Sugar, la serie noir unica nel suo genere
27/05/2024
Bisogna precisarlo subito: Sugar non è una serie tv come le altre, piuttosto un oggetto misterioso, alieno, fuori dagli schemi, come solo Apple Tv+ (l’altra faccia di Netflix, più libera e meno schematica) sa fare. Un ibrido inusuale tra noir classico, thriller contemporaneo e sci-fi dal sapore vintage. Solo 8 puntate della durata di 30 minuti l’una, che vedono un Colin Farrell in grande forma come protagonista assoluto.

Quello che ci si aspetta dal concept iniziale è una detective story nello stile hard-boiled, che affondi le radici nella tradizione americana di Raymond Chandler,  che segua le gesta di un investigatore privato monolitico, affascinante, possibilmente in un’assolata Los Angeles anni ‘40, dove le ombre proiettate dal perenne sole accecante si confondano con i riflessi del potere corrotto e dell’avidità. Gran parte di questi elementi è effettivamente presente, ma presto si combinano e confondono con numerose altre fonti e ispirazioni.

Il prologo: Giappone, oggi, il detective privato John Sugar (Farrel) deve risolvere un caso di rapimento giovanile. Il bianco e nero di queste prime inquadrature incontra le immagini digitali girate con camera a mano. Ecco che subito il classico si confonde con il contemporaneo. Dopo questa prima missione, il nostro viene richiamato nella città degli angeli, dove l’immagine torna a colori. Qui fa capolino lo schema del noir tradizionale: Sugar viene incaricato da un potente produttore cinematografico (eccellente James Cromwell) di ritrovare la nipote misteriosamente scomparsa. Una volta cominciate le indagini però, l’investigatore si rende presto conto che la ragazza è al centro di un vortice sinistro di corruzione che coinvolge la sua stessa dinastia degenerata. 

La Los Angeles di questa serie somiglia alla sua celebre versione noir solo nella sigla. Durante le puntate invece non compaiono mai, se non di sfuggita, le principesche ville con piscina, il Griffith Observatory o la Hollywood Boulevard. È invece una L. A. di sobborghi urbani e di quartieri piccolo borghesi quella che viene battuta da John Sugar sulla sua Corvette del 1953. Ancora tradizione contro innovazione: il protagonista è un uomo limpido, dai sani principi, perennemente vestito in un elegante abito nero con bretelle e gemelli, che si muove come uno dei suoi eroi dei film anni ’40 e ’50 che ama citare. Insomma un completo pesce fuor d’acqua, un uomo che vive nel passato, quasi un personaggio stereotipato all’interno di un contesto invece iperrealista. 

Lo scontro e incontro tra stili differenti è alla base di questo serial singolare e crea da subito un effetto straniante. Alle vicende che a tratti seguono uno schema canonico si oppone uno stile visivo ipercinetico, in un montaggio spesso forsennato con continue ellissi temporali e un’immagine digitale poco ritoccata che non fa nulla per coprire questa sua natura mai analogica. Nella regia iperbolica di Fernando Meirelles e Adam Arkin aleggia lo spirito di Steven Soderbergh, ispirazione evidente, ma le fonti dello showrunner e sceneggiatore Mark Protosevich sono numerosissime. Dai classici di Howard Hawks e Orson Welles, a Essi vivono di John Carpenter, ma anche The Twilight Zone e X Files, Chinatown di Roman Polanski per arrivare fino a Lo straniero di Camus, oltre che al già citato Chandler. 

Tutte queste matrici e omaggi si fondono in un’opera senza precedenti, che coglie a piene mani citando e omaggiando ma che infine stabilisce una sua personale narrativa. Un’operazione che è meta-testuale e teorica, perché il distacco che si crea nello spettatore è ricercato e indotto dai creatori stessi, che con la medesima distanza applicano a questa materia filmica multiforme un approccio quasi scientifico. Una scelta stilistica che viene giustificata da un’enorme ribaltamento che arriva quasi alla fine della storia e contribuisce a rendere Sugar un diamante unico nel suo genere, un’opera aliena, polimorfa. Come alieno è anche l’interprete scelto, Colin Farrel, attore sopraffino, dalla carriera imprevedibile, iniziata come protagonista di action talvolta modesti e culminata in una seconda età dove ha privilegiato scelte autoriali e meno di mercato. 

I difetti della serie stanno forse nel non riuscire sempre a far coincidere le sue molte nature e anche in una sceneggiatura complessa che non risolve tutti i nodi in modo convincente. Ma Sugar rimane una ventata d’aria fresca, un esperimento dirompente che si impone in un panorama televisivo spesso dominato da prodotti solo apparentemente innovativi, in realtà indulgenti. 


Cesare Bisantis

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