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Se7en: come David Fincher ha riscritto la caccia al serial killer, tra etica e omicidi
«Ci sono sette peccati capitali: Gola, Avarizia, Accidia, Ira, Superbia, Lussuria e Invidia. Sette».



È il 1995 e David Fincher, celebre regista di videoclip musicali, ha all’attivo solamente Alien³, un film in cui la sua poetica fatica a farsi spazio, schiacciata dalle esigenze di trama e di franchise. La storia di due detective della omicidi (uno molto giovane, l’altro a una settimana dalla pensione) è lo script che gli viene offerto per il suo nuovo progetto, un’opera che tuttavia rischiava di non entrare nella sua filmografia, visto che lui l’aveva giudicata un buddy movie classico e tutt’altro che memorabile. Ma questo, prima di leggere la sceneggiatura di Andrew Kevin Walker: Fincher comprende la portata rivoluzionaria di una trama simile e quindi accetta di diventare il regista di uno dei thriller più iconici e memorabili degli anni’90, e forse non solo. Se7en

«Vediamo un peccato capitale ad ogni angolo di strada, in ogni abitazione e lo tolleriamo. Lo tolleriamo perché lo consideriamo comune. Insignificante. Lo tolleriamo mattina, pomeriggio e sera».

 
I peccati capitali come punto di partenza, come progetto folle, come provocazione. Non è un caso che il serial killer si chiami John Doe, con cui generalmente si indicano i soggetti non identificati, senza identità: il peccato non ha volto, non ha nome, il peccatore invece sì. In un film tanto stratificato, è come se Fincher e Walker portassero l’attenzione dello spettatore sul fatto che i peccati non sono delle idee astratte, ma che in realtà prendono vita quotidianamente sotto i nostri occhi, spesso tollerati, ignorati, più o meno consciamente. È una provocazione molto forte, che spinta dall’eccesso omicida di John Doe, porta comunque con sé riflessioni etiche interessanti, con uno sguardo cinico e pessimista, in un film in cui, per usare le parole di Brad Pitt, il solo raggio di sole è il personaggio di Gwyneth Paltrow. Lei funge quasi da angelo, immune dal peccato e quindi vera e unica vittima sacrificale di un intreccio in cui non c’è spazio per il lieto fine e dove, attenzione, il Male trionfa. 

«L'apatia è una soluzione, insomma è più facile stordirsi con qualche droga piuttosto che dover affrontare la vita; è più facile rubare quello che si vuole piuttosto che guadagnarselo. È più facile picchiare un figlio che educarlo. Diamine! L'amore costa, costa impegno, lavoro...»

 
Il peccato più grande è evidenziato dal detective Somerset (Morgan Freeman), ormai a un passo dalla pensione ma con ancora dentro di sé la forza e la rabbia di stupirsi del male che serpeggia nel mondo. Il rapporto tra lui e il detective Mills (Brad Pitt) è un altro dei punti di forza di Se7en: una relazione crescente, che inizia sotto la pioggia e termina (temporaneamente?) nel deserto, che da gelido e distante rapporto di lavoro diventa amicizia, che va oltre l’essere allievo e mentore. Anche perché Mills non si sente allievo e men che meno Somerset vuole fargli da maestro: iracondo e impulsivo il primo, riflessivo e pacato il secondo, sono le due facce complementari della stessa medaglia, due modi differenti di relazionarsi con la crudeltà del mondo. Mai più Fincher arriverà a questo livello con una coppia di detective, avvicinandosi solo con Mikael Blomqvist e Lisbeth Salander in Millennium, e parzialmente con i protagonisti di Mindhunter. Opere in cui, come avviene in Zodiac, la caccia al serial killer diventa elemento imprescindibile, quasi cardine di una filmografia in cui l’estetica ha un ruolo fondamentale: spesso gelida, asettica, geometrica e controllata in ogni dettaglio. Non è così in Se7en, dove invece si percepisce il calore emotivo in una pioggia malinconica e battente, che toglie ogni possibilità di luce, ma che allo stesso tempo avvolge lo sguardo dello spettatore e dei protagonisti.

«Hemingway una volta ha scritto: ‘Il mondo è un bel posto e vale la pena lottare per esso’. Condivido la seconda parte».

Lorenzo Bianchi
Maximal Interjector
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