’aborto e dell’impossibilità di avere figli, è l’introduzione utile per comprendere come mai il burbero e anziano Carl sia così legato alla sua casa, ai suoi ricordi, al punto da trasformarla in un’enorme mongolfiera sostenuta da palloncini colorati, presto entrati nell’immaginario comune. Il viaggio come filo conduttore di una trama in cui si scava nella profondità delle relazioni tra generazioni differenti, tra due anime con età diamentralmente opposta ma entrambe desiderose (più o meno consapevolmente) di un riscatto personale, di un nuovo inizio, anche se differente dagli obiettivi e sogni che pensavano di avere all’inizio del loro percorso.

«Volevo parlare di quel momento difficile in cui l'innocenza dell'infanzia finisce e ci si ritrova nel mondo degli adulti senza ancora sapere bene come funziona. Quando l'infanzia finisce si prova una sensazione dolce e amara al tempo stesso. È questa l'atmosfera del film».
 

Il 2015 è l’anno del capolavoro, di un’opera delicata e toccante capace di indagare con semplicità quello che è uno dei più grandi misteri dell’umanità: la mente. Il 2015 è l’anno di Inside Out, grazie al quale Docter riceverà la seconda, meritatissima, statuetta. Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto sono le 5 emozioni che abitano la mente di Riley, la (co?) protagonsita del film, che gioca sul passaggio continuo dal mondo esterno e da come questo venga vissuto e proiettato nella mente della giovane. Non solo, però, perché tra omaggi al cinema come fabbrica dei sogni e momenti di pura ilarità, c’è soprattutto spazio per una riflessione sulla stretta interconnesione tra Gioia e Tristezza, oltre che sui ricordi: che siano quelli che conserviamo o quelli che, nostro malgrado, dobbiamo lasciare andare. Bing Bong, l’amico immaginario di Riley, è tra i personaggi che senza dubbio resteranno indelebili nella memoria. 
 

Questo il viaggio di Docter, che se a livello professionale andrà sempre più in alto (è direttore creativo della Pixar dal 2018, dopo le dimissioni di Lasseter), nei suoi film cerca di andare in profondità, toccando le corde più nascoste del cuore di ciascuno di noi. Verso l’infinita profondità dell’anima...e oltre.

Lorenzo Bianchi

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